La malapianta
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La malapianta

La mia lotta contro la 'ndrangheta

  1. 192 pagine
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La mia lotta contro la 'ndrangheta

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«High tech e lupara.» Potrebbe essere il titolo di un'improbabile parodia cinematografica. Invece è la sconcertante ma fedele fotografia che Nicola Gratteri ci dà della 'ndrangheta.

In una veloce e appassionante conversazione con Antonio Nicaso, che sullo stesso argomento ha firmato con lui Fratelli di sangue, Gratteri ritorna ad approfondire un fenomeno criminale di portata internazionale che, dopo lunghi e colpevoli ritardi, inizia finalmente a essere percepito nella sua vera dimensione. «Una holding del crimine che vive protetta, quasi rinserrata nei legami di sangue, ma che è riuscita anche a cogliere in anticipo su governi e grandi corporation multinazionali il trend della globalizzazione.» Parole che segnano la fine di ogni ingenua visione della 'ndrangheta come «versione stracciona e casereccia della mafia siciliana». A rivelare la forza dell'organizzazione criminale calabrese bastano poche cifre: il suo fatturato annuo è di 44 miliardi di euro, il 2, 9% del Prodotto interno lordo. Il «core business» è rappresentato dal traffico di droga (la 'ndrangheta controlla quasi tutta la cocaina che circola in Europa): un ricavo di 27.240 milioni di euro all'anno, il 55% in più rispetto al ricavo annuo della Finmeccanica, il gigante dell'industria italiana. A questa spettacolare espansione fa da contraltare il degrado sociale e ambientale della Calabria, prigioniera di una criminalità che la opprime, ne sfrutta famelicamente ogni risorsa e poi l'abbandona impietosamente al suo destino.

La crescita e la fortuna di questa malapianta viene raccontata attraverso temi ed eventi cruciali: dalle lontane origini alla stagione dei sequestri di persona, all'espansione sul territorio italiano e all'estero; dalle collusioni con la politica alla conquista della leadership nel traffico di droga, alle inquietanti vicende dei rifiuti tossici; dal delitto Fortugno alla strage di Duisburg; dalle infiltrazioni negli appalti degli anni Sessanta a quelli per l'Expo 2015. Un'organizzazione criminale che mantiene il suo centro operativo in Calabria, ma che è di casa a Milano come come a Medellín, negli Stati Uniti come in Australia. E che sa mimetizzarsi nell'insospettabile mondo dei «colletti bianchi», tra gli affermati professionisti dei settori produttivi più dinamici.

Gratteri riesce nonostante tutto a trovare parole, al tempo stesso caute e appassionate, di speranza, di fiducia nella migliore Calabria, evocata anche attraverso reminiscenze familiari, quella della gente onesta, sobria e laboriosa. Però, ci ricorda, occorre mano ferma e determinata: certezza della pena e una legislazione adeguata, non più condizionata dall'emotività del momento ma calibrata su una lotta di lungo periodo. Perché nessuno può sentirsi estraneo a questa battaglia culturale e civile. La 'ndrangheta è un'ombra che cammina accanto a noi, non solo tra le strade della Calabria: una minaccia per la legalità in tutto il paese.

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Informazioni

XI

Il paese dei campanelli

«Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nella contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche o le tendenze o gli incontri dei membri più inquieti di quella grande famiglia che è il regime, e dietro i vicini di casa della famiglia, e dietro i nemici della famiglia, sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari; e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso. Soltanto così a uomini come don Mariano comincerebbe a mancare il terreno sotto i piedi ... In ogni altro paese del mondo, una evasione fiscale come quella che sto constatando sarebbe duramente punita: qui don Mariano se ne ride, sa che non gli ci vorrà molto per imbrogliare le carte.»1
Leonardo Sciascia
Leonardo Sciascia aveva capito tutto agli inizi degli anni Sessanta. E lo ha anche scritto. Per dare fastidio ai mafiosi bisogna colpirli nei loro interessi. Eppure per introdurre la legge sul sequestro e la confisca dei beni illegalmente conseguiti c’è voluta la morte del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, della moglie e di un agente di scorta. L’Italia è un paese senza memoria?
Senza memoria e senza verità. Lo diceva lo stesso Sciascia. La lotta alle mafie è sempre stata condotta sullo slancio emotivo di qualche tragedia. La classe politica è intervenuta solo quando non ha potuto farne a meno, quando bisognava reagire all’ennesima strage. Basterebbe un dato: la legge sull’associazione mafiosa è del 1982, il primo grande omicidio politico-mafioso, quello dell’ex direttore del Banco di Sicilia, Emanuele Notarbartolo, è del 1893. Qui la lotta alle mafie non è mai stata un’emergenza e più che la patria del diritto siamo diventati quella del rovescio. Certe volte sembra di vivere nel paese dei campanelli. Possibile che nessuno veda mai niente?
Dacia Maraini ha osservato che l’Italia va «morendo di infiniti morti ... come un Edipo sicuro di sé, il nostro paese sembra brancolare cieco, di fronte al grande tema della responsabilità. Da un delitto sono nati altri delitti, ma già dal primo è mancata la giusta punizione. Il sentimento di giustizia è stato umiliato. La verità è stata negata».2
Maraini è una scrittrice straordinaria. Le sue parole mi fanno venire in mente Tiresia che seppur cieco riusciva a vedere tutto. Sosteneva che all’origine della catastrofe vi fosse l’offesa alla verità. Quando la questione criminale coinvolge in modo determinante la responsabilità delle classi dirigenti divenendo il male oscuro dello Stato e della democrazia, il paese finisce per essere attaccato dalla peste, proprio come Tebe.
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Non c’è proprio nulla da fare?
Non possiamo arrenderci. È contro la nostra natura. Ci sarebbe tanto da fare, ma nessuno ascolta. Solo i giovani reagiscono. La politica finge, sembra che questo modo di vivere stia bene a tutti. Ogni tanto ci scappa il morto. E poi tutto torna come prima. E a gridare restano solo in pochi, quelli che non si rassegnano, quelli che sono consapevoli che qualcosa ancora si potrebbe fare per sconfiggere la peste.
Certezza della pena e maggiori restrizioni nelle carceri. Sono rimedi importanti, ma possono bastare?
Certo che no! Bisognerebbe seguire i suggerimenti di Sciascia. Mettere il naso negli affari delle cosche, «mani esperte nella contabilità», sequestrare e confiscare i beni illegalmente conseguiti. Cioè migliorare l’attuale legislazione antimafia, non picconarla. Sciascia vedeva là dove tanti si limitano a guardare.
Si riferisce al decreto sulle intercettazioni?
Si sta eliminando uno dei sistemi più garantisti e meno costosi per l’acquisizione della prova. E lo si sta facendo in modo strumentale, citando statistiche che non stanno né in cielo, né in terra. Ho appena finito di indagare cinquanta persone coinvolte in un traffico di droga. Per seguirle ho dovuto mettere sotto controllo diecimila schede telefoniche. Se chi analizza i risultati dell’indagine è onesto, dirà che sono state intercettate cinquanta persone, se è disonesto dirà che Gratteri ha intercettato diecimila persone. La realtà è che i trafficanti di droga cambiano una scheda ogni quarantott’ore, ma gli indagati, nonostante il numero esorbitante di utenze telefoniche, restano sempre cinquanta.
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Per restare a Sciascia. Lo scrittore siciliano sosteneva che «i cortei, le tavole rotonde, i dibattiti sulla mafia, in un paese in cui retorica e falsificazioni stanno dietro ogni angolo, servono a dare l’illusione e l’acquietamento di fare qualcosa: e specialmente quando nulla di concreto si fa». È ancora attuale, a tanti anni dalla morte?
Purtroppo sì. Dopo le stragi molti hanno pensato e sperato che l’accresciuta capacità offensiva dello Stato potesse durare a lungo. E invece, dopo l’arresto di Totò Riina, quando Cosa Nostra smise di sparare, i convegni e le chiacchiere hanno ripreso il sopravvento.
La ’ndrangheta come Cosa Nostra contro lo Stato?
No. La ’ndrangheta non si è fatta trascinare dai Corleonesi nello scontro frontale con lo Stato. Agli inizi degli anni Novanta Totò Riina, il boss dei Corleonesi, cercò di coinvolgere la ’ndrangheta nella strategia che aveva messo a punto per gettare l’Italia nel caos. Franco Coco Trovato, calabrese di Marcianise emigrato a Lecco, imparentato con i De Stefano e indagato per traffico di droga dalla magistratura lombarda, scese in Calabria per incontrare i principali boss della regione. Secondo Umile Arcuri, un collaboratore di giustizia che prese parte a quell’incontro, la proposta di organizzare attentati sull’esempio dei Corleonesi non venne accolta. Coco Trovato ci rimase male e Cosa Nostra andò avanti da sola.
Però la ’ndrangheta uccise Antonino Scopelliti?
Fu un omicidio su commissione. E non venne deciso dalla ’ndrangheta. Venne ucciso il 9 agosto 1991 agli ultimi trasalimenti della strada che porta a Campo Calabro, in un pomeriggio caldo, senza vento. La ’ndrangheta era in debito con Cosa Nostra che, attraverso i suoi vertici, aveva contribuito a mettere pace tra i clan in guerra, in uno scontro che nella provincia di Reggio Calabria, in meno di quattro anni, aveva causato più di settecento morti.
Chi era Antonino Scopelliti?
Scopelliti era sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione. Aveva i tratti del gentiluomo; era una persona perbene, onesta e colta. Avrebbe dovuto rappresentare l’accusa in cassazione per il maxiprocesso a Cosa Nostra, l’ultima spiaggia per evitare decine di ergastoli. Ricordo che in una requisitoria aveva sostenuto la necessità di garantire «privilegi particolari e maggiore protezione» ai collaboratori di giustizia. Non era ancora entrata in vigore la legislazione premiale, sul modello del programma americano di protezione dei pentiti.
Un rapporto del Bka, datato 2008, avrebbe rilanciato l’ipotesi del coinvolgimento della ’ndrangheta nella strage di via D’Amelio?
Non mi pare che il rapporto faccia riferimento alla strage di via D’Amelio. Ricordo invece che tra le carte dell’operazione «Olimpia» c’era un verbale di interrogatorio rilasciato ad Amsterdam nel quale Giacomo Ubaldo Lauro, arrestato per traffico di droga nel maggio 1992, invitava l’allora capo della Dia, la Direzione investigativa antimafia, Gianni De Gennaro, a «fare presto» perché da lì a poco ci sarebbe stata in Sicilia un’altra strage come quella di Capaci. Lauro aveva detto di averlo appreso da ambienti della ’ndrangheta che operavano in Germania. Secondo ricostruzioni giornalistiche [un’inchiesta di «Calabria Ora»], invece, a svelare al procuratore Borsellino i legami tra ’ndrangheta e Cosa Nostra, sarebbe stato Gioacchino Schembri, un collaboratore di giustizia, originario di Palma di Montechiaro. Nove giorni prima della strage di via D’Amelio, Schembri avrebbe confidato a Borsellino che a Mörfelden-Walldorf, nell’Assia, i siciliani avevano acquisito dalla ’ndrangheta grosse quantità di esplosivo in cambio di cocaina. Personalmente, mi sembra inverosimile. Ritengo che, in quegli anni, Cosa Nostra non avesse bisogno della ’ndrangheta per acquisire grosse quantità di tritolo.
Ma che la ’ndrangheta in quegli anni avesse disponibilità di tritolo, è cosa risaputa.
Noi lo avevamo anche accertato processualmente, ma ritengo che Cosa Nostra non fosse da meno. Ricordo che grazie a un agente sotto copertura siamo riusciti ad acquistare da uomini legati al clan Iamonte di Melito di Porto Salvo cento chili di tritolo e cinque chili di plastico C3 e C4. Il tritolo era stato trovato nella stiva di poppa di una nave [Laura Couselich, meglio nota come Laura C.] affondata al largo di quelle coste nel 1941. Era diretta in Africa e trasportava, tra l’altro, centinaia di tonnellate di tritolo per uso militare. Venne colpita da due siluri sganciati da un sommergibile britannico. Agli inizi degli anni Novanta quella zona era diventata una specie di supermarket del tritolo. Ancora oggi vi sono tonnellate di esplosivo nascoste che non è stato possibile recuperare.
Restiamo a via D’Amelio. «Io della strage non ne so parlare. Borsellino l’hanno ammazzato loro.» Sono le parole che Totò Riina ha detto tramite il suo avvocato. Che cosa ne pensa?
Riina è una persona furba, non parla mai a casaccio. Sicuramente ha voluto lanciare un messaggio a gente che sa e che ha qualcosa da nascondere. Ci sono molte cose strane in quella vicenda. Molti, per esempio, non riescono a capire la scomparsa della cosiddetta agenda rossa dalla quale Borsellino non si separava mai. Ora c’è questa storia inquietante delle presunte trattative per porre fine allo stragismo dei Corleonesi in cambio della revoca del carcere duro ai detenuti condannati per associazione mafiosa.
Ma lei non ha mai sospettato nulla, non hai mai percepito la presenza di gente attorno a lei che potrebbe aver fatto il doppio gioco, che possa essere definita marcia?
Faccio molta attenzione, non parlo mai delle inchieste in corso con gente che non ha compiti operativi. Qualche volta mi è capitato di notare gente che cercava di capire, di informarsi per poi riferire ad altri l’esito di alcune indagini. Comunque, sono diffidente per natura.
Non è iscritto a nessuna corrente, nessun sindacato in seno alla magistratura. Perché questa scelta?
Aderire a un’associazione o a un’organizzazione può voler dire fare scelte di appartenenza. Io non voglio appartenenze e non ho la vocazione all’obbedienza.
Spesso però si caccia nei guai. Mi riferisco ad alcuni scontri in televisione con ministri e deputati.
Io faccio il magistrato. Non devo entrare in politica e non devo piacere a nessuno. Dico quello che penso e penso quello che dico.
Si è mai sentito solo?
Quello del magistrato è un lavoro solitario. Trascorro molte ore da solo, tra le carte. Ma non mi sono mai sentito solo, soprattutto negli ultimi tempi. C’è tanta gente che crede in me e in chi come me fa quotidianamente il proprio lavoro. È questo uno dei motivi per cui vale la pena andare avanti. Il consenso che sento attorno a me rafforza il mio senso di responsabilità e mi spinge a non mollare mai. Del resto la scelta di campo è stata fatta tanto tempo fa. Da ragazzo volevo fare il magistrato per mettermi al servizio della collettività. Ed è quello che ho fatto.
Un mestiere pieno di difficoltà...
Quello che colpisce non è tanto l’inefficienza di certi governanti, ma l’inerzia e l’assoluta mancanza di indignazione della società civile, che sembra aver paura di svegliarsi da questo rassicurante torpore. La ’ndrangheta raccoglie in sé questa religione della famiglia, espressa chiaramente nei Malavoglia di Giovanni Verga, che è sempre stata al centro del modo di essere del calabrese, come del siciliano. Ciò che conta è il legame di sangue, il senso del clan familiare. Come ha scritto, con grande efficacia, Silvia Di Lorenzo, «lo Stato è un Padre nemico e castrato, di fronte alla Madre- mafia fallica e onnipotente, i cui figli non riconoscono il diritto, ma il legame di sangue, non la legge paterna, impersonale e uguale per tutti, ma la fedeltà di stampo materno, ai vincoli personali e familiari».3
È psicoanalisi del potere mafioso?
Ferdinand Tönnies distingueva la società mitteleuropea da quella mediterranea, definendo la prima una società di diritto, basata su leggi uguali per tutti (Gesellschaft), e la seconda una società di favori e amicizie, una sorta di comunità di tipo familiare (Gemeinschaft). La Gesellschaft ha una struttura orizzontale, specifica delle società democratiche di tipo anglosassone, mentre la Gemeinschaft, a struttura verticale, è fortemente gerarchica. L’una ha come principi fondanti la libertà e l’uguaglianza, l’altra il legame e l’appartenenza, radicati nella vita familiare.4 Chi appartiene alla Gesellschaft mitteleuropea è protetto dalla legge, quindi non ha bisogno di ricorrere agli altri per chiedere aiuto e favori. Nella Gesellschaft la legge è uguale per tutti. Invece i cittadini della Gemeinschaft mediterranea per ottenere giustizia devono coltivare amicizie influenti: fare favori in cambio di favori. In Italia abbiamo trasformato i diritti in favori. Il trionfo del clientelismo.
Dove c’è clientelismo c’è anche corruzione?
Sì, c’è anche corruzione e c’è anche mafia. La corruzione con il suo sistema di selezione sterilizza le migliori potenzialità intellettuali, non premia la meritocrazia, ma privilegia la fedeltà di gruppo. Così la corruzione genera la mafia e con essa alimenta la criminalità delle classi dirigenti del nostro paese.
Può essere più preciso?
Sicilia e Calabria hanno il primato per frodi e irregolarità sui fondi europei destinati all’Italia. Da un monitoraggio effettuato dalla guardia di finanza per queste due regioni è emerso che solo il 25% dei finanziamenti previsti dalla legge 488 è andato a buon fine. Succedeva così anche ai tempi della Cassa per il Mezzogiorno. Venne chiusa nel 1992 perché prosciugava risorse pubbliche senza portare sviluppo al Sud. La legge 488, attraverso il ministero per lo Sviluppo Economico, concede ancora aiuti a fondo perduto alle imprese italiane, quelle che operano nelle zone più depresse. Così anche oggi le imprese nascono e muoiono nel lasso di tempo necessario per completare la pratica e incassare il contributo.
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Che ruolo ha la ’ndrangheta in tutto questo?
Spesso utilizza teste di paglia per mettere in piedi società fasulle, potendo contare su una fitta rete di relazioni sul territorio. Molte filiali di banche in Calabria spesso dichiarano la solvibilità dell’imprenditore senza verificarla. Con il sistema delle false dichiarazioni dal 1996 al 2007 sono stati frodati allo Stato e all’Unione Europea circa quattro miliardi di euro, di cui circa 1,2 sono finiti in mano a organizzazioni criminali. L’intreccio tra politici e mafiosi diventa sempre più forte. A Seminara, per esempio, durante un’indagine gli investigatori hanno intercettato una conversazione nella quale un nipote del boss, Rocco Gioffrè, si diceva sicuro dell’elezione a sindaco del candidato Antonio Marafioti, che avrebbe potuto contare su 1050 voti.
Come andò a finire?
La lista sostenuta dalla ‘ndrina dei Gioffrè alla fine ha ottenuto 1058 voti, otto in più rispetto a quelli previsti dal nipote del boss di Seminara. Le previsioni della ’ndrangheta si sono rivelate addirittura più precise di quelle degli istituti di sondaggio. In un’altra conversazione si faceva riferimento a uno stampino, presumibilmente un normografo, utilizzato da elettori che non erano in grado di scrivere.
Che cosa si può fare?
Non è più un problema di destra e di sinistra, ma di recuperare senso dello Stato, etica, morale e dignità. La mafia non è un male solo del Sud: esiste una emergenza negata che riguarda tutto il paese.
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Il procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia, Vincenzo Macrì, sostiene che la ’ndrangheta sia una organizzazione policentrica e che la capitale più che a Reggio o San Luca sia a Milano. È d’accordo?
Non mi risulta, comunque ne prendo atto. Parlando di geopolitica della ’ndrangheta, ho sempre creduto nella centralità dei clan reggini. La provincia di Reggio Calabria sembra continuare ad avere l’ultima parola. Come ho già detto, la ’ndrangheta del Nord ha grossi interessi.
Le inchieste della Direzione distrettuale antimafia di Milano, per esempio, hanno confermato un forte interesse della ’ndrangheta nel settore del movimento terra e nell’edilizia in generale. Oggi molti padroncini, proprietari di camion, sono calabresi e gestiscono questo settore senza grande concorrenza. Ma è sempre stato così. La ’ndrangheta, contrariamente a Cosa Nostra, non ha mai investito in Calabria. Da noi sono rimaste solo e sempre le briciole.
La recessione ha conseguenze anche per la ’ndrangheta?
La crisi economica ha esasperato l’infiltrazione della ’ndrangheta, soprattutto nel campo dell’usura e del riciclaggio di denaro sporco. Le aziende in difficoltà hanno bisogno di capitali per sopravvivere. Le organizzazioni mafiose hanno interesse a infiltrarsi in nuovi settori come la ristorazione, il mercato delle auto, gli esercizi commerciali, le aziende di facchinaggio. Alcuni di questi sono più appetibili di altri. Nel 2006 Francesco Mancuso, boss di Limbadi, era riuscito a far indire una riunione dei sindaci della zona di Tropea per far approvare un progetto turistico finanziato dall’Unione Europea. Secondo l’accusa, la ’ndrangheta del Vibonese voleva accaparrarsi tutto quanto potesse rappresentare una fonte di guadagni. E non si accontentava di mettere il naso nel piano regolatore di un comune, ma addirittura voleva imporre a un piano territoriale una sua linea di crescita. In quella stessa indagine si accertò che le cosche della zona si erano presentate alla produzione della fiction Rai «Gente di Mare» imponendo comparse e ruoli più impegnativi per i loro affiliati, con la minaccia che, altrimenti, quella fiction tv, in quelle zone, non sarebbe stata girata.
La ’ndrangheta minaccia, a volte uccide, altre volte compra. È ciò che sostengono anche Elio Veltri e Antonio Laudati nel libro Mafia pulita.
I figli dei mafiosi hanno più dimestichezza con le partite Iva. Occupano posti importanti nella pubblica amministrazione. Come spiegano efficacemente Veltri e Laudati, «la mafia pulita è entrata prepotentemente nel mercato e nella società imponendo nuovi modelli di organizzazione sociale. Non sarà facile stroncarla, la globalizzazione del crim...

Indice dei contenuti

  1. Indice
  2. Prefazione
  3. Introduzione
  4. Gli inizi
  5. La svolta
  6. I sequestri di persona
  7. Il traffico di droga
  8. Veleni e rifiuti
  9. Il delitto Fortugno
  10. La strage di Duisburg
  11. Gli investimenti al Nord
  12. Le filiali estere
  13. Le radici
  14. Il paese dei campanelli
  15. Note
  16. Ringraziamenti