Demian
  1. 154 pagine
  2. Italian
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Scritto nel 1917 e pubblicato nel 1919, Demian è la storia di un ragazzo combattuto fra due mondi, quello bello e pulito del bene e quello terribile, enigmatico eppur allettante del male.
Protagonista è il giovane Emil Sinclair, caduto sotto l'influsso di un cattivo compagno di scuola, Franz Kromer, che lo spinge a ingannare i genitori, rubare e discendere la china del peccato. Sarà un altro compagno, Max Demian, che sembra vivere fuori del tempo o uscire da un passato senza età, ad attrarre Sinclair e a liberarlo dal nefasto influsso di Kromer, guidandolo verso una concezione della vita straordinariamente complessa e misteriosa.
Già riconosciuto da Thomas Mann come un piccolo capolavoro, Demian esercitò con la sua carica problematica un forte influsso sui giovani tedeschi appena usciti dalla traumatica esperienza della Prima guerra mondiale, convinti che l'autore - che scriveva sotto pseudonimo - fosse uno di loro tanto era fresco lo stile e viva e spontanea la narrazione.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852013171
Argomento
Literature
Categoria
Classics

1

Due mondi

Incomincio la mia storia con un’esperienza di quando avevo dieci anni e frequentavo la scuola media della nostra cittadina.
Molte cose mi alitano incontro e mi toccano intimamente con pena e con brividi di piacere: strade buie o chiare, case e campanili, suono di orologi e volti umani, stanze piene di comodità e di tepore, camere misteriose e colme di una gran paura dei fantasmi. Sento un odore di tiepide angustie, di conigli e fantesche, di medicamenti popolari e di frutta secca. Due mondi vi si confondevano e da due poli arrivavano il giorno e la notte.
Uno di quei mondi era la casa paterna, ma era un mondo ristretto e, a rigore, comprendeva soltanto i miei genitori. Per gran parte questo mondo mi era ben noto, si chiamava mamma e babbo, si chiamava amore e severità, esempio e scuola. Di esso facevano parte un mite splendore, e chiarità e pulizia, e vi si trovavano discorsi amorevoli, mani lavate, abiti lindi, buoni costumi. Lì si cantava il corale mattutino e si festeggiava il Natale. Vi erano linee diritte e strade che portavano all’avvenire, vi erano il dovere e la colpa, il rimorso e la confessione, il perdono e i buoni proponimenti, l’amore e il rispetto, la parola della Bibbia e la saggezza. A questo mondo bisognava attenersi affinché la vita fosse limpida e pulita, bella e ordinata.
L’altro mondo, invece, incominciava nella nostra stessa casa ed era in tutto diverso, mandava un altro odore, parlava diversamente, prometteva e pretendeva cose diverse. In questo secondo mondo c’erano fantesche e giovani operai, storie di spiriti e voci di scandalo, una multiforme fiumana di cose enormi, allettanti, terribili, enigmatiche, cose come il macello e la prigione, gli ubriachi e le donne sbraitanti, mucche partorienti e cavalli caduti, racconti di furti, assassinii, suicidi. Tutte queste cose belle e orrende, selvagge e crudeli esistevano là intorno, nella strada vicina, nella casa attigua, dove si aggiravano gendarmi e vagabondi, dove ubriachi picchiavano la moglie, grovigli di fanciulle scaturivano alla sera dalle fabbriche, vecchie megere avevano il potere di incantare e diffondere malattie, predoni abitavano nelle selve, incendiari venivano catturati dai guardaboschi… Dappertutto pullulava e odorava quel secondo mondo violento, salvo che nelle nostre camere dov’erano la mamma e il babbo. Ed era bene che fosse così. Era meraviglioso sapere che da noi regnavano pace, ordine e tranquillità, il dovere e la coscienza pulita, il perdono e l’affetto… e sapere che c’erano anche quelle altre cose, tutto quel frastuono e i baleni, le tenebre e le violenze, che si potevano evitare raggiungendo d’un balzo la mamma.
Il fatto più strano era che i due mondi stavano vicini tra loro e si toccavano. Lina per esempio, la nostra fantesca, apparteneva interamente a noi, a babbo e mamma, al mondo chiaro e giusto, quando la sera durante la preghiera sedeva presso la porta e tenendo sul grembiule stirato le mani pulite partecipava al canto con la sua limpida voce. Ma poco dopo in cucina o nella legnaia, quando mi narrava la storia dell’omiciattolo senza testa, o nella piccola bottega del macellaio litigava con le donne del vicinato, non era più quella: apparteneva all’altro mondo ed era circondata dal mistero. E tutto era così, specialmente io stesso. Certo, io appartenevo al mondo chiaro e giusto, ero figlio dei miei genitori, ma dovunque volgessi l’occhio e l’orecchio trovavo sempre quell’altro e ci vivevo anche, benché molte volte mi riuscisse estraneo e pauroso e vi provassi sempre rimorso e angoscia. Certe volte preferivo persino il mondo proibito, e talora il ritorno alla chiarità, per quanto fosse buono e necessario, mi pareva quasi un ritorno al meno bello, al più vuoto e alla maggior noia. Sovente capivo che la mia meta era di diventare come mio padre e mia madre, altrettanto chiaro e puro, superiore e ordinato; ma la via per arrivarci era molto lunga e bisognava frequentare scuole e studiare e dare saggi e sostenere esami e quella via passava sempre accanto al mondo buio o l’attraversava e non era affatto impossibile soffermarvisi e affondarvi. La storia narrava di figlioli prodighi cui era capitato così: io l’avevo letta con passione. Il ritorno al bene e al padre era sempre grandioso e consolante e io capivo benissimo che soltanto questo era giusto, buono e desiderabile, eppure la parte della storia che si svolgeva tra i malvagi e i perduti era molto più interessante. Se fosse stato lecito dirlo e confessarlo, era proprio un peccato che il figliol prodigo facesse penitenza e fosse ritrovato. Ma erano cose che non si dicevano e non si pensavano nemmeno. Erano però in fondo al cuore come presentimento e possibilità. Quando mi figuravo il diavolo lo immaginavo benissimo giù nella strada travestito o a viso aperto, oppure alla fiera o in un’osteria, mai invece in casa nostra.
Anche le mie sorelle appartenevano al mondo chiaro. Per natura erano, mi pareva, più vicine al babbo e alla mamma, erano migliori, più costumate, più perfette di me. Avevano difetti, avevano cattive maniere, ma mi pareva che ciò non avesse radici profonde, non fosse come in me che spesso soffrivo ed ero tormentato dal contatto col male perché il mondo oscuro mi era molto più vicino. Dovevo risparmiare e rispettare le mie sorelle come i genitori, e quando avevo litigato con loro ero poi, di fronte alla mia coscienza, il cattivo, colui che aveva incominciato e doveva chiedere perdono. Nelle sorelle offendevo i genitori, il bene e l’autorità. C’erano segreti che potevo condividere molto più facilmente coi monelli più abietti che con le mie sorelle. Nelle buone giornate, quando faceva chiaro e avevo la coscienza a posto, era una bellezza giocare con le sorelle, essere buono e garbato con loro e vedere me stesso sotto una luce di nobiltà. Così dovevano essere gli angeli. Questo era il livello supremo a noi noto e immaginavamo che l’esistenza degli angeli, circondati da limpidi suoni e profumi, dovesse essere dolce e meravigliosa come il Natale e la felicità. Ma quanto di rado sorgono simili ore e giornate! Nel giuoco innocuo e lecito ero spesso di una violenza e di una passione che le sorelle non potevano sopportare, che provocava litigi e dispiaceri: se poi ero sopraffatto dalla collera diventavo terribile e facevo e dicevo cose delle quali sentivo la bruciante abiezione già nel momento di dirle e di commetterle. Seguivano ore dolorose di pentimento e contrizione, seguiva l’attimo dolente in cui chiedevo perdono, finché arrivava un raggio di luce, una tranquilla e riconoscente felicità senza dissidi, per ore o istanti.
Frequentavo la scuola media, e nella mia classe c’erano il figlio del borgomastro e quello del guardaboschi, ragazzi sfrenati, ma pure appartenenti al mondo buono e lecito, che venivano talvolta a trovarmi. Ma avevo stretto rapporti anche con ragazzi del vicinato, allievi della scuola elementare che di solito disprezzavamo. Da uno di loro devo incominciare il mio racconto.
Un pomeriggio libero (avevo poco più di dieci anni) girovagavo con due ragazzi del vicinato. A questi si aggiunse un terzo, più grande e robusto, di circa tredici anni, scolaro delle elementari, figlio di un sarto. Suo padre era un beone e tutta la famiglia aveva una cattiva nomea. Conoscevo molto bene Franz Kromer e lo temevo. Perciò mi garbò poco che si unisse a noi. Aveva già un comportamento da uomo e imitava l’andatura e i modi di dire dei giovani operai. Guidati da lui scendemmo di fianco al ponte fin sulla riva e ci nascondemmo agli occhi del mondo sotto la prima arcata. Il breve spazio fra l’arco del ponte e l’acqua pigra era ingombro di rifiuti d’ogni sorta, di cocci e ciarpame, di grovigli di fil di ferro arrugginito e di altre spazzature. Là si trovavano talvolta oggetti utili, e sotto la guida di Franz Kromer fummo costretti a perlustrare la zona e a mostrargli ciò che trovavamo. Egli o intascava l’oggetto o lo buttava nell’acqua. Ci ordinò di cercare oggetti di piombo, di ottone o stagno che prese con sé, come pure un vecchio pettine di corno. Accanto a lui mi sentivo molto angustiato, non già perché sapevo che mio padre, se fosse stato al corrente, mi avrebbe vietato quella compagnia, ma perché quel ragazzo mi faceva paura. Ero contento che mi pigliasse e trattasse come gli altri. Egli comandava e noi obbedivamo e pareva una vecchia consuetudine benché mi trovassi con lui la prima volta.
Infine ci sedemmo per terra. Franz sputava nell’acqua e aveva un’aria da uomo. Sputava attraverso una fessura fra i denti e colpiva dove voleva. Prese a discorrere mentre gli altri incominciavano a menar vanto d’ogni sorta di gesta da scolari e di tiri birboni. Io tacevo e appunto per il mio silenzio temevo di essere notato e di attirarmi la collera di Kromer. Fin dall’inizio i miei due compagni mi avevano abbandonato mettendosi dalla parte di lui, sicché ero un estraneo tra loro e capivo che il mio abito e le mie maniere dovevano provocarli. Non poteva darsi che Franz volesse bene a me, allievo delle medie e figlio di signori, e sentivo che al momento buono gli altri due mi avrebbero rinnegato e piantato in asso.
Avevo tanta paura che anch’io incominciai a raccontare. Inventai una storia di briganti della quale mi feci protagonista. Una notte, raccontai, in un orto presso il mulino, avevo rubato con un compagno un intero sacco di mele e non di quelle comuni, ma tutte ranette e paradise. Dal pericolo del momento mi rifugiai in quella storia, e non avevo alcuna difficoltà a inventare e narrare. Pur di non smettere e di non essere implicato in qualcosa di peggio, feci sfoggio di tutta la mia arte. Uno di noi, dissi, aveva dovuto fare il palo, mentre l’altro era sull’albero e buttava giù le mele, e il sacco era così pesante che infine avevamo dovuto riaprirlo e lasciar lì la metà, ma dopo mezz’ora eravamo ritornati a prendere anche quelle.
Terminato il racconto speravo di incontrare le approvazioni dell’uditorio, tanto mi ero infervorato e inebriato del mio fantasticare. I due minori tacquero aspettando, mentre Franz, che mi fissava stringendo le palpebre, domandò con aria minacciosa:
«È vero?»
«Sì» risposi.
«Proprio tutto vero?»
«Sì, tutto vero» assicurai con faccia franca mentre dentro di me soffocavo dall’angoscia.
«Potresti giurare?»
Restai interdetto, ma dissi subito di sì.
«Allora di’: In nome di Dio e della mia salvezza!»
Ripetei: «In nome di Dio e della mia salvezza».
«Va bene» fece lui voltandosi dall’altra parte.
Pensai che tutto fosse superato e con piacere lo vidi alzarsi e prendere la via del ritorno. Quando fummo sul ponte osservai timidamente che dovevo ritornare a casa.
«Via, non ci sarà tanta fretta» rise Franz. «Dobbiamo fare la stessa strada.»
Continuò lentamente mentre io non osavo scappare e prese davvero la via di casa nostra. Allorché vi giungemmo e rividi la porta di casa e la grossa maniglia di ottone, le finestre illuminate dal sole e le tende della camera di mia madre, trassi un profondo respiro. Che bella cosa ritornare felicemente a casa, alla luce, alla pace!
Quando ebbi aperto la porta e mi ci fui infilato pronto a chiuderla dietro di me, Franz Kromer si insinuò nell’entrata. Nell’atrio fresco e ombroso che riceveva luce soltanto dal cortile mi strinse un braccio e mormorò: «Non aver tanta fretta!».
Lo guardai atterrito. Teneva il mio braccio come in una morsa di ferro. Cercai di capire quali fossero i suoi propositi e se volesse farmi del male. Se mi fossi messo a gridare, pensai, a gridare forte, chi sa se qualcuno sarebbe sceso così rapidamente da salvarmi? Rinunciai però a farlo.
«Che c’è?» domandai. «Che vuoi?»
«Non molto. Devo ancora chiederti qualcosa. Non occorre che sentano gli altri.»
«Che cosa vuoi sapere? Ora devo salire in casa, capisci?»
«Tu sai certamente» sussurrò Franz «a chi appartiene il frutteto presso il mulino…»
«No, non lo so. Forse al mugnaio.»
Franz mi aveva cinto con un braccio e mi tirò vicino a sé di modo che dovetti fissarlo in faccia da vicino. Aveva lo sguardo cattivo, il sorriso maligno e la faccia piena di crudeltà e di potenza.
«Vedi, caro mio, ti so dire io a chi appartiene quell’orto. So da un pezzo che le mele furono rubate, e so che quell’uomo è disposto a dare due marchi a chi gli indichi il ladro.»
«Dio mio!» esclamai. «Non andrai mica a dirglielo?»
Capivo che era inutile rivolgersi al suo sentimento d’onore. Egli era di quell’altro mondo e per lui il tradimento non era delitto. Me ne rendevo conto perfettamente. In queste cose gli uomini di quell’altro mondo non erano come noi.
«Non dirglielo?» rise Kromer. «Credi forse, amico mio, che io sia un fabbricatore di monete false, capace di fare da me i pezzi da due marchi? Io sono un povero diavolo, non ho, come te, un padre ricco, e se posso guadagnare due marchi li devo guadagnare. Può darsi che mi dia anche di più.»
E così mi lasciò libero. Il nostro vestibolo non sapeva più di pace e sicurezza, il mondo mi crollava d’intorno. Colui mi avrebbe denunciato per delinquente, l’avrebbero detto al babbo e magari sarebbe venuta la polizia. Ero minacciato da tutti gli orrori del caos, tutte le cose brutte e pericolose erano contro di me. Il fatto che non avevo rubato niente non contava. E poi avevo giurato. Dio mio, Dio mio!
Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Sentivo di dover riscattarmi e mi frugai nelle tasche disperato. Non una mela, non un temperino, niente. Mi venne in mente l’orologio. Era un vecchio orologio d’argento che non funzionava. Lo portavo “così”. Era stato della nonna. Lo estrassi in fretta dicendo: «Senti, Kromer, non devi denunciarmi, non sarebbe un bel gesto da parte tua. Guarda, ti regalo l’orologio. Purtroppo non ho altro. Te lo do, è d’argento e la macchina è buona, ha solo un piccolo difetto che bisogna far aggiustare».
Egli sorrise e prese l’orologio. Guardai la sua manona intuendo quanto fosse rozza e a me ostile poiché mi carpiva la vita e la pace.
«È d’argento…» ripetei timidamente.
«Me ne infischio del tuo argento e di questa vecchia cipolla» disse con profondo disprezzo. «Pensa tu a farlo aggiustare.»
«Ma, Franz, aspetta un momento!» esclamai tremando dal timore che volesse andarsene. «Prendi l’orologio. È proprio d’argento, credilo. E io non ho altro.»
Mi guardò freddamente e dall’alto.
«Tu sai, dunque, da chi vado. Del resto potrei anche andare in questura, conosco bene il maresciallo.»
E si volse per allontanarsi, ma io lo trattenni per la manica. No, sarei morto piuttosto che sopportare ciò che mi sarebbe toccato se si allontanava così.
«Andiamo, Franz,» implorai con voce rauca dall’agitazione «non fare sciocchezze. Non è che uno scherzo, vero?»
«Già, uno scherzo che può costarti caro.»
«Ebbene, Franz, dimmi che cosa devo fare. Farò tutto quello che vuoi.»
Egli mi squadrò stringendo le palpebre e tornò a ridere.
«Non fare lo sciocco!» disse con finta benevolenza. «Tu capisci le cose quanto me. Posso guadagnare due marchi e non sono tanto ricco da buttarli via. Tu invece sei ricco, possiedi perfino un orologio. Basta che i due marchi me li dia tu e tutto va a posto.»
La logica era evidente. Ma i due marchi! Per me erano altrettanto irraggiungibili come dieci, come cento, come mille. Io non avevo denaro. C’era un piccolo salvadanaio che mia madre custodiva e vi si trovavano alcune monetine da dieci e cinque centesimi provenienti dalle visite degli zii o da simili occasioni. Non possedevo altro. A quell’età non ricevevo ancora i soldini per le spese minute.
«Non ho niente» dissi con tristezza. «Denaro non ne ho, ma ti darò tutto quello che vuoi. Ho un racconto d’indiani, i soldatini, una bussola. Vado a prenderla.»
Kromer fece un ghigno e sputò per terra.
«Poche chiacchiere!» comandò. «Tientele pure le tue carabattole. Una bussola! Non farmi arrabbiare, hai capito? E tira fuori i soldi.»
«Ma se non ne ho! Nessuno me ne dà mai. Non è colpa mia.»
«Allora i due marchi me li porti domani. Dopo scuola ti aspetto in piazza. E basta così. Se non porti il denaro la vedrai.»
«Ma dove prenderlo? Se non ne ho…»
«In casa vostra c’è abbastanza denaro. È affar tuo. Dunque, domani dopo scuola. E ricordati che se non lo porti…» e lanciatomi uno sguardo terribile sputò ancora e scomparve come un’ombra.
Non potevo salire in casa. La mia vita era rovinata. Pensai di fuggire e di non ritornare mai più o di annegarmi. Ma non erano immagini precise. Lì, al buio, mi sedetti sull’ultimo gradino e mi abbandonai alla disperazione. Lina mi trovò in lacrime quando scese col cesto per prendere la legna.
La pregai di non dir nulla in casa e salii. All’attaccapanni di fianco alla porta vetrata c’erano il cappello di mio padre e l’ombrellino della mamma, dai quali emanava un senso di tenerezza e di intimità. Il mio cuore grato e implorante salutò i due oggetti come il figliol prodigo aveva salutato la vista e l’odore delle stanze familiari. Ma tutto ciò non era più roba mia, bensì il mondo chiaro dei miei genitori, mentre io ero caduto nella colpa e nella corrente estranea, irretito nell’avventura e nel peccato, minacciato dal nemico e dai pericoli, in attesa dell’angoscia e della vergogna. Il cappello e l’ombrellino, il vecchio pavimento di mattonelle, il grande quadro sopra l’armadio in anticamera e nella stanza di soggiorno la voce della mia sorella maggiore erano tutte cose delicate e deliziose come non mai, ma per me non c’era più conforto né sicurezza, c’...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Demian
  3. Hermann Hesse
  4. Demian - Storia della giovinezza di Emil Sinclair scritto nel 1917, pubblicato nel 1919
  5. 1. Due mondi
  6. 2. Caino
  7. 3. Il ladrone
  8. 4. Beatrice
  9. 5. L’uccello lotta per uscire dall’uovo
  10. 6. La battaglia di Giacobbe
  11. 7. Eva
  12. 8. Il principio della fine
  13. Postfazione - di Ervino Pocar
  14. Copyright