L'esodo
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L'esodo

La tragedia negata degli italiani d'Istria, Dalmazia e Venezia Giulia

  1. 208 pagine
  2. Italian
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L'esodo

La tragedia negata degli italiani d'Istria, Dalmazia e Venezia Giulia

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Che cosa È accaduto esattamente nelle regioni dell'Istria, un tempo italiane, negli anni fra il 1943 e il 1947? Solo da poco tempo si ricomincia a parlare, dopo cinquant'anni di silenzio delle foibe e della pulizia etnica slava. Questo capitolo della nostra storia che si vorrebbe cancellare dalla memoria collettiva riemerge finalmente anche grazie a questa ricostruzione minuziosa e documentata.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852013683
Argomento
Storia
Parte seconda
L’ADRIATISCHES KÜSTENLAND
La riconquista dell’Istria
Wolkenbruch, nubifragio, era il nome convenzionale dell’operazione messa a punto dai tedeschi per riconquistare l’Istria e la Dalmazia di cui le forze di Tito si erano facilmente impadronite dopo l’8 settembre del 1943. Essa scattò ai primi di ottobre, contemporaneamente da Trieste, Pola, Fiume e dagli altri centri costieri di cui i germanici si erano assicurati il possesso dopo la capitolazione italiana. Tre divisioni SS corazzate e due divisioni di fanteria, di cui una composta da soldati turkmeni, giunte in appoggio delle forze preesistenti, si avventarono nell’interno come un vero nubifragio di fuoco lasciando dietro di loro il consueto, desolante strascico che caratterizzava tutti i rastrellamenti: rovine, villaggi in fiamme, impiccagioni e massacri di innocenti. I partigiani jugoslavi non tentarono neppure di resistere e fuggirono in massa verso le montagne della Croazia e della Slovenia trascinandosi dietro centinaia di prigionieri italiani che poi saranno eliminati brutalmente nel corso della ritirata. Le loro perdite furono molto pesanti: circa 15.000 fra caduti e prigionieri.
La rapidità con la quale i tedeschi portarono a termine l’«Operazione Wolkenbruch» fece sì che entro il 15 ottobre l’intera regione poteva considerarsi riconquistata. O meglio, conquistata dalle forze armate germaniche e trasformata in una nuova provincia del Terzo Reich: l’Adriatisches Küstenland, il Litorale Adriatico.
Già prima dell’8 settembre, e prima ancora della caduta di Mussolini, l’Alto comando tedesco aveva preso in considerazione l’eventualità dell’uscita italiana dal conflitto ed aveva messo allo studio le misure necessarie per garantire i confini meridionali del Reich: i valichi alpini del Brennero e le vie di comunicazione che attraverso la Venezia Giulia raggiungevano i Balcani. Era già quindi in embrione l’idea di creare due nuovi «Länder» dipendenti a tutti gli effetti da Berlino: uno comprendente il Trentino e l’Alto Adige, l’altro il Friuli, l’Istria e la Venezia Giulia. La capitolazione italiana affrettò l’esecuzione del progetto e il nostro «tradimento» ne fornì anche la giustificazione. Il 10 settembre, la Cancelleria del Reich decideva ufficialmente la costituzione dell’Alpenvorland con capitale Bolzano e dell’Adriatisches Küstenland con capitale Trieste. Il primo fu affidato al Gauleiter del Tirolo Franz Hofer, l’altro all’austriaco Friedrich Rainer, Gauleiter della Carinzia.
La liberazione di Mussolini dal Gran Sasso, operata dai paracadutisti tedeschi il 12 di settembre, creò subito delle complicazioni. Nell’entourage hitleriano tutti erano a conoscenza dei sentimenti che il Führer provava per il suo amico italiano e temevano che, col suo ritorno al potere, questi potesse indurlo a ritrattare le sue decisioni. D’altra parte, la neonata Repubblica Sociale faceva suo punto d’onore la difesa dell’integrità della patria. Infatti, nella sua Carta costitutiva, si leggeva fra l’altro: «Fine essenziale della politica estera della RSI dovrà essere l’unità, l’indipendenza, l’integrità della Patria nei termini marittimi e alpini segnati dalla natura, dal sacrificio del sangue e dalla Storia».
Le preoccupazioni dei consiglieri del Führer si rivelarono ben presto avventate. Hitler infatti si dimostrò irremovibile su questo argomento e Mussolini dovette giocoforza rassegnarsi a subire anche questa umiliazione dal suo alleato-padrone. In data 29 settembre, il ministro per la Propaganda Joseph Goebbels annotava nel suo Diario intimo: «Il Führer è felicissimo di poter ancora incontrarsi presto col Duce. Parlando coi Gauleiter Hofer e Rainer ha detto, tuttavia, che la nostra politica nei confronti dell’Italia non deve essere mutata. Ne sono lietissimo. Avevo già temuto che la ricomparsa del Duce potesse mutare le cose. Sembra invece che il Führer sia determinato a persistere nella durezza». E alcuni giorni dopo Goebbels aggiungeva: «Col Führer ho affrontato una questione seria e importante domandandogli fin dove intenda espandere il territorio del Reich (oltre all’Alto Adige e al Litorale Adriatico). Secondo la sua idea, noi dovremmo avanzare fino ai confini del Veneto e il Veneto stesso dovrebbe essere incluso nel Reich in forma autonoma. Il Veneto dovrebbe essere disposto ad accettare questa condizione tanto più facilmente in quanto il Reich, dopo la guerra vittoriosa, potrebbe fornirgli il movimento turistico al quale Venezia attribuisce la massima importanza. Anch’io considero una simile linea di frontiera come la sola pratica e desiderabile».
«Trieste saluta Vienna, Vienna saluta Trieste»
Il 15 ottobre 1943 nasceva ufficialmente l’Adriatisches Küstenland che comprendeva Udine, Trieste, Gorizia, Pola, Fiume inclusi i territori di Buccari, Ciabar, Casta e Veglia. Già il nome scelto dai tedeschi per la nuova regione aveva allarmato i cittadini giuliani che nutrivano sentimenti di italianità. Adriatisches Küstenland era infatti lo stesso nome che indicava quella zona ai tempi del dominio asburgico. Ma questo era appena l’inizio. L’austriaco Rainer manifestò apertamente le sue intenzioni di rendere nuovamente austriaco il paese, ora lusingando la ricca borghesia locale che rimpiangeva i fasti e la buona amministrazione imperiale, ora cercando di evidenziare il contrasto fra la politica nazista e quella antislava e snazionalizzatrice praticata fino allora dal regime fascista. Fece infatti affluire dalla Carinzia maturi funzionari austriaci che già avevano ricoperto cariche sotto il dominio asburgico, dispose che le lingue tedesca e slava tornassero ad essere lingue ufficiali al pari di quella italiana e la loro conoscenza fu resa indispensabile nei concorsi e nell’esercizio delle funzioni pubbliche. Furono anche incoraggiate e finanziate le pubblicazioni in lingua slava e aiutati i circoli culturali croati e sloveni. Nella nomina dei prefetti e delle altre autorità si adottò la procedura di collocare al fianco di ogni funzionario italiano un vicario slavo o tedesco. Il multilinguismo entrò di rigore in tutte le scuole pubbliche. Gli stranieri, ossia gli italiani residenti nella Repubblica Sociale, dovevano munirsi di passaporto per recarsi a Udine o a Trieste. Ogni segno esteriore della presenza italiana nel Litorale venne gradualmente cancellato. Fu anche proibita l’esposizione del tricolore e questo provvedimento colpì persino i gagliardetti e le insegne dei reparti militari della RSI che operavano al fianco dei tedeschi nella regione. Anche i tricolori esposti alla frontiera con la Croazia furono ammainati per sempre. L’opera di snazionalizzazione assunse anche aspetti di vera e propria provocazione antitaliana come quando, per esempio, con la scusa che poteva rappresentare un punto di riferimento per l’aviazione alleata, a Capodistria venne abbattuto il monumento dedicato all’eroe della prima guerra mondiale Nazario Sauro. A Gorizia, invece, il monumento ai nostri Caduti fu demolito da una carica di tritolo collocata da elementi slavi protetti dalle SS.
Se nelle zone d’operazione gli occupanti tedeschi si rivelarono feroci e spietati come altrove, a Trieste soprattutto il Gauleiter Rainer si adoperò, e in parte riuscì, ad accattivarsi le simpatie di quegli strati della popolazione che, dopo il ventennio fascista, rimpiangevano l’ordine e l’efficienza dell’amministrazione austriaca. Come scrive Glauco Arneri, in alcuni ambienti economici si cominciò persino a vagheggiare un felice ritorno del porto di Trieste alle fortune del passato.
Persistendo nella sua politica «morbida» Rainer riaprì i saloni del palazzo del governo ai veterani della prima guerra mondiale che avevano combattuto contro l’Italia e che per tanti anni avevano dovuto tenere nascoste le loro decorazioni militari. I triestini mutilati o decorati dell’esercito austriaco poterono nuovamente esibire le loro medaglie e il Gauleiter dispose anche che fosse loro elargito un congruo sussidio. Tutte le sere la radio locale mandava in onda una fortunata trasmissione intitolata Trieste saluta Vienna, Wien gruesst Triest che riempiva di nostalgia l’animo dei triestini con i valzer, le polche e le marce militari della loro giovinezza.
Questa politica non poteva non incontrare il favore degli esponenti dell’alta finanza e della grande industria triestina, che avevano sempre considerato Trieste in funzione dello sbocco al mare del Centroeuropa e che speravano in una soluzione della guerra che restituisse alla città il suo ruolo di porto principale dell’Austria.
Un cacciatore di ebrei approda sul Litorale
Sul piano militare e poliziesco, l’«uomo forte» del Litorale Adriatico era Odilo Globocnik, Gruppenführer delle SS, equivalente al grado di generale. Egli era nato a Trieste nel 1904 e, malgrado il sangue misto e il cognome sloveno, era riuscito ad attribuirsi tutti i crismi della «purezza ariana». Parlava italiano con accento triestino, ma si era formato in Austria dove la sua famiglia si era trasferita dopo la fine della prima guerra mondiale. Nazista della prima ora, a trent’anni, dopo l’Anschluss, era stato nominato Gauleiter di Vienna. Protetto da Himmler (che lo fece balzare dal grado di sottotenente a quello di generale) l’oriundo triestino aveva fatto una strepitosa carriera nelle SS. Uomo dissoluto, ambizioso e spietato, si era distinto in Polonia come esperto cacciatore di ebrei. Aveva partecipato al «programma eutanasia» (la liquidazione dei deboli e degli storpi) e aveva diretto con agghiacciante efficienza il campo di sterminio di Treblinka.
Trasferito a Trieste col compito principale di catturare gli ebrei che la bonaria amministrazione fascista aveva risparmiato, Odilo Globocnik si impadronì ben presto anche dell’organizzazione militare. Ignorando le proteste del governo di Salò, appena assunto l’incarico egli aveva disposto che i cittadini della regione fossero esentati dal rispondere alle chiamate alle armi della RSI. Ci si poteva arruolare nell’esercito fascista solo volontariamente. E i volontari, pur non essendo fascisti, per la verità, non mancarono: molti giovani infatti indossarono l’uniforme della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR) non solo per evitare di essere chiamati a servire nell’esercito tedesco, ma anche per difendere l’italianità della loro terra. I tedeschi, comunque, si limitarono a chiamare le classi dal 1920 al 1928 per il «servizio del lavoro» nell’Organizzazione Todt.
La GNR era nata, nell’ambito della ricostituzione delle forze armate della RSI, dalla fusione della Milizia Volontaria con l’Arma dei carabinieri, per svolgere compiti che andavano dalla pubblica sicurezza alla lotta antipartigiana. Dipendeva direttamente dal ministero degli Interni del governo di Salò. Nel Litorale, comunque, la GNR non sopravvisse a lungo. Proprio per eliminare ogni interferenza italiana, il comando tedesco decise più tardi di scioglierla e ordinò ai suoi aderenti di confluire nella neonata «Milizia Difesa Territoriale» (MDT), salvo i carabinieri e la Guardia di finanza cui erano affidati compiti diversi. La MDT operava alle dipendenze del comando SS ed era inquadrata nella Landschutz, la polizia territoriale di cui facevano parte, con parità di competenze, anche le varie formazioni di slavi che si erano schierati con i tedeschi. Vi figuravano infatti cetnici «legali», domobranci sloveni, belagardisti cattolici, ustascia croati e varie formazioni di altri confusi movimenti scaturiti dal ginepraio della guerra civile jugoslava. La convivenza fra i vari reparti era naturalmente molto difficile. Gli scontri fra le varie etnie erano all’ordine del giorno e spesso degenerarono in conflitti sanguinosi. Ma benché divisi fra loro da odi ancestrali, i collaborazionisti slavi si trovavano sempre d’accordo quando si trattava di infierire sugli italiani. «Grazie alla politica livellatrice di ogni nazionalità praticata dai tedeschi» riferiva l’ispettore Giuseppe Gueli al capo della polizia di Salò «sloveni e croati trovano il modo di manifestare tangibilmente il loro odio secolare contro gli italiani.» E concludeva: «Armati per combattere i partigiani comunisti, essi svolgono al contrario tutta la loro attività nel combattere gli italiani perché tali».
Per completare il quadro poliedrico e multietnico che caratterizzava il complesso delle forze operanti nel Litorale adriatico, non si possono ignorare altre unità poste in essere dal Gruppenführer Odilo Globocnik. Due delle quali assumono un aspetto molto particolare in quanto testimoniano il venir meno ai principi di «purezza razziale» cui i nazisti avevano dovuto rinunciare per l’esaurimento del «materiale umano» provvisto dei cervellotici crismi di arianità richiesti a chi intendeva arruolarsi nelle SS. Si tratta di una divisione SS composta di volontari bosniaci di religione musulmana (a costoro era persino consentito di pregare due volte al giorno col volto rivolto alla Mecca) e della 24 Waffen Division SS «Karstjager», ossia la divisione «Cacciatori del Carso», di cui facevano parte sloveni, tirolesi e italiani dell’Istria. Alcuni reparti di quest’ultima unità si distingueranno per aver continuato a combattere fino al maggio 1945, dopo che tutte le altre forze tedesche operanti in Italia si erano arrese agli Alleati.
Il processo di snazionalizzazione del Litorale raggiunse il culmine quando Odilo Globocnik fece confluire nel Goriziano, in Carnia e nell’Alto Friuli l’armata cosacca dell’atamano collaborazionista Piotr Krassnoff (autore del noto libro Dall’Aquila imperiale alla Bandiera Rossa). Circa 15.000 uomini seguiti dalle rispettive famiglie e da un corteo di carriaggi cui fu affidato un vasto territorio denominato Kosakenland.
La Decima Mas sul confine orientale
Un discorso a parte merita la X Flottiglia Mas del comandante Junio Valerio Borghese, l’unico reparto italiano che mantenne nel Litorale le caratteristiche nazionali e l’autonomia.
Costituita alla Spezia il 9 settembre 1943 per iniziativa del principe romano, la «Decima» raccoglieva attorno a sé, oltre ai numerosi volontari, anche parte dei veterani dei mezzi d’assalto protagonisti delle leggendarie imprese compiute a Malta, ad Alessandria e a Gibilterra contro le unità navali della Mediterranean Fleet. Nel complesso delle forze armate della RSI questa struttura militare godeva anche in Italia di uno status speciale che le consentiva un’autonomia di comando sia rispetto al governo di Salò sia nei confronti dei tedeschi coi quali manteneva un rapporto di parità senza interferenze politiche. Lo storico Renzo De Felice la indica infatti come «il punto di riferimento per coloro che all’idea fascista anteponevano la difesa dell’onore nazionale e dei confini, contro tutti i nemici dell’Italia interni ed esterni...».
Il carattere nazional-patriottico che Borghese era riuscito a conferire alla «Decima» spiega il consenso che essa ottenne soprattutto in Venezia Giulia dove raccolse moltissimi volontari fra la gioventù di origine italiana.
Come racconta lui stesso nelle sue memorie, l’idea di trasferire le sue forze ai «confini orientali della patria» era stata suggerita a Borghese da un allarmante dispaccio dell’agenzia britannica «Reuter» del 21 agosto 1944, nel quale si annunciava che il governo jugoslavo del Maresciallo Tito «reclama tutte le regioni abitate da elementi slavi che non fanno ancora parte della Jugoslavia, e cioè: Gorizia, Trieste, Pola, Fiume, Zara, le isole dell’Istria e della costa dalmata già facenti parte dell’Impero austro-ungarico prima della guerra 1915-18». La nota della «Reuter» proseguiva rilevando che il conte Carlo Sforza, ministro del governo del Regno del Sud aveva osservato che «almeno Trieste potrebbe rimanere italiana magari con il porto internazionalizzato», ma che il governo di Tito «non intendeva transigere sull’assoluta sovranità jugoslava sulla città».
L’arrivo della divisione «Decima» forte di 6.000 uomini, tutti italiani e comandati da ufficiali italiani, fu naturalmente accolto con sollievo dalla popolazione italiana del Litorale. Il «Movimento Giuliano» guidato da Nino Sauro, figlio dell’eroe di Capodistria, che si adoperava fra enormi difficoltà per mantenere vivo lo spirito nazionale, si schierò entusiasticamente al fianco dei nuovi arrivati, ma l’accoglienza dei tedeschi si rivelò subito ostile.
La presenza di una forza autonoma italiana nel Litorale Adriatico non rientrava nei progetti di snazionalizzazione portati avanti dal Gauleiter austriaco. Rainer infatti cercò con ogni mezzo di intralciare l’azione della «Decima» frapponendo ostacoli anche umilianti e provocando numerosi incidenti. A Gorizia, per esempio, i tedeschi intervennero in armi per impedire l’esposizione della bandiera italiana davanti al comando, in osservanza degli ordini di Rainer che vietavano l’uso del tricolore nell’intera regione. Ne seguì un clamoroso parapiglia al termine del quale i soldati germanici furono circondati e disarmati dai marò del battaglione «Barbarigo». L’incidente si chiuse con la restituzione delle armi dopo che i tedeschi si erano scusati «per il deplorevole equivoco».
In seguito, vari reparti della «Decima» poterono essere dislocati lungo il Litorale. A ciascuno di essi fu assegnato di proposito un nome simbolico: la compagnia «Gabriele D’Annunzio» a Fiume e a Zara, la compagnia «Nazario Sauro» a Pola, il battaglione «San Giusto» a Trieste. Furono anche costituite una scuola sommozzatori a Portorose, una base di sommergibili tascabili a Pola e una base dei mezzi d’assalto a Brioni. Tuttavia, quando il comandante Borghese giunse a Trieste deciso a compiere un’ispezione dei reparti, le autorità germaniche gli imposero di non muoversi dalla città. Lui disobbedì e si recò ugualmente a Pola e quindi a Fiume dove lo raggiunse un ordine di cattura emanato dal Gauleiter. L’arresto non fu eseguito per evitare uno scontro a fuoco, ma Borghese dovette rientrare in Italia.
Il calvario di Zara
In Dalmazia la situazione risultava più drammatica che in Istria a causa «dell’indescrivibile male cagionatoci dall’alleata Croazia» come riferiva a Mussolini un rapporto del ministro degli Interni. Ma anche per l’intensificarsi dei bombardamenti aerei. Zara era stato l’obiettivo principale dei bombardieri alleati che, nel novembre del 1944, dopo 54 incursioni quasi consecutive, l’avevano ridotta ad un mare desolato di rovine. Le ragioni di questo accanimento contro la città dalmata sono spiegabili col fatto che Tito era riuscito a convincere i comandi alleati che Zara era la base da cui partivano tutti i rifornimenti alle forze tedesche distribuite nei Balcani e che pertanto andava distrutta. In realtà Zara non aveva alcuna importanza strategica, non era un nodo stradale, non c’erano depositi militari ed era controllata da appena un centinaio di tedeschi. E allora? La risposta è contenuta in una relazione citata dallo storico istriano Oddone Talpo secondo la quale «la tragica opera di distruzione fu provocata da Tito più per cancellare le orme secolari di italianità che per veri e propri scopi bellici».
Sia a Zara che a Spalato, oltre che difendersi dai partigiani e dai bombardamenti, gli italiani dovevano fare i conti con gli ustascia. Impadronitosi della Dalmazia, Ante Pavelić aveva dato vita a una furiosa campagna antitaliana. Aveva introdotto la kuna al fianco della lira, aveva annullato tutti i debiti dei cittadini croati verso le banche italiane e aveva sequestrato tutti i beni e le attività dei nostri connazionali. Successivamente, gli italiani furono anche privati della cittadinanza: dovettero chiedere un «permesso di soggiorno» per continuare a vivere nelle loro case e furono privati delle tessere annonarie indispensabili per acquistare viveri e generi di conforto.
Un estremo tentativo per salvare l’italianità di Zara fu compiuto nel marzo del 1944 da alcuni ufficiali della «Decima» che svolsero una missione nella zona col proposito di arruolare volontari e svolgere un’azione di propaganda. Malgrado la situazione difficilissima, la missione ebbe un relativo successo. Moltissimi italiani risposero infatti all’appello. Considerando l’arruolamento alla stregua dell’«ultima spiaggia», corsero alle armi persino i ragazzi, come il tredicenne Sergio Endrigo, destinato a diventare un cantante famoso. La compagnia «D’Annunzio», cui era affidata la difesa di quell’ultimo lembo di patria, sarà quasi interamente massacrata dai partigiani di Tito.
Pavolini è trattato come «l’ultimo ministro albanese»
Il dramma della Venezia Giulia angustiava Mussolini, il quale doveva assistere impotente alla snazionalizzazione di quelle terre che ci erano costate 600.000 morti e sulle quali si basava gran parte della retorica fascista. Tutti i suoi sforzi per farsi restituire le province italiane inglobate nell’Adriatisches Küstenland erano stati frustrati. Frustrato era stato anche il suo tentativo di far pervenire agli italiani di Dalmazia degli aiuti in denaro e frustrato il suo progetto di inviare a Zara le navi-ospedale Italia e Gradisca per trasferirli in patria. I tedeschi, che adoperavano quelle navi per il trasporto del sale, gliele avevano rifiutate.
Nel gennaio del 1945, per compiere l’estremo tentativo di far pervenire almeno un messaggio di solidarietà agli italiani delle terre annesse, Mussolini decide di inviare nel Litorale il segretario del Partito fascista repubblicano Alessandro Pavolini. Sarà un viaggio pieno di rabbia e di umiliazioni.
Pavolini visita Udine, le valli del Natisone dove imperversa la guerriglia, poi scende a Gorizia e prosegue per Trieste, Pola e Fiume. Dovunque, l’inviato del Duce incontra difficoltà e sospetti. Le autorità germaniche gli fanno capire chiaramente che è un ospite indesiderato....

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Epigrafe
  5. Parte prima: La questione giuliana
  6. Parte seconda: L’Adriatisches Küstenland
  7. Parte terza: Istria addio
  8. Bibliografia