La mente colorata
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La mente colorata

Ulisse e l'Odissea

  1. 322 pagine
  2. Italian
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La mente colorata

Ulisse e l'Odissea

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Informazioni sul libro

Ulisse, "l'uomo dalla mente dai mille colori", variegato, multiforme, metamorfico, fatto di mille frammenti e di mille volti, l'eroe più conosciuto dell'epica occidentale diventa, nel libro di Citati, un universo da scoprire. Nessuno è più mobile di lui: la sua natura è la più vasta, intricata e inestricabile che abbiamo mai conosciuto.
Pietro Citati rilegge a suo modo l' Odissea, attraversando temi, luoghi, personaggi. Ma soprattutto mostra un eroe pieno di umanità, ormai lontano dal mondo perduto degli dèi, da quell'età dell'oro ancora rintracciabile nell' Iliade.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852011467

L’ODISSEA

Parte prima

I

GLI DÈI DELL’ILIADE E DELL’ODISSEA

Quando da ragazzi leggiamo l’Iliade e seguiamo gli sguardi di Zeus, Atena che si getta nella battaglia, Zeus che abbraccia Era, Afrodite che perseguita e possiede Elena, Ermes che accompagna dolcemente Priamo nella notte, – gli dèi greci ci sembrano, a prima vista, vicini e confidenziali. Abbiamo nella mente la Bibbia, e Jahvè. «Questi non sono dèi – ci diciamo. Sono soltanto uomini trasformati.» Non ci accorgiamo che gli dèi greci, qualsiasi cosa facciano, anche se ci accompagnano per le strade del mondo e ci carezzano con la mano, sono radicalmente altri rispetto a noi. Un abisso invalicabile (solo pochissimi eroi lo superano) ci divide da loro. Mentre Cristo prende un corpo umano, sale sulla croce e soffre come noi, essi non si incarnano mai: si accontentano di trasformarsi: la loro è soltanto una metamorfosi; indossano il nostro corpo come potrebbero indossare un vestito. L’incarnazione e il sacrificio di Cristo avrebbero riempito Zeus e Apollo di sacra indignazione: la stessa indignazione dei mandarini confuciani e dei taoisti cinesi.
L’Iliade, questo poema che qualcuno, molto tempo fa, definì illuministico, è pieno di quel sentimento del numinoso, senza il quale nessuna religione sopravvive. Penso a uno dei brani più famosi della letteratura universale. Mentre, nel primo libro dell’Iliade Achille vuole uccidere Agamennone, Atena scende dal cielo. Sta alle spalle di Achille e lo afferra per i capelli: Achille si volta, e vede la dea fissarlo con i suoi terribili, scintillanti occhi azzurri. I due si parlano. Nessuno degli spettatori vede qualcosa: la scena si svolge in un a parte, in un tempo vuoto, sospeso, in cui i Greci non scorgono né ascoltano nulla. In quel tempo sospeso, il divino, cioè il trascendente, si insinua e colma di sé la vita terrena. Non ci sono che quegli scintillanti occhi azzurri, e noi (salvo Achille) non ci accorgiamo di nulla.
Il divino è la forza. Zeus la possiede, nell’Iliade, e la esibisce in un modo esorbitante, barocco e quasi grottesco, di cui Omero si prende gioco. Quello era un tempo in cui si poteva ancora giocare con gli dèi, perché ridere era forse la forma più profonda di devozione e di venerazione. Siamo sull’Olimpo. Zeus minaccia gli dèi: se li vedrà aiutare i Greci o i Troiani, li percuoterà con tutto il suo impeto, o li scaglierà
tra le nebbie del Tartaro,
lontanissimo, dove sotterra è più fondo l’abisso,
dove sono le porte d’acciaio e la soglia di bronzo,
tanto al di sotto dell’Ade, quanto il cielo è lontano da terra;
e allora sì che saprete quanto sono il più forte di tutti gli dèi.
E minaccia uno spettacoloso tiro alla fune. Se tutti gli dèi appendono alla volta del cielo una corda d’oro e danno di piglio alla fune, non riusciranno a tirarlo a terra: mentre, se lui tira la corda, li solleverà con il mare e la terra, legando la corda «ad un picco d’Olimpo», e così tutte le cose staranno appese, a mezz’aria. Era aveva già conosciuto la forza di Zeus: una volta era stata sospesa, con due incudini ai piedi e una catena d’oro ai polsi; e nessun dio poteva avvicinarla e scioglierla dalla costrizione.
Quando Zeus appare sulla terra, Omero costruisce per lui un cocchio: esso rivela una stupenda oreficeria barbarica, che non ricorda nulla o quasi nulla di greco, ma le divinità assire o antico-iraniche, che vediamo a Susa, a Persepoli o al British Museum. Eccolo aggiogare al suo carro cavalli volanti e ferrati di bronzo, con la testa ornata da una criniera d’oro: anche lui riveste l’immenso corpo d’oro, prende una frusta d’oro e fa partire quell’irradiazione di luce solidificata verso il monte Ida, dove vela di nebbia sé stesso e i suoi cavalli. Davanti a queste esibizioni, ci sembra che la forza Zeus l’abbia appena conquistata o sia proprio nel momento di conquistarla. Come re dell’universo, Zeus nasce qui, nell’Iliade. Proprio per questo egli ostenta il proprio potere; e la sua ostentazione gli dà un sentimento violentissimo di orgoglio e di gioia, che vibrano di luce.
Se venera e si prende gioco di Zeus, Omero sa fino a che punto la forza divina sia distruttiva. Non è ancora stata addomesticata e in parte placata, come accadrà nell’Odissea. In alcuni momenti essa diventa furore, ira selvaggia. Seduti accanto a Zeus, gli dèi stanno a convegno sul pavimento d’oro. Zeus accusa Era di odiare Troia:
Sciagurata, che cos’è che Priamo e i figli di Priamo
tanto di male ti fanno, che vai senza tregua smaniando
di portare in rovina la città ben costruita di Ilio?
Se, penetrata dentro le porte e dentro le lunghe mura,
crudo tu divorassi Priamo e i figli di Priamo
e tutti gli altri Troiani, allora sì placheresti la rabbia.
Quanto a Zeus, con la stessa furia ribadisce che un giorno distruggerà a suo piacere una città in cui vivono uomini cari a Era: «la mia ira non trattenere, ma lasciami fare». Senza la minima incertezza Era abbandona le città più amate: «Argo, Sparta e Micene dalle ampie strade: distruggile pure, quando di cuore ti diventino odiose». È un passo sinistro. La furia che, giù in basso, distrugge come una macchina le membra flessibili e arboree dei guerrieri adolescenti, è solo l’ombra impallidita della furia che regna nel cielo. Anche in cielo c’è hýbris, sebbene per definizione gli dèi non possano commettere peccato di hýbris.
Zeus ha un altro volto. In un tempo forse remoto, sul quale Omero non ci informa, egli ha sposato la dea Metis, che porta con sé il potere fecondo e oracolare delle acque oceaniche. L’inganna, persuadendola a trasformarsi in poche gocce d’acqua: l’inghiotte, come Crono aveva inghiottito i figli; e si appropria del potere di lei, secondo la sua arte di assimilare le forze diverse o nemiche. Così, portando la dea Metis nel corpo e nella mente, Zeus diventa tutto Mêtis. Possiede la potenza oracolare delle antiche divinità marine, la conoscenza del bene e del male, il dono della metamorfosi e una ingegnosissima astuzia pratica, con la quale sconfigge i rivali. Egli è diventato il Supremo Ingannatore. Quando Ulisse esalta le astuzie del cavallo di Troia e della grotta di Polifemo, non è che una pallidissima eco delle astuzie, che si tramano in cielo. Alle volte abbiamo l’impressione che nell’Iliade questo processo di appropriazione non sia del tutto compiuto. Qualcosa, in Zeus, non è ancora completamente Mêtis: egli si lascia ingannare due volte da Era, come se la sposa, che egli assoggetta con la forza, abbia compreso i segreti dell’inganno meglio del suo signore.
Subito dopo Zeus ci appare nella veste solenne del dio della giustizia.
Come sotto un ciclone si fa pesante e scura tutta la terra
in un giorno d’autunno, quando con più violenza Zeus
versa pioggia, quando sdegnato s’adira con gli uomini,
che con prepotenza in piazza danno sentenze inique,
perseguitando la giustizia, non curando lo sguardo degli dèi…
La struttura dell’Iliade gli dà ragione. Zeus ha deciso di far cadere Troia perché Paride, e attraverso lui i Troiani, hanno offeso il diritto di ospitalità, facendo fuggire Elena da Sparta; e comprende anche il dolore di Achille, offeso da Agamennone. Ma la sua è una giustizia singolare. Coincide con una sovrana noncuranza verso la sua attuazione: sia che Zeus inganni Agamennone con un sogno falso, sia che Achille ottenga giustizia, ma a patto di vedere Patroclo ucciso dagli dèi. Essa è universale, non particolare: bada ai grandi fatti, non ai dolori dei singoli; l’inganno, la doppia parola, la parola taciuta, sono i mezzi che coltiva più volentieri. Anche le Muse, che Zeus ama teneramente, conoscono una simile duplicità, quando confessano di coltivare sia il vero, sia «le menzogne simili al vero».
Il dono supremo di Zeus è lo sguardo, che vede e che pensa. Quando sale sul monte Ida, siede sopra la cima, esultante di gloria, e «guarda alla città dei Troiani, alle navi degli Achei». Tutto gli è sottoposto: quello sguardo dall’alto, che rivela il potere incommensurabile del suo occhio, lo riempie di gioia. Sulla terra, i Troiani e i Greci si massacrano: i giovani muoiono: le donne restano senza marito, i bambini senza padre; ma ogni evento è, per lui, soltanto uno spettacolo, l’evento di un teatro cosmico, preparato per il suo piacere. Poi si stanca, e volge altrove gli «occhi splendenti»:
guardando lontano alla terra dei Traci allevatori di cavalli,
dei combattivi Misi, degli Ippemolgi belli,
che bevono latte equino, e degli Abii, uomini giustissimi.
Lo spettacolo si è indefinitamente allargato: forse potrà toccare le rive dell’Oceano, ed egli continua a guardare. Sembra che Zeus, come Omero, viva soltanto per contemplarlo: con una vista tanto più sottile e minuziosa della nostra e tanto più vasta, che forse percepisce con la luce della pupilla persino le rifrazioni dei suoni. Eppure, Zeus non è onniveggente. Se dorme, non vede: se Era distoglie amorosamente la sua attenzione, non scorge quello che fanno gli dèi, i Greci e i Troiani nella pianura di Troia. Persino l’occhio di Zeus ha un limite: quel limite che, secondo i Greci, si nasconde in tutte le cose.
Con sovrannaturale facilità e leggerezza, Zeus gioca. Insieme a lui giocano tutti gli dèi: persino Apollo, che ci sembra così grave, è un bambino che gioca, come il tempo di Eraclito, con le tessere di una scacchiera. Eccolo lì, sulla riva del mare: ha costruito un castello o un muretto per divertimento (quei castelli e quei muretti che ancora oggi, duemilaottocento anni più tardi, i bambini costruiscono presso la riva del mare) e con lo stesso divertimento, lo butta giù di nuovo, con le mani e i piedi; e non ha nessuna importanza che il castello sia in realtà il muro di protezione costruito dai Greci con tanta fatica. Malgrado il loro potere, gli dèi ridono di sé stessi. L’adulterio tra Ares e Afrodite, che tra i pesantissimi e noiosi mortali diverrebbe un massacro per generazioni – mogli che uccidono mariti, figli e figlie che uccidono madri – è uno spettacolo di arte varia, accompagnato dalle risa degli spettatori.
Gli dèi si divertono sopratutto alle spalle degli uomini, che hanno la ridicola convinzione, durata per tremila e più anni, di fare la storia. Abitiamo l’Iliade: viviamo nella battaglia: condividiamo morti e feriti; ma d’altra parte tutto è vano – gioia dei Troiani, timori dei Greci, dolori di Achille – perché in questo preciso momento Zeus, signore o complice del destino, gioca con gli eventi. La guerra finisce: Troia è distrutta, i Troiani massacrati, i Greci (non tutti) tornano a casa. Restano soltanto i relitti del muro dei Greci, che qualche Erodoto o Tucidide dei tempi micenei avrebbe voluto vedere da vicino, misurare, raccogliendo notizie, per descriverli ai posteri. Nemmeno questo è possibile. Apollo e Posidone, invidiosi delle opere umane, decidono di spazzare via il muro. Così Apollo scatena la furia dei fiumi, convoglia le foci in un punto solo, spinge le acque sul muro, mentre Zeus manda una pioggia violentissima, e Posidone getta in mezzo alle onde tutti i pilastri di travi e di pietra. Non resta più niente. Insieme al muro vengono cancellate la guerra di Troia, le migliaia di morti inutili, forse perfino i canti dei poeti che hanno cantato gli eroi e i morti. Tutto ritorna come prima, rigenerato dalla storia degli uomini.Posidone
tutto spianò di fronte all’ondoso Ellesponto,
e stese di nuovo la sabbia sulla spiaggia spaziosa,
cancellato che ebbe il muro; e spinse i fiumi a tornare
nel loro letto, dove adagiavano prima la bella corrente.
Secondo Agostino, il Dio cristiano è altissimus et proximus, secretissimus et praesentissimus. Sta in alto, in alto, elevato sopra tutte le cose, celato nel proprio abisso: eppure nessuno ci è più vicino e prossimo, così «intimo del nostro intimo», così fraterno, manifesto e familiare. Anche Allah è un dio lontano, nascosto, inconoscibile, perduto nella distanza dei cieli, difeso da settantamila cortine di luce e di tenebra: eppure egli ci è più vicino della vena del nostro collo, del nostro respiro, della nostra immagine riflessa allo specchio, o dell’amata accanto alla quale dormiamo. Con qualche differenza di tono, potremmo dire lo stesso di Zeus e degli dèi greci. Chi è più altissimus di Zeus? Dagli eventi e dai personaggi della commedia umana, egli possiede la stessa distanza che hanno i poeti da ciò che raccontano. È lontanissimo, molto più del nostro dio, che invia Cristo a salvarci: non è nemmeno percorso dal pensiero di salvarci; perché noi dobbiamo vivere nella nostra miseria.
Come il Dio cristiano, Zeus e gli dèi greci sono proximi e praesentissimi. Hanno bisogno di noi. Non potremmo immaginarli condurre una vita solitaria, sull’Olimpo, ascoltando le musiche e i canti di Apollo e delle Muse: gran parte delle loro gioie nasce dal fatto che noi esistiamo, sia pure effimeri come le foglie. Senza di noi si annoierebbero. Qualche volta ci amano. Atena tiene lontana una freccia dal corpo di Menelao, «come quando una madre tiene lontano una mosca dal piccolo, che dorme in un dolce sopore». Sopratutto Zeus soffre per noi. Ha pietà e compassione: di Ettore e di Sarpedone, di Priamo e di Patroclo, e di Achille che piange Patroclo, e persino dei cavalli di Achille che piangono il loro auriga, e di Troo che piange il figlio Ganimede che Zeus gli ha rapito.
Così, noi, commossi, lo invochiamo. Convinta da Achille, Teti prega Zeus perché restituisca l’onore al figlio. Zeus acconsente, annuendo con le sopracciglia. Agamennone viene punito: l’onore ridato ad Achille. Tutto, dunque, è stato esaudito, come Achille desiderava: ma il prezzo della preghiera esaudita è il corpo trucidato e vilipeso di Patroclo, la persona che Achille ha più amato al mondo. Forse sarebbe meglio che gli dèi non ci ascoltassero.
Se, subito dopo l’Iliade, leggiamo l’Odissea, questo grandioso spettacolo teologico-mitologico è scomparso o è andato in frantumi. Non c’è quasi più traccia del tremendo numinoso, che ci svelavano Zeus, Apollo ed Atena: Zeus non ostenta la propria forza né sale sul barbarico cocchio d’oro: non possiede con lo sguardo radioso l’universo; non ride, non scherza, non si prende (quasi mai) gioco di noi e di sé stesso. Che resta delle fatiche di Zeus? Invece di imporre la sua forza agli altri Olimpici, tenta, con ognuno di loro, accordi, patti, compromessi, che permettano l’armonia tra gli dèi; e persino la crudelissima Atena è piena di riguardi verso Posidone. Zeus è ancora il dio della Mêtis: ma i suoi inganni non sono più così spettacolari, e a volte sembra affidare questo dono a due allievi, Atena e Ulisse.
Molti studiosi dicono (o dicevano) che, col passaggio all’Odissea, i Greci hanno compiuto un passo definitivo, perché Zeus è diventato il dio della giustizia, come non lo era nell’Iliade. Non sono sicuro che la giustizia faccia parte dei caratteri essenziali della divinità. Zeus è diventato veramente giusto, come grida Laerte alla fine dell’Odissea? Egli segue lo stesso piano che aveva seguito nell’Iliade: là come qui difende i diritti degli ospiti e dell’ospitalità da coloro – Paride, i Troiani, i Proci – che li avevano violati. Dunque Zeus è anche giusto.Ma all’inizio del poema, Atena mette in dubbio la sua giustizia. Alla fine, Zeus si macchia probabilmente di un peccato imperdonabile: il sacrificio dei Feaci, gli uomini più «giusti» della terra, alla vendetta di Posidone. Questo sacrificio copre d’ombra tutto il suo comportamento nell’Odissea.
Un tempo, i Greci, gli dèi e gli eroi vivevano insieme. Discendevano dalla stessa razza: conducevano un’esistenza comune; avevano comuni «le mense e i concili». Allora gli uomini vedevano gli dèi nel «loro sembiante», «nel loro splendore»: senza temere quelle membra immense, quegli sguardi terribili, quelle voci sovrumane, quella luce eccessiva. Nella tradizione omerica, non abbiamo vere testimonianze di questa condizione beata: come se tutti i segni della vita comune fossero scomparsi dalla memoria dei poeti. Sappiamo soltanto che, ancora ai tempi dell’Iliade e dell’Odissea, c’erano popolazioni arcaiche, gli Etiopi e i Feaci, che vivevano insieme agli dèi, banchettavano con loro e li vedevano come sono –: ma, nemmeno questa volta, nessuno ci dice cosa significasse scorgere gli dèi nel loro assoluto sembiante, senza temerli e fuggirli.
Poi avvenne la fatale separazione: la visione degli dèi diventò per gli uomini problematica e drammatica. Quando Demetra, ad Eleusi, varcò la soglia della casa di Celeo, la sua figura si alzò, toccò le volte col capo e riempì il vestibolo di una luce sovrumana. ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La mente colorata
  4. PROLOGO
  5. L’ODISSEA
  6. Nota
  7. ‘UNA LIRA IN MARE’ di Marcel Detienne
  8. Copyright