Amori crudeli
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Amori crudeli

Quando si uccide chi si ama

  1. 406 pagine
  2. Italian
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Amori crudeli

Quando si uccide chi si ama

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Che cosa spinge un amante a uccidere l'essere amato? Come può una coppia di innamorati diventare un concentrato di odio e violenza, e suggello della passione essere la morte? Con Amori crudeli Cinzia Tani cerca di rispondere a queste domande attraverso sette storie di cronaca accadute in sette diversi paesi del mondo nel corso del Novecento. Dall'Italia conformista e severa di inizio secolo all'Unione Sovietica della guerra fredda, dalle atmosfere dissolute della ricca Londra anni Trenta alle colonie tedesche nelle lontane Galápagos, l'autrice offre per ciascuna storia una intrigante chiave di lettura che permette di dare un senso al gesto folle di uccidere chi si ama.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852013584

VI

I SEGRETI DI UN UOMO FAMOSO
Jean Harris e Herman Tarnower
(Stati Uniti 1980)

Si sarebbe uccisa in giardino, davanti al laghetto. In mezzo ai narcisi e ai salici piangenti. Era il suo unico pensiero durante le cinque ore di viaggio dalla Virginia.
Quando arrivò alla villa, Jean vide che tutte le luci erano spente e se ne stupì. Parcheggiò l’auto e fece qualche passo nel piazzale buio. Si fermò. Aveva dimenticato qualcosa. Tornò indietro a prendere la borsetta con la pistola e afferrò anche il mazzo di margherite che le avevano regalato. La vetrata d’ingresso era chiusa. «È strano, Hy sapeva che sarei venuta» pensò dirigendosi verso il garage e la porta secondaria.
Anche il salotto era immerso nell’oscurità. Erano appena le undici di sera e nella villa non c’era un rumore, a parte i tuoni che adesso scoppiavano più vicino e la pioggia picchiettante sui vetri. Jean cominciò a salire i gradini della stretta scala a chiocciola che portava direttamente nella camera di Herman Tarnower.
Mentre saliva lo chiamava a bassa voce, per avvertirlo, ma lui non le rispondeva.
Jean chiuse il libro e rimase a osservare la sorella più piccola che indossava il suo stesso vestito. «A lei sta meglio» giudicò. E Mary Margaret, la maggiore, era la preferita dai genitori. L’ultimo nato era un maschio e quindi privilegiato in famiglia. Per farsi notare dal padre adorato e temuto non le restava che puntare sull’intelligenza. Ma dimostrare di essere la più brava richiedeva molta fatica, mentre gli altri venivano apprezzati per quel che erano: Mary Margaret la prima, Virginia la più bella e Robert il maschio.
Il padre di Jean, Albert Struven era un ingegnere molto considerato, progettava acciaierie e raffinerie di petrolio in vari paesi. Era alto, grosso, pesante, ma con un bello sguardo malinconico, da sognatore. Un uomo umorale, impulsivo, incapace di controllare gli scatti d’ira. Dominatore e moralista, imponeva ai figli una disciplina incoerente e gretta. Era un repubblicano conservatore e apparteneva alla chiesa episcopale, che non riconosce il primato papale, ma assegna ai vescovi una funzione essenziale in quanto successori degli apostoli. Ebrei, cattolici e neri erano spesso oggetto delle sue critiche feroci.
La moglie era una donna paziente ed equilibrata, capace di attenuare le sue punte di pessimismo e di ristabilire la serenità in casa dopo le sue collere improvvise e immotivate. Era una donna minuta e, accanto al marito, dava l’impressione di essere ancora più piccola e vulnerabile. Ma era una fragilità solo apparente. Mildred aveva una mente aperta ed era determinata a non rinunciare alle proprie idee neppure per compiacere l’insoddisfatto e bigotto marito. Semplicemente sapeva aspettare il momento giusto per imporsi e riusciva a farlo mantenendo un atteggiamento di finta sottomissione. Insegnò alle figlie l’arte di compiacere un uomo conservando la propria dignità. La famiglia abitava a Chicago, dove Jean nacque il 27 aprile 1923.
La bambina aveva un rapporto ambiguo con il padre, ne era affascinata e spaventata allo stesso tempo. Albert era un uomo difficile, tormentato, incapace di esternare i propri sentimenti. Qualsiasi cosa poteva farlo esplodere, un ritardo, un oggetto fuori posto, una parola di troppo, l’auto che non si metteva in moto, perfino una lampadina bruciata. La sua rabbia terrorizzava Jean, che correva nella sua stanza e infilava la testa sotto la trapunta per non sentirlo urlare. Capiva che il padre era felice solo quando partiva. Albert era spesso in viaggio. Il lavoro, l’unica passione della sua vita, lo portava in paesi lontani e in famiglia le sue frequenti assenze ristabilivano un clima di serenità e allegria.
Dopo qualche anno, la famiglia si trasferì a Cleveland. Quando tornava in città, Albert passava tutta la giornata in ufficio e la moglie e i figli non avevano il permesso di disturbarlo neppure al telefono. In casa non sorrideva mai, non giocava con i ragazzi, non raccontava storie. Jean non gli parlava di sé, dei suoi problemi, temendo non tanto di preoccuparlo quanto di annoiarlo. Invece da lui desiderava il riconoscimento degli sforzi compiuti e l’apprezzamento dei risultati che otteneva, prima a scuola e poi nel lavoro. Aveva anche trovato il modo di comunicare con lui. Gli chiedeva dei suoi viaggi e ascoltava con pazienza lunghe dissertazioni su progetti ingegneristici di cui non capiva nulla per poi arrivare a sapere ciò che desiderava. Le impressioni dei paesaggi, gli incontri con altri popoli, l’impatto con realtà sociali differenti. Le descrizioni frammentarie di luoghi e colori, di profumi esotici e lingue straniere. Da allora viaggiare divenne la sua aspirazione: l’emozione delle partenze e dei ritorni, la possibilità di vivere in pochi giorni vite diverse e dimenticare, così, la propria.
La casa delle bambole era il passatempo preferito di Jean bambina. Si sdraiava sul pavimento a osservare dalle minuscole finestre la vita immobile della numerosa famiglia che possedeva e che aveva distribuito nelle stanze da letto, nel salotto in miniatura e in cucina. Dava alle bambole personalità diverse, immaginava le loro giornate, insegnava loro l’alfabeto e leggeva storie dai suoi libri. Quando però arrivarono le lezioni di piano, di danza e canto, la casa finì in soffitta. Fu più o meno allora che la famiglia Struven si trasferì da Cleveland Heights a Shaker Heights, entrambi ricchi sobborghi di Cleveland. Jean frequentò per otto anni la scuola pubblica e poi passò alla Laurel School, uno dei migliori ed esclusivi istituti privati femminili del paese. Studiare le piaceva e otteneva buoni voti, ma trovava anche il tempo per cavalcare, pattinare sul ghiaccio, ballare al country club. A differenza delle sue compagne, non le piaceva essere corteggiata, né uscire con i ragazzi. Le amiche la consideravano anticonformista, indipendente, perfezionista. Eccelleva in qualsiasi attività intrapresa, era la migliore attrice nelle commedie scolastiche, vinceva tutti i premi di poesia, le veniva affidata la classe quando l’insegnante si assentava,
Gli Struven trascorrevano le vacanze nel loro cottage a Rondeau Shores Estate, in Canada. La casa si trovava sulla striscia di spiaggia lungo il lago Erie, e la località era frequentata da famiglie molto ricche che durante l’estate vi si trasferivano con tutta la servitù. Per gli adulti c’erano le gite in barca, i tornei di carte e i barbecue. I ragazzi si riunivano per i giochi di società, l’allestimento di commedie, i bagni nel lago, le cacce al tesoro. La capogruppo dei più giovani era Marge Richey, di cui Jean, minore di quattro anni, sarebbe rimasta amica per tutta la vita. Era lei che organizzava le feste da ballo il sabato sera a Rondeau Park e convinceva Jean a partecipare.
«Non ti sai divertire» le diceva quando la vedeva appartata.
«Non è vero» rispondeva Jean. «Semplicemente mi diverto in modo diverso.» Non accettava appuntamenti con i ragazzi, era timida, riservata, priva di senso dell’avventura. Nell’età in cui le sue coetanee cercavano le braccia maschili per inebriarsi di sensazioni forti, per verificare il proprio potere, per sfogare quell’eccesso di romanticismo che fa traboccare i cuori adolescenti, Jean preferiva parlare di libri con il padre del suo migliore amico. Aveva conosciuto James Scholes Harris quando aveva sette anni e lui dieci. James, o Jim come tutti lo chiamavano, passava le vacanze con la sua famiglia in un cottage vicino a quello degli Struven. Era nato e cresciuto a Grosse Point, nel Michigan, una località conosciuta soprattutto perché vi abitavano famiglie facoltose. Suo padre, Albert, era un uomo piccolo di statura, dall’intelligenza vivacissima e un forte senso dell’umorismo. Era un acceso democratico come Jean e come lei amava i libri sopra ogni cosa. Ne aveva a centinaia in casa e, quando lei era nei paraggi, la chiamava per leggerle qualche brano particolarmente significativo.
Jim diventò un ragazzo alto e prestante, dolce e generoso, ma anche molto schivo e impacciato, e non ereditò la prorompente personalità e gli interessi intellettuali del padre. A Jean piaceva stare con lui perché non si sentiva a disagio come con gli altri ragazzi e non pensava di potersene innamorare. Poi, non avendo trovato il grande amore che desiderava, cominciò a dire agli amici: «Probabilmente sposerò Jim, ma so che sarà noiosissimo. È così prevedibile!».
Nel 1941 Jean si iscrisse al prestigioso Smith College dove si laureò nel 1945 in storia ed economia con il massimo dei voti. Nel frattempo Jim si era arruolato in marina e per diverso tempo fu impegnato nelle missioni di salvataggio nel Pacifico. Scriveva a Jean lunghi e pedanti diari di guerra non essendo capace di parlarle d’amore. Ma se non voleva perderla doveva fare qualcosa. Durante una licenza arrivò al campus universitario di Jean con l’anello di fidanzamento. A lei parve naturale acconsentire a sposarlo, non aveva senso rifiutare Jim, che la conosceva e la amava, in attesa di qualcuno che forse non sarebbe mai arrivato. E poi cominciava a domandarsi se non ci fosse qualcosa di sbagliato in lei. Perché non provava i sentimenti delle altre ragazze? Per loro l’amore era sinonimo di grandi pianti, batticuore, sogni e malinconie. Lei lo considerava un impegno come un altro. Qualcosa da prendere seriamente, per cui fare progetti e sacrifici, e da cui ottenere serenità e appagamento. Niente altro. Ma ciò che non voleva ammettere era il vero motivo della sua decisione: sfidare il padre. Infatti Albert Struven accolse con freddezza l’annuncio delle nozze. Non considerava il futuro genero abbastanza brillante e ambizioso per la figlia. Una consapevolezza che anche Jean cercava di nascondere a se stessa, ma che doveva riaffiorare con più forza negli anni seguenti.
«Stai gettando via la tua vita per niente» le disse fino all’ultimo il padre, che non fece nulla per nascondere al futuro genero tutta la sua antipatia. Un giorno che Jim si prese una birra dal frigorifero senza prima chiederla, Albert lo cacciò di casa in malo modo. Un’altra volta interruppe una discussione politica con lui alzandosi bruscamente da tavola e consigliando il ragazzo di andarsi a rileggere i libri di storia.
Jean e Jim si sposarono nel maggio del 1946 e si stabilirono a Grosse Pointe, nel Michigan, in una piccola casa in stile coloniale con il giardino. Jean era vergine, non era innamorata ed era decisa a diventare una moglie perfetta.
Mentre Jim si accontentò di un modesto impiego come supervisore alle vendite nella Holley Carburetor, Jean fu assunta alla Grosse Pointe Country Day School dove insegnò storia e scienze sociali. Ma la scuola era appena l’inizio della sua giornata lavorativa. Tornata a casa, avrebbe lavato i pavimenti, stirato, cucinato, lucidato l’argenteria, magari anche imbiancato le pareti. E la sera correggeva i compiti dei suoi studenti fino a tardi. Le restavano ancora energie per occuparsi della suocera che, rimasta vedova, era andata ad abitare con loro e per organizzare incontri con gli amici. Dopo due anni di questa vita, Jim le chiese di lasciare la scuola e lei lo accontentò.
Nel 1950 nacque il loro primo figlio, David. Dopo il parto, Jean cadde in una profonda depressione e trascorse due giorni vagabondando lunghe ore con la sua auto e piangendo a dirotto. Si riprese, ma quell’episodio non rimase isolato. Fu il primo atto di ribellione verso una situazione che sentiva di non aver scelto sino in fondo. Jean attribuiva ai genitori, anche se con responsabilità diverse, la propria difficoltà a esprimere i sentimenti. Il padre esibiva violentemente quelli negativi e reprimeva gli altri. La madre li considerava tutti stati d’animo passeggeri e per questo non degni di alcuna considerazione. Così nel tempo Jean aveva imparato a ignorare certe manifestazioni del cuore – affetto e tenerezza, nostalgia e rimpianto – per dedicarsi a pensieri più costruttivi. Ma quelle emozioni soffocate rimanevano vive da qualche parte e cominciavano a mormorare.
Due anni dopo nacque Jimmy. Nell’intervallo tra il primo e il secondo figlio, Jean organizzò un piccolo asilo in casa. Le piaceva immensamente la compagnia dei bambini e quando le fu offerto di insegnare alle prime elementari, poiché la maestra aveva avuto un incidente, accettò. L’entusiasmo dei piccolissimi era incomparabile, non avevano mai paura di sbagliare, erano curiosi, tutto era ugualmente importante per loro. E Jean diventava più spontanea, poteva tralasciare gli artifici della comunicazione tra adulti e quindi abbassare la soglia di allerta.
Nel 1961 fu incaricata di accompagnare un gruppo di studenti in Russia per un campus estivo. Passando per New York andò a trovare l’amica delle vacanze in Canada, Marge Richey, che aveva perso di vista quando era scoppiata la guerra. Marge era decoratrice di interni e aveva sposato un ricco avvocato, Leslie Jacobson. Abitavano insieme ai due figli in Park Avenue ma possedevano anche una casa di campagna a Scarsdale, una specie di Beverly Hills dell’Est. Jean rimase impressionata dalla raffinatezza e dal lusso con cui era arredato il loro appartamento newyorkese e desiderò qualcosa di simile per sé. Anche il viaggio in Russia risvegliò una passione da troppo tempo dimenticata. La voglia di conoscere altri paesi, nata ascoltando i racconti del padre, tornò fortissima a scontrarsi con la certezza che Jim non l’avrebbe mai condivisa.
Jim era il marito che tante donne avrebbero desiderato. Non beveva, non tradiva la moglie, tagliava il prato ogni domenica, giocava a baseball con i figli. Un uomo convenzionale e assolutamente privo di immaginazione e di iniziativa. «Dove andiamo a cena?» chiedeva la sera a Jean. «Chi vogliamo incontrare questo weekend?» Avevano amici con cui giocare a carte o per andare a ballare il sabato sera e amici con cui dividere una gita in barca durante le vacanze estive che continuavano a trascorrere in Canada. A quella vita serena mancava qualcosa. Emozione? Progetti? Imprevisti? Jean non avrebbe saputo dirlo, ma sempre più spesso chiedeva al marito: «Cosa sarà di noi fra dieci anni, Jim? Dove saremo? Cosa saremo diventati? Ti prego, dimmi qualche bugia». Lui la guardava stupito e non aveva nulla da dire.
Quando tornò dal viaggio in Russia, Jean si sentì in trappola. Una volta il marito le aveva detto. «Tu non sarai mai felice perché non sai quello che vuoi». Forse era vero, ma era anche vero che ciò che aveva sempre voluto era fare le cose giuste. Fare quello che gli altri si aspettavano da lei, condizionata dal perenne desiderio di essere approvata dal padre. Solo così si sentiva «una persona», un essere reale, visibile, tangibile. Ma era arrivato il momento di trovare il coraggio per fare proprio ciò che nessuno si sarebbe mai aspettato da lei.
Era una sera del 1964, e come tante altre sere Jean giaceva insonne accanto al marito addormentato. Si alzò dal letto e infilò il giaccone per uscire in giardino. Dondolò qualche minuto sull’altalena dei figli e poi si lasciò scivolare sul prato. Sdraiata, guardava il cielo scuro e provava un senso di vuoto e di insoddisfazione. Le lacrime le scendevano sulle guance in un pianto di nostalgia per qualcosa che non aveva conosciuto, ma di cui sentiva l’esigenza. Qualche giorno dopo, aveva appena dato la buona notte ai figli e si stava preparando a correggere i compiti dei suoi studenti, quando il più giovane riapparve in salotto. Nel riaccompagnarlo in camera, Jim si accorse del terribile disordine che regnava nella stanza. Ne nacque una discussione con la moglie.
«Non sai insegnare niente ai nostri figli. Ti dai tanto da fare per i tuoi alunni e non ti preoccupi se i nostri ragazzi crescono male.» Poteva essere una normale lite di coppia, ma per Jean fu il pretesto per la rottura. Lo guardò fisso qualche istante e poi, con tono gelido, disse: «Jim, sono le dieci e mezzo e da questo momento io non sono più tua moglie».
Divorzio. Era una parola orribile per la sua famiglia. In casa non si parlava mai delle proprie storie sentimentali, tanto meno di quelle degli altri e la prima volta che Jean sentì parlare di divorzio aveva diciotto anni. La madre raccontò di un’amica che aveva divorziato dal marito perché le aveva preferito una donna più giovane. Ne parlò a bassa voce, non voleva che Albert sentisse. Per molti giorni Jean pensò a quella moglie sfortunata e decise che non c’era nulla di peggio al mondo di una donna divorziata. Lei lo divenne l’11 giugno 1965.
Cercò subito un lavoro e ottenne la direzione amministrativa delle classi medie alla Springside School, una scuola privata femminile a Chestnut Hill, un sobborgo di Filadelfia, dove si trasferì con i figli che iscrisse alla Chestnut Hill Academy. Albert rifiutò di aiutarla, non aveva accettato il suo matrimonio e non provava alcun attaccamento per i nipoti. Jean si sentiva in colpa per aver privato i ragazzi del sostegno e della presenza del loro padre e per farsi perdonare si dedicava completamente a loro e al lavoro che le permetteva di mantenerli. «Grande Donna» la chiamavano Jimmy e David o semplicemente «Grande».
Jean usciva raramente, passava il tempo libero a leggere o a tenere immacolata la nuova casa. Non avendo mai avuto un vero sogno d’amore, non sentiva la mancanza di un compagno. Ma per gioco volle spiegare all’amica Dodie Blain come avrebbe dovuto essere il marito ideale per lei. «Un medico ebreo. Ebreo perché sarebbe un uomo di intelligenza e educazione superiore. Insomma, un vero intellettuale. Sicuramente le sue origini semitiche lo renderebbero umano e passionale. So che i mariti ebrei si prendono davvero cura delle loro mogli, le mettono su un piedistallo. E poi il medico è colui che allevia le pene, che ti protegge, no?» Qualche sera dopo l’avrebbe incontrato.
Marge Jacobson la invitò a cena un weekend di dicembre, e Jean si chiese se valesse la pena andare fino a New York per un party.
«Voglio farti conoscere un tipo fantastico. Proprio adatto a te» le disse l’amica per convincerla.
La sera del 9 dicembre 1966, quando Jean vide Herman Tarnower pensò che Marge aveva ragione. Si sarebbe chiesta spesso che cosa l’avesse colpita di lui e la risposta era: tutto. Herman corrispondeva esattamente al suo ideale maschile. Aveva cinquantasei anni, tredici più di lei. Alto, magrissimo, con un fisico sportivo, scattante. Dava l’idea di avere una riserva inesauribile di energia e vitalità. Non c’era nulla di lui che potesse essere definito bello, era quasi calvo, con la pelle olivastra, un naso adunco, orecchie troppo grandi e un sorriso sgraziato. Ma lo sguardo era intelligente, profondo, ipnotico e i denti bianchi risaltavano sulla pelle scura. A Jean sembrò un faraone egiziano. Ad affascinarla fu soprattutto l’aria di autorità che il medico ostentava e che le ricordava in qualche modo il padre. Ma, a differenza di Albert Struven, Herman era gentile, calmo, rassicurante.
A tavola Marge li fece sedere vicini e Jean si scoprì attratta dalle mani forti che Tarnower teneva a riposo sulla tovaglia o faceva volteggiare in gesti morbidi che sottolineavano le parole. Dopo cena rimasero a lungo a parlare seduti sul divano. Si scambiarono le impressioni sulla Russia, i commenti sugli ultimi libri letti, in una tacita gara di intelligenza. Ciascuno voleva mostrare il meglio di sé perché l’altro non dimenticasse quell’incontro.
Marge, raccontando in seguito la serata, disse che era stato un colpo di fulmine per entrambi. Mai la vicinanza di un uomo aveva impedito a Jean di percepire il trascorrere del tempo e la presenza degli altri intorno a sé. Ma quando, alle undici precise, suonò il campanello della porta, lei sussultò. In pochi secondi Tarnower le baciò la mano, salutò gli amici e uscì insieme al suo autista, Henri van der Wreken. Jean rimase di stucco, se avesse saputo che Herman aveva l’abitudine di tornare a casa così presto avrebbe scelto le parole per creare l’occasione di un secondo appuntamento. Ma, colta alla sprovvista, non ne ebbe il tempo. Marge si accorse della delusione dell’amica e la rassicurò: se lui voleva, l’avrebbe ritrovata. Poi rispose a tutte le domande che lei le rivolse. Le disse che Hy, come tutti chiamavano Herman Tarnower, apparteneva a una famiglia ebrea proveniente dall’Europa dell’Est, immigrata in America per sfuggire alla povertà. Era nato a Brooklyn il 18 marzo 1910, unico maschio con tre sorelle, Billie, Edith e Jean. La sua era una famiglia patriarcale che considerava il sesso femminile inferiore a quello maschile.
Il padre, Harry Tarnower, aveva una piccola fabbrica di cappelli. Era un uomo calmo, gentile, alquanto taciturno. Dora, la madre, invece era una donna loquace e spiritosa che si divertiva a giocare a carte e a cucinare. Era nata in Bessarabia ed era alta, forte, comunicativa. Herman aveva frequentato una scuola pubblica e poi la James Madison High School, ottenendo ottimi voti. I compagni lo consideravano troppo serio, compassato, addirittura pedante. Herman passava tutto il tempo studiando o frequentando coloro che considerava del suo livello intellettuale. Fra gli sport preferiva quelli individuali, come la caccia e la pesca, ed era bravissimo nel gioco delle carte. Con le vincite a poker o a backgammon si pagò la retta alla facoltà di medicina di Syracuse. Per spostarsi faceva l’autostop. Ai genitori non importavano i suoi successi scolastici e non furono presenti alla sua laurea. Il loro unico desiderio era di vedere le figlie sposate e l’unico maschio diventare un professionista afferm...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Indice
  5. I - Scandalo Al Quirinale Giulia Trigona e Vincenzo Paternò (Italia 1911)
  6. II - Ridi, Piccolo, Ridi Elvira Barney e Michael Stephen, Inghilterra
  7. III - Hacienda Paradiso Eloise von Wagner e Rudolf Lorenz (Galápagos 1934)
  8. IV - Fino Al Colpo Di Grazia Pauline Dubuisson e Félix Bailly (Francia 1951)
  9. V - La Prima Notte Della Luna Tonia Grigorevna Vorobëva e Mark Kaplan
  10. VI - I Segreti Di Un Uomo Famoso Jean Harris e Herman Tarnower (Stati Uniti 1980)
  11. VII - Triste Inverno In Macedonia Julie Scully e Georgios Skiadopoulos (Grecia 1999)
  12. Bibliografia