La croce e la mezzaluna
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La croce e la mezzaluna

Lepanto 7 ottobre 1571: quando la Cristianità respinse l'Islam

  1. 204 pagine
  2. Italian
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La croce e la mezzaluna

Lepanto 7 ottobre 1571: quando la Cristianità respinse l'Islam

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A partire dalla conquista turca di Costantinopoli, avvenuta nel 1453, l'intera Europa visse nell'incubo di essere fagocitata dall'Islam. Fino a quando nel 1566 salì sul soglio pontificio il domenicano Antonio Michele Ghisleri, con il nome di Pio V. Inquisitore inflessibile, il nuovo papa fu artefice di un vero capolavoro: la Lega Santa che, raccolte sotto il segno della Croce tutte le potenze cristiane dimentiche per la prima e unica volta dei rispettivi egoismi, costituì una grande flotta multinazionale e il 7 ottobre 1571, nelle acque di Lepanto, ebbe la meglio sulle forze navali turche in una spettacolare battaglia, decisiva per il destino dell'Occidente. Arrigo Petacco ci offre un resoconto avvincente di questa pagina fondamentale della storia europea, ricostruendo con la consueta abilità narrativa le varie fasi della lotta secolare che mise a confronto la Croce e la Mezzaluna, i ritratti dei protagonisti, le condizioni di vita sulle galee e le tecniche di combattimento, per concludere con la cronaca dettagliata e coinvolgente di una delle più grandi battaglie navali di tutti i tempi.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852013751
Argomento
History
Categoria
World History

IV

L’ASSEDIO DI MALTA

Solimano era tormentato dal dubbio. Lassù, lungo il selvaggio confine ungherese, le sue armate mordevano i freni: la ricca Vienna, le cui mura erano state per due volte sfiorate dalla sua cavalleria, era ora a portata di mano. Ma i visir frenavano i suoi ardori ritenendo fosse più importante conquistare il controllo del Mediterraneo e indicavano Malta come il principale obbiettivo da raggiungere. Lui, Solimano, che di natura era terragno, avrebbe invece preferito cavalcare alla testa del proprio esercito come aveva sempre fatto in tutta la sua vita. Del mare d’altronde diffidava: il gene del marinaio non circolava nelle vene dei sultani selgiuchidi originari dall’Asia centrale. Si erano avvicinati al mare per forza di cose, ma avevano sempre preferito cavalcare piuttosto che navigare e avevano infatti affidato tutte le imprese marittime agli esperti corsari barbareschi. Ora però era giunto il momento di scegliere, perché sia sul mare sia sulla terraferma si presentavano grandi opportunità.
Dal 1562, dopo aver imposto una sorta di pace condizionata a Ferdinando I, che alcuni anni prima aveva ereditato l’ambita corona di imperatore romano dal fratello Carlo V, Solimano attendeva soltanto l’occasione propizia per marciare su Vienna e impossessarsi di quella prestigiosa corona cui riteneva di avere diritto. Da parte sua, Ferdinando si era sforzato di tenerlo buono pagando regolarmente il suo tributo alla Sublime Porta e colmandolo di doni personali e gratificanti. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1564, anche suo figlio Massimiliano II aveva proseguito questa timida politica di appeasement sperando di mantenere lo status quo. Ma si trattava di un’illusione. Solimano non aveva alcuna intenzione di rinunciare al grande sogno di cogliere la «mela rossa» e considerava Vienna l’ultimo ostacolo che gli impediva di portare i suoi cavalli ad abbeverarsi in piazza San Pietro.
Il Gran Turco non nutriva molta stima per le truppe cristiane schierate lungo il confine ungherese. «Sono tutte femmine» lo incalzavano i suoi generali ingolositi dalla prospettiva del ricco bottino. «Tutte le volte che ci siamo scontrati con loro li abbiamo sempre battuti.» Ma più se ne parlava, dentro e fuori dal Divano, e più diventava complicato scegliere il prossimo obbiettivo: Vienna o Malta?
Ormai, l’Impero ottomano si allungava dal Nord dell’Ungheria fino agli estremi limiti del Maghreb quasi a formare le fauci aperte di una tenaglia pronta a rinchiudere l’Europa intera. Per Solimano e per i suoi generali, Vienna avrebbe dovuto essere la prossima tappa, sia per la sua importanza simbolica, sia per la ricchezza del bottino che avrebbe garantito. Ma il gran visir Sokolli, il suo fidato consigliere, propendeva a prestare più ascolto al vecchio Dragut e agli altri ammiragli che si ostinavano a preferire Malta, sia per la sua importante posizione strategica al centro del Mediterraneo, sia per la presenza di quegli insolenti «figli di Satana» che, da Malta, continuavano a insidiare le loro rotte.
Forse, considerato che Solimano era un sovrano assoluto, alla fine anche il suo gran visir si sarebbe prudentemente piegato al suo volere, ma a far pendere la bilancia intervenne inaspettatamente un potere che nel mondo musulmano non aveva mai avuto voce in capitolo: quello delle donne. O meglio, delle concubine dell’harem imperiale sul quale ora dominava la principessa Mirhmah, la figlia prediletta di Solimano, una donna astuta e molto influente. Sarà infatti Mirhmah, più per un capriccio femminile che per altro, a indurre il vecchio sultano a modificare i suoi progetti e a mutare addirittura il corso della storia. Ma andiamo per ordine.
In quegli ultimi anni, alcuni Stati cristiani, stanchi delle annuali incursioni dei corsari, avevano messo da parte le loro beghe intestine e avevano fondato una sorta di «patto mediterraneo» per allestire una forza navale, multinazionale, capace di riequilibrare la situazione nello scacchiere. Non tutti avevano aderito a questa nuova crociata lanciata da re Filippo II, succeduto nel 1556 al padre Carlo V sul trono di Madrid. La Francia, per esempio, sempre invidiosa della Spagna, aveva preferito continuare la sua tacita alleanza col Gran Turco e non aveva smesso di rifornirlo di materiale strategico (quasi tutti i cannoni che armavano le navi e i forti del sultano portavano impresso il giglio borbonico, che significava made in France). Anche Venezia, che era allora la più grande potenza navale, si era mantenuta neutrale preferendo continuare a godere dei sostanziosi privilegi che la pace con il sultano le garantiva. Ma Spagna, Genova, Firenze, Roma e i vicereami spagnoli di Napoli e di Sicilia, unitamente ai cavalieri di Malta, avevano messo in mare duecento galee con le quali erano andati, nel maggio del 1559, di nuovo all’assalto di Gerba, l’isola davanti a Tunisi che era diventata il principale centro di raccolta delle flotte barbaresche di Dragut.
Colti di sorpresa, i corsari erano stati costretti a fuggire, ma l’isola non era rimasta a lungo nelle mani degli aggressori. Appena un anno dopo, Dragut e il comandante della flotta turca Piale Pascià erano tornati nelle acque di Gerba con un corpo da sbarco composto di diecimila giannizzeri armati e decisi. La battaglia nell’isola durò ottanta giorni. I cristiani, al comando di don Alvaro de Sande, si batterono con grande valore, ma dovettero arrendersi quando vennero a mancare le provviste di acqua. Per la lega cristiana fu una clamorosa disfatta. Un centinaio di preziose galee furono affondate, mentre le altre, private di alberi e di timone, vennero rimorchiate fino all’imboccatura del Bosforo dove Solimano attendeva i suoi corsari. Il vittorioso Dragut, in segno di omaggio, aveva consegnato al sultano il vessillo strappato dall’ammiraglia nemica sul quale era dipinto Cristo Crocifisso. Duemila prigionieri, incatenati tre per tre, con alla testa don Alvaro, erano stati fatti sfilare per le vie della città con grande sollazzo per le folle islamiche.
Anche in quell’occasione, Solimano non aveva mancato di dare una prova del suo proverbiale pragmatismo. Ammirato dal valore dimostrato dal comandante spagnolo, gli offrì il comando di una armata per far guerra alla Persia, allora dominata dai «protestanti» sciti, a patto, naturalmente, che egli rinnegasse la fede cristiana. Don Alvaro respinse orgogliosamente l’offerta e finì al remo come tutti i suoi soldati.
La vittoria turca di Gerba rafforzò naturalmente il «partito marinaro» di Costantinopoli, ma ebbe soprattutto un effetto negativo e deprimente su Filippo II, cui mancava l’audacia e la forza d’animo di Carlo V, il suo augusto genitore. Di carattere introverso, sospettoso, accentratore inflessibile, ma anche religiosissimo fino ai limiti del fanatismo, Filippo aveva abbandonato la corte di Madrid per ritirarsi nel cupo Escorial dove viveva come un eremita tormentato dalle sue incertezze e dalle sue paure. La Chiesa lo considerava un campione della fede, ma i ripensamenti e le ambiguità del sovrano non mancavano di sconcertare persino il suo confessore.
D’altro canto, Filippo era assillato anche da realistiche preoccupazioni. Nelle Fiandre, il suo esercito faticava a reprimere la rivolta scatenata dalla Riforma protestante e sul mare pareva essere perseguitato dalla sfortuna: molte delle sue galee erano colate a picco a Gerba o erano andate ad arricchire le formazioni barbaresche, altre ventisette, sospinte dalla tempesta, erano andate a fracassarsi contro le scogliere di Herradura e altre ancora erano state catturate da Dragut al largo delle Eolie. «Con appena trentacinque vascelli» gli aveva scritto allarmato il viceré di Napoli, «Dragut tiene ora il regno in trappola.»
Le galee rappresentavano allora il deterrente indispensabile per una grande potenza marittima e di conseguenza, fino a quando i cantieri spagnoli non avessero colmato i vuoti, la flotta di Filippo non sarebbe assolutamente stata in grado di affrontare altre battaglie. Come se ciò non bastasse, i «moriscos» di Granada, che negli ultimi trent’anni erano rimasti relativamente tranquilli, avevano cominciato a rialzare la testa. I «moriscos» erano le popolazioni musulmane della Spagna meridionale che, forzatamente convertite al cristianesimo dopo la Reconquista, non avevano rinunciato alla loro fede. Ora, eccitati dalle vittorie riportate dai «veri credenti» contro gli infedeli, avevano assunto la pericolosità di una polveriera in procinto di esplodere. Erano infatti convinti che, in caso di sollevazione, il sultano sarebbe corso in loro aiuto.
Liquidata dunque la flotta spagnola e considerando che Venezia si manteneva neutrale, a fronteggiare l’insidia turco-barbaresca erano rimasti soltanto i cavalieri di Malta. Guidati da un vecchio lupo di mare, mezzo monaco e mezzo corsaro, di nome Mathurin Romegas, questi frati guerrieri rappresentavano, alla fine dei conti, l’ultima spina nel fianco dell’Impero ottomano. Audaci e combattivi, essi assaltavano le galee e le basi musulmane con una ferocia predatrice niente affatto inferiore a quella dei loro avversari. Anch’essi infatti esercitavano la guerra di corsa, non trascurando, a dire il vero, di assaltare pure qualche nave cristiana se c’era la prospettiva di un ricco bottino. Come i barbareschi, avevano adottato il sistema del riscatto e trattavano i prigionieri come schiavi forzandoli al remo o usandoli come manovali per irrobustire le fortificazioni della loro isola.
Fu appunto durante una di queste incursioni (i cavalieri le chiamavano caravane), che Romegas si impadronì di un convoglio turco sul quale viaggiavano alti personaggi della Sublime Porta, compresa la nutrice di Mirhmah, la figlia prediletta di Solimano. Ma oltre agli altolocati prigionieri (che gli avrebbero fruttato un cospicuo riscatto), il corsaro cristiano si era anche impadronito di un ricco forziere colmo di pietre preziose destinate alla principessa, la quale, appena informata dell’accaduto, andò su tutte le furie e, d’accordo con il «partito» dell’harem, preparò freddamente la sua vendetta.
Solimano che, sia pure a suo modo, amava la «famiglia», fu da quel momento tormentato dalle sue concubine le quali, fingendosi addolorate per i tanti musulmani ridotti in schiavitù, lo supplicavano di sterminare quei «diavoli» di cavalieri che osavano mettere al remo i fedeli servitori del Profeta. Anche quando il sultano si recava ogni venerdì a pregare nella grande moschea, l’imam di turno, probabilmente imbeccato da Mirhmah, non perdeva occasione di sermoneggiare sullo stesso argomento proclamando che solo «la Spada invincibile del sultano» avrebbe potuto spezzare le catene di quegli «sfortunati le cui grida tormentavano le orecchie del Profeta di Allah».
Da parte loro, i membri del «partito marinaro» avevano adottato una tattica ancora più astuta. I visir sapevano che, quando si riunivano in consiglio, Solimano ascoltava tutti i loro discorsi restando seduto dietro una grata nascosta da una tenda. Di conseguenza, essi erano sempre molto prudenti poiché consapevoli che un’affermazione sbagliata avrebbe potuto mettere in gioco anche la loro testa. Ma quando scoprirono che l’harem era schierato con loro, si fecero più audaci. Convinti che se il sultano fosse stato lasciato libero di decidere di testa sua non avrebbe esitato a scatenare l’offensiva in Ungheria, nei loro conversari i visir tendevano a enfatizzare i vantaggi che sarebbero scaturiti dalla conquista di Malta e a ingigantire le difficoltà che avrebbero ostacolato la presa di Vienna.
Propenso ad accontentare le sue donne e stimolato dalle opinioni espresse dai suoi ministri, prima di prendere una decisione Solimano volle ascoltare anche i suoi esperti corsari. Costoro indicarono senza dubbio Malta come l’obbiettivo prioritario. Il loro odio per i cavalieri era viscerale. Anche il vecchio Dragut era stato categorico: «Malta è un nido di vipere da estirpare» gli aveva detto. «I cavalieri sono dei valorosi combattenti e le loro galee continuano a importare una grande quantità di archibugi. Se non li fermiamo diventeranno sempre più pericolosi.»
Gli archibugi, per la verità, non mettevano paura a Solimano: si ostinava testardamente a sostenere che il tradizionale arco turco a due curve era più micidiale dell’«arco col buco», ossia dell’archibugio. «Nel tempo impiegato da un archibugiere per sparare un solo colpo» sosteneva «un buon arciere può lanciare almeno venticinque frecce.» Sottovalutava il fatto che, mentre le frecce si spuntavano contro le corazze, un solo colpo di archibugio poteva trapassare da parte a parte anche due guerrieri difesi dai corpetti imbottiti. A parte queste sue convinzioni balistiche, l’opinione di Dragut aveva avuto tuttavia il suo peso e Solimano si era alla fine lasciato convincere che la presa di Malta fosse indispensabile per riportare l’Islam dentro i suoi antichi confini.
Un tempo, così ragionava il sultano, l’Islam aveva esercitato il suo potere in Sicilia, in Sardegna, nelle Baleari e persino in Spagna. Quindi, ricondurre queste terre sotto il dominio islamico rappresentava anche un dovere religioso. Malta era un’isola brulla, povera e rocciosa, ma se fosse riuscito a conquistarla, essa sarebbe potuta diventare la base di partenza di questa operazione. La Sicilia distava sessanta miglia e gli spagnoli, con le poche galee sopravvissute alle recenti battaglie, non sarebbero stati in grado di difenderla. Conquistata la Sicilia, sarebbe poi stato possibile risalire lungo l’Italia meridionale in direzione di Roma, oppure fare addirittura rotta verso la Spagna dove i fratelli «moriscos» attendevano la liberazione. Definitivamente sedotto da questo ambizioso disegno, Solimano fece dunque la sua scelta e diede subito inizio ai preparativi per la conquista di Malta. Bisognava affrettarsi perché i suoi servizi segreti gli avevano riferito che i cavalieri, forse perché informati di quanto stava bollendo nella pentola di Costantinopoli, stavano affannosamente ultimando le fortificazioni dell’isola.
Lo spionaggio ottomano era allora molto efficiente e i suoi agenti operavano in tutti i porti della Cristianità, naturalmente anche a Malta. Molte spie erano state attivate nell’isola e i loro rapporti erano sempre molto dettagliati. Ecco per esempio cosa riferiva un informatore che operava nel porto grande:
La galea Santa Caterina del patron Tommaso di Alberto, genovese, ha scaricato novantanove cantare di salnitro, centoquaranta cantare di miccia, centonovantuno cantare di piombo, novecento pale di ferro, cento botti di fuoco greco, cento cantare di polvere da sparo, cinquecento picche, duecento archibugi guarniti e trenta migliaia di chiovetti et rosette per li cosciali.
Anche i cavalieri disponevano di un’efficiente rete spionistica che li teneva informati sulle intenzioni bellicose dei turchi. Un mercante genovese di Costantinopoli ebbe addirittura modo di inviare a Malta il piano di guerra messo a punto dallo stato maggiore turco trascrivendolo con del succo di limone tra le righe di una polizza di carico (era sufficiente mettere la pergamena sopra una candela accesa per fare emergere la scrittura). Altre spie fornirono informazioni allarmanti sui movimenti della flotta turca cosicché, nei primi giorni di gennaio del 1565, la notizia che gli ottomani si accingevano ad assalire Malta giunse anche a Vienna facendo tirare un sospiro di sollievo a tutti i viennesi che vivevano nell’incubo di un’aggressione turca, ma sollevando sgomento nelle altre capitali della Cristianità.
Alla fine di marzo del 1565 la flotta destinata a Malta era pronta nelle acque del Corno d’Oro. Risultava composta di 180 navi di cui 150 erano galee, ossia unità da guerra, con a bordo 40.000 uomini fra i quali 7000 giannizzeri armati anche di moderni archibugi tedeschi a canna lunga. Le altre erano cariche di artiglierie, di macchine d’assedio e soprattutto di riso, fagioli, biscotti e caffè. I turchi sapevano che l’isola non produceva neppure le derrate necessarie per il consumo interno, figurarsi per un esercito più numeroso della sua popolazione. Alcune di queste navi mercantili erano state messe a disposizione del sultano dagli ebrei di Costantinopoli i quali avevano anch’essi dei conti in sospeso con quei «dannati monaci» che erano soliti perquisire le navi cristiane per cercare la roba de judíos, ossia la merce che gli ebrei si procuravano col permesso del sultano, ma che caricavano sulle navi cristiane per maggior sicurezza.
Solimano aveva affidato il comando della flotta al Kapudan Piale Pascià, e il comando delle truppe da sbarco al generale Lala Mustafà. I due comandanti erano molto noti nei salotti di Costantinopoli per la loro mondanità, ma non godevano di grande prestigio militare. Piale era cresciuto all’ombra di Dragut e poi aveva fatto carriera grazie al suo matrimonio con una figlia di Solimano. Lala Mustafà non si era mai coperto di gloria, ma discendeva in linea diretta dall’alfiere del Profeta, una parentela che gli assicurava un brillante avvenire. Secondo un cronista, al momento dell’imbarco dei due comandanti, qualcuno osservò: «Se ne vanno i due compagnoni sempre felici di condividere oppio, donne e caffè». In realtà, i due «compagnoni» non condividevano un bel niente perché non andavano affatto d’accordo e la loro diversità di opinioni influirà negativamente sull’esito delle operazioni. Il vecchio Dragut, che dopo avere lasciato a Piale il comando della flotta era diventato bey di Tripoli, avendo quasi ottant’anni era stato ritenuto troppo anziano per assumere il comando, e perciò gli avevano concesso di continuare a godersi il meritato riposo. Lui, invece, insistette per partecipare all’impresa come forza ausiliaria con le sue trenta galee tripoline.
Al momento della partenza della flotta, Solimano il Magnifico, che per la propria scarsa esperienza marinara aveva rinunciato a guidare personalmente i suoi uomini, scese in corteo nel Corno d’Oro per salutare i partenti. Vi giunse confuso fra i giannizzeri, poi consumò il rancio con loro e quindi si mise in riga per ritirare il rituale soldo. Più tardi si accomiatò da loro levando in alto una coppa colma di succo di frutta per il rituale brindisi rivolto all’agognata «mela rossa».
Il Gran maestro dell’Ordine dei cavalieri, Jean Parisot de La Valette, appena informato dell’approssimarsi della bufera, aveva spedito in Europa i suoi messaggeri con l’ordine di mobilitazione generale di tutti i cavalieri in licenza nelle corti o nei loro possedimenti feudali. Questo era il testo del suo appello: «Torna al convento! Il Gran Turco intende por l’assedio a Malta!». Come un sol uomo, i cavalieri risposero unanimemente alla chiamata, ma anche altri giovani nobili, di loro iniziativa, si affrettarono, prima a cavallo e poi sulle navi, a raggiungere l’isola minacciata per mettersi a disposizione del Gran maestro. Da parte sua, Filippo II, allarmato per il precipitare degli eventi, ordinò a don García de Toledo, viceré di Sicilia, di recarsi personalmente a Malta per consultarsi con il Gran maestro e provvedere a rifornirlo dei mezzi necessari. Ma gli raccomandò prudentemente di non impegnarsi sul piano militare. La paura di perdere altre galee era diventata un’ossessione per il figlio di Carlo V.
D’accordo con il Gran maestro, don García fece trasferire da Malta in Sicilia i vecchi, le donne e i bambini e provvide a rifornire i cavalieri di armi, di grandi quantità di grano e di altre vettovaglie in vista del lungo assedio che si accingevano a sostenere. Quanto a un eventuale intervento delle sue galee, non si sbilanciò più di tanto per via delle disposizioni impartitegli dal suo governo. Tuttavia, per dare prova delle sue buone intenzioni, il viceré spagnolo lasciò cinque galee ai cavalieri e consentì al figlio diciottenne Federico, che ambiva di aderire all’Ordine, di pronunciare i voti e di restare nell’isola minacciata.
La Valette aveva settant’anni, ed era un valoroso guascone la cui vita era stata interamente dedicata all’Ordine, del quale aveva vissuto tutte le ultime vicissitudini. Veterano di Rodi, egli era uno di quei pochi eroici superstiti ai quali Solimano aveva concesso l’onore delle armi. In seguito era stato catturato da Barbarossa e aveva sofferto per quattro anni la schiavitù del remo. Diventato, dopo il riscatto, Gran maestro dell’Ordine, lo aveva riorganizzato riconducendo i cavalieri più indisciplinati al rispetto dei voti e delle regole, nonché a un rinnovato fervore per la fede cattolica propugnato dalla Chiesa della Controriforma. Alla vigilia dell’assalto turco, egli disponeva di settecento cavalieri e di circa cinquemila uomini fra serventi d’arma e soldati, in gran parte maltesi. Un po’ pochi, a ben vedere, se si tiene conto dell’enorme superiorità numerica dei turchi, ma va ricordato che, nelle guerre medievali, il cavaliere, monaco o soldato che fosse, valeva pressappoco quanto vale un carro armato nelle guerre moderne.
I cavalieri di Malta erano tutti aristocratici allevati nel culto delle armi e della fede. La Valette li aveva divisi in gruppi omogenei detti langues, lingue, a seconda della loro provenienza. C’erano i cavalieri di Castiglia, e quelli d’Italia, di Provenza, di Francia, d’Alvernia, d’Aragona, d’Alemagna e d’Inghilterra. Essi godevano di una notevole superiorità culturale e tecnologica sugli avversari e disponevano inoltre di armi e di armature, per così dire, ultramoderne, realizzate dai più esperti armaioli lombardi che rifornivano quasi tutti gli eserciti europei.
Il Cavaliere crociato combatteva indossando una corazza pes...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Indice
  5. I-La caduta di Costantinopoli
  6. II-I corsari del Mediterraneo
  7. III-Schiavi, rinnegati e concubine
  8. IV-L’assedio di Malta
  9. V-L’inferno delle galee
  10. VI-La rivolta dei moriscos
  11. VII-Una favola vera alla corte di Madrid
  12. VIII-Un papa giusto al momento giusto
  13. IX-Un patto contro l’«impero del male»
  14. X-L’assedio di Famagosta
  15. XI-Una vigilia movimentata
  16. XII-La battaglia
  17. XIII-Epilogo
  18. Bibliografia
  19. Fonti iconografiche
  20. Indice dei nomi