La dottoressa Kay Scarpetta sposta verso la luce di una candela la provetta di vetro e osserva la larva che galleggia nell’etanolo.
Capisce immediatamente a che stadio della metamorfosi è l’esemplare biancastro, non più grande di un chicco di riso. Se non fosse morto, si sarebbe trasformato in una Calliphora vicina, una mosca dalle sfumature verde bottiglia, e avrebbe presumibilmente deposto le uova nella bocca o negli occhi di un cadavere, oppure nella maleodorante ferita di un vivo.
«Molte grazie» dice Kay Scarpetta passando in rassegna con lo sguardo i quattordici poliziotti e tecnici della Scientifica che hanno appena concluso il corso della National Forensic Academy, anno 2003. Il suo sguardo si sofferma sulla faccia innocente di Nic Robillard. «Non so chi si sia preso la briga di raccogliere questo esemplare in posti che è meglio non nominare, visto che siamo a tavola, e di conservarlo per me, ma…»
Tutti la guardano perplessi. Qualcuno alza le spalle.
«Devo dire che è la prima volta che qualcuno mi regala una larva.»
Nessuno si fa avanti, ma Kay Scarpetta sa che un poliziotto deve saper bluffare e, all’occorrenza, mentire spudoratamente. Avendo notato però il mezzo sorriso che Nic Robillard ha accennato prima che la maggior parte dei presenti si accorgesse della larva sul tavolo, sospetta che sia lei l’autrice dello strano dono. La luce della candela si muove sulla provetta che tiene fra le dita. La dottoressa ha mani ferme, eleganti ma forti, con le unghie corte e ben curate, mani che per anni hanno sezionato ed esaminato cadaveri.
Purtroppo per Nic, i suoi compagni di corso non ridono. L’umiliazione le piomba addosso come una doccia gelata. Dopo dieci settimane, i colleghi che ormai sarebbero dovuti diventare suoi amici continuano a chiamarla “la provinciale”. Solo perché è di Zachary, in Louisiana, cittadina di dodicimila anime che fino a poco tempo prima non sapeva nemmeno cosa fosse un omicidio. Per anni è stata la norma che a Zachary non venisse ammazzato nessuno.
I suoi compagni di corso sono talmente abituati a occuparsi di omicidi che ormai li catalogano cinicamente come “da galera”, “da multa”, “da niente”. Ma Nic non è così: per lei un omicidio è un omicidio. Nei suoi otto anni di carriera ha indagato su due soltanto, entrambi commessi fra le mura domestiche. Il primo giorno di corso, quando uno degli istruttori chiese a tutti la media annuale di omicidi di cui si occupava il loro dipartimento, Nic si vergognò. “Zero” rispose. “Quanti agenti siete?” fu la domanda successiva. “Trentacinque” disse lei. “Meno che a scuola?” scherzò uno dei suoi compagni. Per Nic quel corso era una grossa occasione e sin dall’inizio aveva cercato di inserirsi, di accettare il modo di pensare degli altri poliziotti, ma era sempre rimasta un po’ emarginata.
Rimpiange la storia della larva, capisce che è stato un errore (anche se non sa bene perché) fare un regalo, serio o scherzoso che fosse, alla mitica anatomopatologa Kay Scarpetta. Arrossisce, in preda ai sudori freddi, e osserva il suo idolo, incapace di decifrarne la reazione, probabilmente per eccessivo imbarazzo e insicurezza.
«La chiamerò Maggie, anche se è difficile stabilire se sia maschio o femmina» decide Kay Scarpetta, con la luce della candela che le si riflette sugli occhiali dalla sottile montatura di metallo. «Mi sembra un nome simpatico, per una larva.» La ventola sul soffitto fa tremolare la luce della candela dentro il suo globo di vetro mentre la dottoressa alza la provetta. «Qualcuno di voi sa dirmi a che stadio di vita era prima che qualcuno…» si guarda in giro e fissa Nic una frazione di secondo in più degli altri «la mettesse qui dentro? A proposito, penso che Maggie sia morta per annegamento. Anche le larve hanno bisogno di aria, per vivere.»
«Chi ha affogato questo verme?» ridacchia uno dei poliziotti.
«Pensa che roba, annegare nell’alcol…»
«Mi sembra che tu non ci sia molto lontano, Joey. È tutta la sera che bevi come un dannato!»
A Nic quelle battute suonano cupe e minacciose come un temporale che si ode in lontananza, da cui non si sa come difendersi. Si appoggia allo schienale della sedia, incrocia le braccia e cerca di fare l’indifferente, ma le sembra di risentire le parole di suo padre: “Ascoltami bene, tesoro, quando ci sono i fulmini, non restare in piedi in luoghi isolati e non cercare rifugio sotto gli alberi. Sdraiati in un fosso e aspetta che passi”. In quel momento non ci sono fossi in cui nascondersi. Può solo cercare rifugio nel silenzio.
«Dottoressa, abbiamo già fatto l’esame!»
«Com’è che ci interroga anche alla festa di fine corso?»
«Questa è la nostra serata libera!»
«Ah, sì? È la vostra serata libera?» replica Kay Scarpetta. «Perciò se viene ritrovato un cadavere durante la vostra serata libera non andate nemmeno a vederlo. È così?»
«Be’, dovrei almeno aspettare che mi sia passata la sbornia» risponde un agente con la testa rasata, talmente lucida che sembra averci passato la cera.
«Capisco» sospira Kay Scarpetta.
Tutti ridono, tranne Nic.
«Succede.» La dottoressa posa la provetta vicino al bicchiere di vino. «Ci possono chiamare in qualsiasi momento. Magari ci ritroviamo per le mani il caso più difficile di tutta la nostra carriera e siamo un po’ brilli, oppure non stiamo bene, abbiamo appena litigato con il fidanzato, con un amico o con nostro figlio.»
Spinge da una parte il piatto di tonno che non ha finito di mangiare e incrocia le dita sulla tovaglia a quadretti.
«Ma il nostro lavoro non può aspettare» aggiunge.
«In certi casi sì» la contraddice un agente di Chicago che tutti quelli del corso chiamano Popeye perché ha un’ancora tatuata sul braccio sinistro. «Se troviamo delle ossa in un pozzo, uno scheletro in cantina o un corpo sotto un pilastro di cemento, per esempio. Voglio dire, mica scappano, no?»
«I morti sono impazienti» è la risposta di Kay Scarpetta.
La notte sul bayou a Jay Talley ricorda un gruppo cajun, con le rane toro ai bassi, le raganelle alla chitarra elettrica, grilli e cicale alle percussioni e agli archi.
Punta la torcia ai piedi di un vecchio cipresso dal tronco scuro e artritico, facendo brillare per un attimo gli occhi di un alligatore che poi scompaiono nell’acqua nera. Il riflesso della luna illumina nugoli di zanzare che ronzano cupe. L’imbarcazione va alla deriva, con il motore fuoribordo spento. Jay è seduto al posto di comando e osserva oziosamente la donna nella stiva, a poca distanza dai suoi piedi. Quando cercava una barca da comprare, qualche anno prima, quel modello lo aveva particolarmente eccitato proprio per via della stiva, abbastanza lunga e profonda da contenere sessanta chili di pesce e ghiaccio. Oppure una donna, di quelle come piacciono a lui.
La guarda, e vede che ha gli occhi sbarrati per il terrore. Alla luce del giorno sono di un azzurro intenso e molto bello. In quel momento li chiude con una smorfia, perché Jay la sta accarezzando con la luce della torcia cominciando dal viso, bello e maturo, via via fino alle unghie dei piedi laccate di rosso. È bionda, sui quarant’anni ma molto giovanile, minuta e con le curve al posto giusto. La stiva è foderata di cuscini arancioni, sporchi e macchiati di sangue secco. Jay è stato premuroso, le ha legato i polsi e le caviglie ma senza stringere troppo, in maniera che la corda di nylon gialla non le bloccasse la circolazione. Le ha detto che i legacci non le avrebbero scorticato la pelle, se fosse stata ferma e non avesse opposto resistenza.
«Tanto, opporre resistenza non servirebbe a niente» l’ha avvertita con la sua voce baritonale, che si adatta perfettamente ai suoi modi eleganti. «E non ti imbavaglio: neanche gridare servirebbe a niente.»
A quel punto la donna ha fatto cenno di sì con la testa e a lui è venuto da ridere, perché era evidente che voleva dire di no. Ma può capirla: la gente sragiona e agisce in maniera illogica, quando è terrorizzata. Anche se forse parlare di terrore è inesatto. Evidentemente nessuno ha mai riflettuto a fondo su cosa provi l’essere umano di fronte al dolore, all’orrore, alla morte, quando il panico pervade ogni suo neurone, ogni cellula, in un modo che va ben oltre il mero terrore. Eppure Jay, che tra l’altro parla diverse lingue, non conosce un termine migliore per descrivere ciò che provano le sue vittime.
Un frisson di orrore?
Macché.
Osserva la donna. È un agnello. Nella vita esistono due categorie di persone: i lupi e gli agnelli.
Il suo desiderio di trovare un termine che descriva con precisione la sofferenza dei suoi agnelli è ormai un’ossessione, per Jay. È l’adrenalina a trasformare una persona normale in una forma di vita inferiore, dotata di un controllo e di una logica paragonabili a quelli di una rana arpionata. Oltre a quella risposta fisiologica che criminologi, psicologi ed esperti in genere definiscono reazione fight or flight, contano molto le caratteristiche individuali dell’agnello, la sua esperienza, la sua immaginazione. Quanta più violenza ha vissuto per interposta persona, attraverso libri, televisione, film e telegiornali, per esempio, tanto meglio riesce a immaginare che cosa può capitargli.
Ma il termine preciso, accurato, perfetto, continua a sfuggirgli.
Si avvicina all’agnello e ascolta il suo respiro affannoso, rapido. Trema tutta. È come se l’orrore (in mancanza di un termine più appropriato) le agitasse ogni molecola creando uno scompiglio insopportabile. Jay le sfiora una mano: fredda come quella di un morto. Le posa due dita sul collo, cercando la carotide, e le misura il battito guardando il quadrante luminoso dell’orologio.
«Centottanta, più o meno» le dice. «Non farti venire un infarto. Una volta ne ho persa una, così.»
La donna lo guarda con gli occhi sgranati e il labbro inferiore contorto in una smorfia.
«Dico sul serio. Non farti venire un infarto.» È serissimo.
Il suo è un ordine.
«Fai un respiro profondo.»
La donna obbedisce, tremando.
«Va meglio?»
«Sì. Per favore…»
«Perché voi agnelli siete tutti così educati, cazzo?»
La donna ha la camicetta di cotone rossa strappata ormai da giorni. Jay gliela apre ancora di più, scoprendo ulteriormente i seni prosperosi che tremano e brillano alla luce della luna. Ne segue le rotondità fino al ventre piatto e alla cerniera aperta dei jeans.
«Mi dispiace» si scusa lei in un sussurro, mentre una lacrima le corre sulla guancia sporca di terra.
«Di nuovo?» fa lui, andandosi a risedere al posto di guida. «Pensi che trattandomi con i guanti mi farai cambiare idea?» I suoi modi educati lo irritano. «Sai che cosa penso della tua cortesia?»
Aspetta una risposta.
La donna cerca di bagnarsi le labbra, ma ha la lingua secca. Le pulsano le vene del collo come se un uccellino ci fosse intrappolato dentro.
«No.» Lo dice a fatica, con le lacrime che le scorrono nelle orecchie e tra i capelli.
«Che è segno di debolezza» risponde.
Le rane ricominciano il loro concerto. Jay osserva la nudità della donna, la pelle chiara e lucida. L’ha cosparsa di repellente per gli insetti, un gesto di umanità in parte dettato dal fatto che detesta i seg...