Il Regno del Nord
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Il Regno del Nord

1859: il sogno di Cavour infranto da Garibaldi

  1. 192 pagine
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1859: il sogno di Cavour infranto da Garibaldi

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Italia federale o Italia nazionale? Questo interrogativo, di scottante attualità, già agli albori del Risorgimento fu al centro del dibattito politico e culturale. Forse non tutti sanno, però, che alla vigilia dell'unità nazionale la confederazione italiana era quasi sul punto di realizzarsi. E l'iniziativa partì proprio da Cavour, considerato oggi un paladino dell'Italia unita, che il 21 luglio 1858 si incontrò in gran segreto con Napoleone III nella stazione termale di Plombières-les-Bains. In quell'occasione l'allora primo ministro del Regno di Sardegna e l'imperatore di Francia decisero, con freddo cinismo, di scatenare una guerra contro l'Austria per rivoluzionare la carta geopolitica dell'Europa e di dividere la penisola italiana, una volta liberata dalla dominazione austriaca, in tre Stati: il Regno del Nord sotto l'egida dei Savoia, un Regno del Centro ancora da definire e il Regno delle Due Sicilie, cui si sarebbero aggiunte l'Umbria e le Marche, appartenenti agli Stati pontifici. Tutto pareva organizzato, mancava soltanto l'approvazione di Francesco II, re di Napoli, che però, quando seppe che i suoi territori si sarebbero arricchiti delle due regioni papaline, da devoto e timorato di Dio qual era, gridò al sacrilegio e mandò in fumo il piano. Poi, com'è noto, Garibaldi, con l'appoggio della flotta britannica, sbarcò a Marsala.
Cavour vedeva così il suo sogno infrangersi e, pur non essendo un fautore dell'unità nazionale - che riteneva una "corbelleria" -, si rassegnò pragmaticamente all'idea di "piemontesizzare " l'Italia intera, cercando di contrapporre con tempestività una sollevazione antiborbonica moderata alla rivoluzione garibaldina che infiammava il Meridione. A Costantino Nigra, suo ambasciatore a Parigi, che gli aveva scritto: "Meglio aspettare. Lasciamo prima arrivare Garibaldi a Napoli... Lasciamo cuocere i maccheroni ", rispose infatti: "I maccheroni non sono ancora cotti, ma le arance sono già sulla tavola e non possiamo rifiutarle".
Arrigo Petacco ricostruisce il clima e le premesse che portarono al progetto federalista sulle cui ceneri sorse lo stato italiano: dai moti del 1821 e 1831 al pensiero di Cattaneo, Gioberti e Mazzini, dall'elezione di Pio IX al vento rivoluzionario che nel 1848 sconvolse l'Europa, fino alle guerre d'indipendenza e alla prima seduta del Parlamento italiano. Nel suo racconto intessuto di retroscena, accordi segreti pubblici e privati dedica ampio spazio ai protagonisti e alle loro vicende personali. Assistiamo così al matrimonio tra Clotilde di Savoia e il principe Girolamo, cugino di Napoleone III, combinato dal "tessitore" Cavour per rinsaldare l'alleanza con i francesi, alle strategie seduttive e spionistiche di Virginia Oldoini, contessa di Castiglione, alle nozze "lampo" di Garibaldi, alle prodezze dell'impavida diciottenne Maria Sofia, la "regina del Sud" moglie di Francesco II, che combatté sugli spalti di Gaeta come un soldato fra i soldati.
Il Regno del Nord offre una rilettura originale di un periodo storico fondamentale facendo emergere come l'identità italiana sia tenacemente legata a una vocazione federalista che proviene da lontano e percorre in modo sotterraneo la nostra storia nazionale.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852012945
Argomento
Storia

V

IL GRIDO DI DOLORE

Un matrimonio che s’ha da fare
Quel gennaio del 1859 fu per il conte di Cavour un mese terribile, che gli tolse il sonno e persino la fame. Dimagrì, come racconta il suo medico, di oltre quattro chili, e ciò rappresentava un record salutare per un uomo abitualmente sovrappeso che non riusciva a rinunciare alla buona tavola. Mai aveva vissuto tanti giorni di angosciosa trepidazione. Secondo gli accordi segreti stipulati con Napoleone III a Plombières, aveva dovuto assolvere un compito immane. Doveva preparare il Piemonte alla guerra, ma senza dirlo. Doveva alimentare le iniziative insurrezionali fingendo però di frenarle per non allarmare l’imperatore che non voleva una guerra «rivoluzionaria». Doveva infine inasprire i rapporti con l’Austria, ma senza provocarne l’aggressione prima che il patto di alleanza con la Francia non fosse stato firmato. E la firma di questo patto tardava ad arrivare.
L’evento era stato infatti rinviato di mese in mese e la sua angoscia era progressivamente aumentata. Temeva che un qualsiasi pretesto avrebbe potuto indurre Napoleone, ondeggiante com’era nelle sue decisioni, a rimangiarsi i suoi impegni che non erano ancora stati registrati nero su bianco. E un pretesto decisivo poteva essere il mancato assenso della principessa Clotilde a convolare a giuste nozze con il principe Girolamo Buonaparte. Tutto ora dipendeva da lei. Se quella ragazzina avesse fatto le bizze, come si sarebbe comportato Vittorio Emanuele che «era più padre che re»? La firma del trattato era strettamente legata a quelle nozze.
Per premunirsi contro eventuali ripensamenti, già il 2 agosto 1858 Cavour aveva fatto recapitare segretamente a Napoleone, tramite il solito Costantino Nigra, un «Riassunto dei punti concordati a Plombières» dove erano trascritti puntigliosamente i progetti più compromettenti del loro «complotto». Un documento che se fosse stato reso pubblico avrebbe scandalizzato l’intera l’Europa.
Si trattava forse di una larvata minaccia di ricatto? Certamente sì. Cavour, che non difettava di spregiudicatezza, come si era servito della contessa di Castiglione per circuire l’imperatore e dello spauracchio mazziniano per spaventarlo, non avrebbe esitato a provocare uno scandalo se il sovrano avesse mancato di parola. Nello stesso tempo, assecondato dal dottor Conneau e dallo speranzoso pretendente alla mano di Clotilde, principe Girolamo, egli aveva anche tessuto abilmente altri fili per imprigionarlo nella sua rete. Costantino Nigra, per esempio, era incaricato di informarlo minuziosamente, giorno per giorno, dei salti d’umore dell’imperatore e delle sue eventuali perplessità.
Questi «bollettini meteorologici», che si erano infittiti all’inizio del 1859, non erano purtroppo sempre confortanti per Cavour. Le buone notizie si alternavano alle cattive come le frustate di una doccia scozzese. Ma andiamo per ordine. Il giorno di Capodanno del 1859, un dispaccio di Nigra gli aveva fatto toccare il cielo con un dito. Alle Tuileries, durante la cerimonia dello scambio degli auguri, Napoleone III si era rivolto all’ambasciatore austriaco Hübner con tono apparentemente bonario, ma che i presenti avevano invece giudicato minaccioso, con queste parole: «Mi dispiace, signor ambasciatore, che i nostri rapporti non siano buoni come vorrei, ma vi prego di riferire a Vienna che i miei sentimenti verso l’imperatore sono sempre gli stessi».
Leggendolo, Cavour si era fregato le mani soddisfatto: la tempesta si stava avvicinando. La frase pronunciata da Napoleone era stata infatti interpretata da tutte le cancellerie come un annuncio di guerra. Ma il giorno dopo era subentrata la delusione. Nigra gli aveva riferito preoccupato che il conte Walewski, conversando con l’ambasciatore Hübner, lo aveva rassicurato garantendogli confidenzialmente che quella frase era stata male interpretata. Napoleone non avrebbe mai espresso i suoi migliori sentimenti nei confronti dell’imperatore Francesco Giuseppe se non avesse desiderato conservarsi la preziosa amicizia dell’Austria. Dormisse pure sonni tranquilli.
Il 3 gennaio era tornato improvvisamente il sereno. Nigra aveva comunicato a Cavour di aver visto fra le mani di Napoleone una nota di appunti così concepita:
– alleanza offensiva e difensiva con il Piemonte –
– guerra all’Austria –
– costituzione del Regno dell’Alta Italia di circa dieci milioni di abitanti –
– costituzione del Regno dell’Italia centrale –
– sovranità temporale conservata al papa –
– cessione alla Francia di Nizza e Savoia.
Erano i punti fondamentali dell’alleanza segreta con la Francia. Evidentemente, l’elaborazione dei trattati stava per concludersi.
Il 4 gennaio era stato Cavour a scrivere a Nigra. A Torino si attendeva con ansia l’arrivo del principe Girolamo che doveva portare i trattati per la firma, ma anche la richiesta ufficiale della mano della principessa Clotilde. «Il re è molto impaziente» sottolineava Cavour, «ora desidera l’arrivo del principe tanto quanto lo temeva fino a pochi giorni fa.» Grazie alle sue perorazioni, Vittorio Emanuele si era finalmente reso conto che il matrimonio di Clotilde con Girolamo rappresentava veramente la conditio sine qua non dell’alleanza.
Ma il 5 gennaio un’altra tegola cadeva sulla testa del conte. Nigra lo informava che Napoleone, avvicinandosi l’ora decisiva, era stato costretto a informare il ministro degli Esteri dei loro colloqui segreti di Plombières relativi alla guerra contro l’Austria. «La partecipazione del conte Walewski a questi negoziati» scriveva Nigra «causa qualche apprensione al principe Girolamo che non lo ama e lo ritiene ostile ai nostri disegni.»
Cavour gli aveva risposto il giorno dopo: «Mi spiace infinitamente che l’imperatore abbia ammesso il Walewski al nostro segreto e che si serva di lui per la preparazione dei trattati. Egli cercherà di nuocerci quanto è possibile. Pazienza. Bisognerà raddoppiare di sottigliezza e di fermezza. Sino a che voi siete a Parigi sono senza inquietudine: voi terrete testa a Walewski. Ma quando voi non ci sarete più, che cosa farà quel povero Villamarina?». Salvatore Pes di Villamarina era il titolare dell’ambasciata sarda a Parigi ma, essendo poco stimato da Cavour, era stato tenuto all’oscuro di tutta la faccenda.
Frattanto era sorto un nuovo problema. Il 10 gennaio Vittorio Emanuele doveva pronunciare il discorso della Corona per l’apertura del Parlamento, era quindi indispensabile che, considerate le particolari circostanze, il discorso del sovrano non si riducesse alle solite formule retoriche, ma si ricollegasse alla delicata situazione politica del momento con la dovuta solennità. Per questa ragione, tenuto conto che i trattati non erano ancora stati firmati, era necessario che il testo fosse approvato in anticipo anche dall’imperatore per non correre il rischio che qualche parola di troppo potesse mettere a repentaglio l’alleanza. Cavour ne scrisse una dozzina di versioni, che fecero la spola fra le due capitali per essere rivedute e corrette dall’imperatore.
Di quella definitiva l’imperatore giudicò «un po’ forte» soltanto il finale suggerito da Cavour, che suonava in questo modo: «Tuttavia, noi resteremo costanti nel fermo proposito di compiere, sulle orme segnate dal Magnanimo mio Genitore, la Grande Missione che la Divina Provvidenza ci ha affidato». Di sua mano, Napoleone l’aveva cancellata suggerendo la seguente rettifica: «Tuttavia, pur rispettando i trattati, noi non possiamo restare insensibili al grido di dolore che giunge sino a noi da tante parti d’Italia». Una correzione che, a ben vedere, era molto più forte della frase sostituita, ma tant’è. A Napoleone andava bene così, e Vittorio Emanuele la pronunciò in Parlamento sollevando scalpore in Europa e grande entusiasmo in Italia. Quel «grido di dolore» diventò un appello a tutti gli italiani di stringersi uniti attorno a casa Savoia.
Finalmente era fatta. Una settimana dopo giunse a Torino il principe Girolamo quale plenipotenziario dell’imperatore per firmare il trattato segreto di alleanza, che fu appunto siglato il 17 gennaio, ma anche per ritirare il compenso pattuito: la mano della principessa Clotilde. Il promesso sposo era anche latore di una lettera personale dell’imperatore al re di Sardegna, nella quale, pur assicurando il suo rispetto degli impegni, lo pregava però di compiere ogni sforzo possibile onde «addormentare per qualche tempo l’opinione pubblica e distrarre la stampa con altri avvenimenti». E cosa poteva distrarre l’opinione pubblica meglio di un solenne matrimonio regale celebrato nella corte di Torino? Le nozze furono così fissate per il 30 gennaio.
Ludovica Teresa Maria Clotilde di Savoia è entrata nella storia del nostro Risorgimento come un’eroina senza macchie o, se preferite, come una martire della ragion di Stato che si sacrificò per favorire l’unità nazionale. Diventò infatti la protagonista di una commovente «telenovela» che, alimentata da una stampa caramellosa, appassionò generazioni di lettrici di romanzi à sensation, che allora andavano di moda. Il suo «sacrificio», abilmente manipolato, servì anche ad arricchire il vantato debito di gratitudine che gli italiani dovevano alla casa regnante che aveva realizzato l’unità nazionale. In realtà, per la principessa Clotilde non fu poi un grande sacrificio. Si trattò semplicemente di un matrimonio combinato senza amore, cui erano rassegnate a quell’epoca quasi tutte le fanciulle di buona famiglia.
Clotilde era nata a Torino nel 1843, primogenita di oltre mezza dozzina di fratelli. Era stata educata nel prescritto culto della religione cattolica, nonché nel rispetto delle severe regole dinastiche come si conveniva a una principessa di sangue reale. Senza dubbio era molto pia (in tarda età si farà terziaria domenicana), ma era anche consapevole del suo ruolo di dame royale cui era stata abituata fin dall’età di dodici anni dovendo sostituire nelle cerimonie ufficiali la madre Maria Adelaide prematuramente scomparsa.
Nell’ottobre del 1858, quando la dama di compagnia, contessa Carolina Pes di Villamarina, aveva confidato alla quindicenne Clotilde che il re suo padre aveva intenzione di maritarla al principe Girolamo, che aveva diciannove anni più di lei, non si era mostrata affatto turbata. Non c’erano state le lacrime o i deliqui, come si racconterà nei feuilleton popolari, della povera fanciulla obbligata a sposare un uomo tanto più vecchio che non amava. La differenza d’età, d’altronde, non costituiva un sì grave problema e neppure dovette esserlo per Clotilde, se si considera che lei stessa, nel 1876, darà in sposa sua figlia quindicenne Maria Letizia allo zio Amedeo d’Aosta, che di anni più di lei ne aveva ventuno.
Clotilde accolse l’annuncio di «nonna Pes», come lei chiamava la contessa di Villamarina, con seria pacatezza: «Scriverò a Papà di invitare a Torino il principe Napoleone. E se la sua persona non mi ripugna, sarò pronta a sposarlo per contribuire al bene del mio paese e alla gloria di Papà». Poi aveva anche aggiunto con una punta di presunzione: «Così andrò anch’io a brillare alla corte di Francia, ancorché mi sia poco simpatica».
Semmai era stata la contessa di Villamarina a supplicare il sovrano di non imporre quel sacrificio alla sua «bambina», esibendosi in una sceneggiata isterica che, oltre a turbare il sovrano, aveva mandato su tutte le furie Cavour, il quale a quel matrimonio teneva più di tutti e pertanto rimbrottò aspramente l’ambasciatore Salvatore Pes di Villamarina, cognato della contessa, minacciandolo addirittura di rappresaglie.
Da parte sua, Vittorio Emanuele, quando era stato informato del progetto nuziale dalla lettre éternelle inviatagli da Cavour dopo i colloqui di Plombières, affettando l’intenzione di lasciare la figlia libera di decidere, le aveva fatto leggere la lettera di Cavour, che peraltro era «riservatissima». Clotilde aveva poi scritto direttamente al conte annunciandogli che «dopo avere letto le carte da lei inviate al re mio padre, le comunico che non sono affatto contraria all’idea del matrimonio con il principe Napoleone». Poi aveva proseguito soggiungendo che comunque sperava nel Signore, nelle cui mani si rimetteva, certa di essere da Lui guidata per il suo bene e per il bene della patria.
Nei giorni seguenti, ricorrendo una festività della Madonna, la giovane principessa aveva anche osservato una «novena» di preghiera e aveva poi confidato al cappellano del castello di Moncalieri, don Giovanni Masera, di sentirsi chiamata da Dio a quelle nozze le quali «oltre a essere giovevoli al re e alla patria, mi daranno modo di portare fede e religione in una famiglia che ne è priva». In seguito, poiché tutti intorno a lei spettegolavano sulle immoralità attribuite al suo futuro marito, Clotilde aveva detto alla sua dama d’onore di non preoccuparsi per quelle voci perché lei «già le conosceva tutte a puntino e ne era informata più di qualunque altro».
Anche a Torino l’«ignobile baratto» era al centro delle conversazioni salottiere, ma a scandalizzare quei signori non erano la giovane età della promessa sposa e neppure le crapule attribuite al principe Girolamo, bensì il fatto che il promesso sposo «non nasceva bene». Alla Società del whist, per esempio, si disse che se il principe Girolamo fosse stato «presentato», e se la sua ammissione al circolo si fosse dovuta mettere ai voti, nell’urna si sarebbe trovata una maggioranza di palline nere...
Le nozze di Clotilde e Girolamo furono celebrate il 30 gennaio 1859 a palazzo reale nella cappella della Sacra Sindone. Tutta la città era in festa quel giorno per il fausto evento e la carrozza reale che portò gli sposi alla stazione dovette procedere al passo tanta era la folla plaudente. Nel viaggio verso Genova, gli sposi furono accompagnati dal re e da Cavour. Prima che essi si imbarcassero sulla corvetta Reine Hortense che doveva portarli a Marsiglia, il cavalier Riberi, medico di corte, in un colloquio riservato con il principe parlò «de la grande jeunesse de la Princesse et des ménagements que son âge exigeait». Il principe si impegnò con il medico a rispettare il virgineo candore della sposa sino al prossimo 2 marzo, quando Clotilde avrebbe compiuto sedici anni. Per precauzione, fino a quel giorno la contessa di Villamarina avrebbe continuato a dormire nell’appartamento della sposa per controllare che tale condizione fosse rispettata.
A Parigi, dopo il loro arrivo, circolarono sul conto degli sposi novelli gli immancabili pettegolezzi. L’abate Doussot, cappellano di Palais Royal, raccontò che, appena giunta, la principessa gli aveva chiesto due brocche di acqua benedetta che poi aveva sparso nella camera da letto per purificarla. Caso volle però, soggiungeva il malizioso abate, che più tardi, quando Girolamo venne a prendere Clotilde per condurla a cena, nell’attesa che lei si preparasse, lui, avendo sete, si era versato in un bicchiere un poco dell’acqua che era rimasta nella brocca. «Quanto è cattiva!» aveva poi esclamato sputandola. Di questo fatto, secondo l’abate Doussot, Clotilde avrebbe gioito in cuor suo per l’involontaria purificazione.
Si disse ancora che Girolamo avrebbe raccontato all’imperatore che Clotilde si era portata appresso un plico sigillato in cui c’erano tutte le istruzioni «fisiche» per la prima notte. Le quali erano così chiare e precise che tutto era andato assai bene. Da parte sua, la principessa Matilde, la sorella mondana di Girolamo, si rivelò la più perfida nei confronti della cognata. Oltre a criticarla per il suo aspetto monacale, per i gusti provinciali e per gli abiti dimessi, aveva aggiunto malignamente che questa «santa» era in realtà molto «exigeante du devoir conjugal». Anche quando Girolamo la respingeva, due minuti dopo «elle se frottait à son mari, come un âne qui se frotte à un arbre, qui s’etrille!».
Povera Clotilde, calunniata, derisa e certamente anche delusa dal fallimento del progetto napoleonico e cavouriano di collocarla sul trono del Regno dell’Italia centrale, condurrà a Parigi una vita molto ritirata dedicandosi all’educazione dei figli, Vittorio, Luigi e Maria Letizia. Dopo la caduta del Secondo Impero e l’amichevole separazione dal consorte, tornerà nella sua amata Moncalieri dove morirà amata e rispettata da tutti nel 1911.
Concluse finalmente le «fauste nozze» e garantitosi con la firma dei trattati l’alleanza con la Francia, Cavour soddisfatto confidava a Nigra i suoi progetti. «Or che le nozze sono celebrate» gli scrisse «penseremo esclusivamente alla guerra. Chiederemo alla Camera la facoltà di contrarre un prestito di 40 milioni e affretteremo i nostri armamenti. Il nostro linguaggio sarà in ogni modo dei più moderati e noi ci atteggeremo a vittime delle minacce dell’Austria. È essenziale che il trattato resti ignorato. Noi possiamo dire soltanto che sino a che il buon diritto sarà dalla nostra parte, l’imperatore non ci abbandonerà.»
Un nuovo colpo di scena si registrò a Parigi il 24 febbraio. Fu pubblicato un opuscolo, intitolato Napoléon et l’Italie che era, a ben vedere, una giustificazione preventiva del «complotto» sardo-francese. L’opuscolo era stato scritto dal giornalista Louis Etienne Arthur de la Gueronnière, ma si sapeva che era stato ispirato e corretto dallo stesso imperatore. Dopo un garbato invito agli italiani di «moderare le loro pretese di primato morale sull’Europa», riferito evidentemente alle utopie giobertiane, nello scritto si affrontava la questione italiana che, secondo Napoleone, era «sospesa fra il partito rivoluzionario e quello nazionale, l’uno impotente e distruttore, l’altro ciò che v’ha di più vitale». E dopo una critica aperta all’Austria «che a Napoli, a Parma, a Firenze, a Modena, per ogni dove, governa con i suoi consigli, con i suoi trattati, che sono ordini, e con i suoi presidi militari, perché la sua dominazione nell’Alta Italia non può mantenersi altrimenti che con la forza», si suggeriva come soluzione la costituzione di una confederazione di cui la «Lega fondata nel 1848, alla quale avevano aderito il papa, il re di Napoli, il re di Piemonte, il granduca di Toscana ancor fornirebbe più d’un utile insegnamento». Secondo Napoleone, insomma, esclusa ogni possibilità di unificare l’Italia dalle Alpi alla Sicilia «che solo i Romani riuscirono a realizzare, ma con la forza e deportando intere popolazioni», la soluzione era la creazione di una confederazione di tre Stati sotto la presidenza onoraria del papa. Ma vi era un ostacolo da superare: «La presenza dell’Austria in Lombardia, perché è nella logica della politica austriaca l’opporsi, come si è opposta alle riforme e come si opporrà a tutto». Il pamphlet napoleonico si concludeva con questi interrogativi minacciosi: «Che devesi fare? Curvare il capo sotto il veto di Vienna? È questa l’ultima questione che dobbiamo risolvere».
Certo si può immaginare l’effetto prodotto dalla pubblicazione di questo opuscolo. Cavour, benché lungo e tedioso, se lo lesse dalla prima all’ultima riga trovandosi in perfetta sintonia con il non ignoto ispiratore. L’ambasciatore Hübner, dopo avere annotato nel diario il suo giudizio negativo su questo pamphlet «così assurdo, illogico e povero d’argomenti», riferì al suo ministro degli Esteri von Buol-Schauenstein la sua reazione. Dopo essersi precipitato da Walewski, dove aveva trovato l’anticamera affollata di allarmatissimi diplomatici, gli aveva detto senza perifrasi tutto ciò che pensava: quell’opuscolo era zeppo di sogni irrealizzabili e conteneva una denuncia di tutti i trattati su cui riposava la pace in Europa. Ma Walewski «con la sua faccia di bronzo e la mano sul cuore» gli aveva giurato che l’imperatore era del tutto estraneo alla pubblicazione, e poiché anche l’ambasciatore inglese era dell’opinione che tutto si sarebbe aggiustato, l’ambasciatore austriaco concludeva convinto che si trattasse comunque di un fuoco di paglia. D’altra parte, scorrendo la copiosa corrispondenza fra Nigra e Cavour di quei giorni verrebbe proprio da pensare che Napoleone cercasse di rinunciare all’impresa salvando la faccia, anche se è assai più probabile che cercasse soltanto di guadagnare tempo confondendo le idee agli avversari. Lui in realtà voleva quella guerra, ma bisogna riconoscere che la sua posizione si era fatta difficile. «Vostra Maestà certo non ignora quanto sta accadendo in Europa» scriveva Napoleone a Vittorio Emanuele «e quanti nemici ci stiamo procurando con queste voci di guerra. La Prussia minaccia di schierarsi con l’Austria in caso di conflitto e l’Inghilterra, per gelosia della Francia, si mostra disgraziatamente maldisposta verso l’Italia…» Come se ciò non bastasse, nella stessa corte francese il partito antitaliano, capeggiato dall’imperatrice e da Walewski, trovava nuovi sostenitori negli ambienti politici e in quelli militari. Il generale Pélissier, già comandante dell’esercito francese in Crimea, era fra questi.
Anche Cavour era inquieto, ma continuava a procedere per la sua strada badando di compromettere sempre di più l’imperatore. Dalla Camera aveva ottenuto di poter emettere un prestito di 50 e non di 40 milioni. Poi aveva cercato di negoziare un prestito con la Banca Rothschild, ma l’impresa era fallita a causa delle «influenze avversarie».
Deluso, ma non rassegnato, Cavour lanciò allora un nuovo prestito in Piemonte che ottenne un grande, inatteso successo: le sottoscrizioni superarono addirittura la cifra richiesta. «Il numero enorme di sottoscrittori» scriveva Cavour a Nigra il 6 marzo «dimostrerà alla Francia e all’Europa che se gli italiani vogliono essere liberi, sanno fare a questo scopo i sacrifici necessari.»
Frattanto, Cavour aveva convocato Garibaldi e gli esponenti della Società nazionale con i quali aveva elaborato segretamente un piano tendente a reclutare volontari da tutta Italia per la primavera del 1859. Ora infatti i volontari stavano accorrendo a frotte, salutati da manifestazioni di giubilo della popolazione in un’atmosfera di grande entusiasmo. Fra di essi si trovavano anche i giovani esponenti delle più illustri famiglie lombarde: i Visconti, i Melzi, i Litta, i dal Verme eccetera. «Ieri poi,» scriveva Cavour a Nigra l’11 marzo «con nostra grande sorpresa, abbiamo visto arrivare persino il figlio del podestà di Milano, conte Sebregondi, devotissimo all’Austria.»
Gli atti di ostilità contro gli austriaci e gli «austriacanti» erano a Milano all’ordine del giorno. Alla Scala, durante la rappresentazione della Norma di Bellini, il coro del secondo atto: «Guerra! Guerra!», aveva suscitato un pandemonio. Alle grida dei giovani milanesi, gli ufficiali austriaci avevano risposto battendo le sciabole sul pavimento. Erano seguiti molti tafferugli e la Norma era stata proibita. Fatti analoghi avvenivano nelle altre città della Lombardia e del Veneto. «La concordia si sta diffondendo da per tutto» ironizzava cini...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. I cospiratori di Plombières
  5. Fra rivoluzioni e «insorgenze»
  6. Sul piede di guerra
  7. «Per la patria questo e altro»
  8. Il grido di dolore
  9. «Arrestate Garibaldi»
  10. Le arance e i maccheroni di Cavour
  11. Bibliografia
  12. Fonti iconografiche
  13. Indice dei nomi