L'amante dell'imperatore
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L'amante dell'imperatore

Amori, intrighi e segreti della contessa di Castiglione

  1. 264 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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L'amante dell'imperatore

Amori, intrighi e segreti della contessa di Castiglione

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La vita di Virginia Oldoini, contessa di Castiglione, una delle donne più belle e ammirate d'Europa, "l'arma segreta" di Cavour per conquistare Napoleone III alla causa dell'indipendenza italiana. Una biografia avvincente, che getta luce su una grande pagina di storia italiana.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852012907
Argomento
Geschichte

XXIII

IL TRAMONTO

Se è vero, come si dice, che il primo amore non si scorda mai, è anche vero che l’amore più grande è sempre l’ultimo. Per Virginia, ormai avviata verso il tramonto, l’ultimo amore fu anche un amore diverso o, se vogliamo, rovesciato nei suoi valori. Mai, prima d’ora, per esempio, l’altera Contessa abituata ad avere tutti gli uomini ai suoi piedi, avrebbe scritto all’amante di turno una lettera così umile e supplichevole come questa: «Che peccato che non siate venuto! Vi sarei tanto piaciuta, vestendomi per voi e rimontandomi lo spirito. Ieri sera sarebbe nata la corona d’alloro con cui Dio avrebbe coronato il nostro amore. Mi sono sempre servita del ferro rovente per cicatrizzare le mie ferite. Occorre coraggio per questo rimedio eroico. Ma guarirò, dovessi buttarmi nella Senna e rimanervi per sempre, guarirò... Ma, una volta ancora, ancora una volta, se avete cuore, venite!».
Lui non era nobile e nemmeno ricco. Si chiamava Paul de Cassagnac, aveva da poco passato la trentina ed era un giornalista bonapartista che alternava l’uso della penna a quello del fioretto. Sangue caldo e mano pronta, sfidava regolarmente a duello chiunque osasse mancare di rispetto all’ex sovrana Eugenia de Montijo. Per questo era stato soprannominato il «Moschettiere dell’imperatrice». Aveva richiamato l’attenzione della Contessa per i suoi infiammati articoli che pubblicava su «Le Pays», il giornale bonapartista da lui diretto. Lei aveva voluto conoscerlo e l’amore non aveva tardato a sbocciare. Ma, come si è detto, si rivelò fin dal primo giorno un amore diverso. Lui, per esempio, disertò il primo appuntamento mandandole a dire che era stato trattenuto da un impegno improvviso e lei, sorprendentemente rassegnata e conciliante: «Va bene, va bene. Vada per la settimana prossima».
Cassagnac era diverso dagli uomini che Nicchia era abituata a frequentare. Maschio, tenero e brutale, non era il tipo da accettare una parte passiva perché, in caso contrario, era pronto a cambiare aria, a cercarsene un’altra. E lei si era subito lasciata conquistare da quell’insolita energia e dalla sbrigativa volontà di questo amante, pronto a calpestare il suo orgoglio e a ignorare i suoi capricci. Per Cassagnac, la Contessa non è la «divina», la «dea dell’amore», «la favorita dell’imperatore», «la più bella donna del secolo» adorata dagli uomini e mitizzata dalla stampa. È semplicemente sa femme, la sua donna. E Nicchia, nell’incipiente declino del suo fascino, si trasforma da regina dispotica in umile suddita. «Vieni domani sera» gli scrive. «Non lasciarmi sola: l’illusione di averti vicino mi strema invano tutte le notti.» Lui è spesso in viaggio, non ha tempo da perdere e lei, da grafomane incallita, lo tempesta di lettere sollevando le sue proteste: «Sono tornato a casa e ho trovato tutte le tue lettere in un assurdo crescendo. Ciò non può che nuocere a noi due. Io odio scrivere, per questo ti scrivo così poco». Poi aggiunge per farsi perdonare: «Ma adoro abbracciarti dalla testa ai piedi ed è quello che verrò a fare lì...».
I messaggi di Cassagnac sono sempre telegrafici: «Bonjour Payse! Je viens vous embrasser de tout mon coeur. Ton homme. Pays». Giocando sul titolo del giornale diretto da Cassagnac, si sono ribattezzati «Pays» e «Payse». «Cara Payse, come stai? Ti mando dei fiori per sostituire il Pays.» E ancora: «Ma jolie Payse, mi hai scritto una bella lettera, proprio come deve comportarsi la mia donna con il suo uomo. A presto: la tua ostinata tenerezza mi ha vinto». Paul de Cassagnac sa anche come comportarsi con una donna che ha il culto della virilità: «Domani ho un duello, ma non voglio partire senza riconoscere che ieri sono stato duro con voi. Mi dispiace. Se tornerò vivo verrò a chiedervi scusa...».
Nelle sue lettere, Virginia è umile, tenera e amorosa. Quando litigano, è sempre la prima a chiedere scusa: «Venite a portarmi il vostro perdono domani mattina alle 8. Me lo concederete chiedendomi quei baci che io vi donerò con tutto il cuore». Ma sa anche essere seducente: «Ti attendo questa sera. Ho tanto desiderio di te. Affonderemo nel blu fino al collo...». Il blu è il colore delle sue lenzuola preferite. Anche Cassagnac ormai l’ama, ma sempre a suo modo. Le scrive: «Ho dimenticato ieri, non so quel che sarà domani, ma questa sera, 23 luglio, io t’amo...». E ancora: «Mio malgrado tu penetri nella mia vita». Sembra anche non essere geloso del suo passato, anzi ci scherza sopra: «Tu devi fare con Pays come facevi con gli altri: la cocotte. Io voglio la Nicchia nipote di Cavour, l’amica del mio vecchio imperatore, ma se tu preferisci andare a cocotter con dei principi di cartone... Ah, si dice che avete rimpiazzato Pays con il duca di Chartres e Pays è furioso perché lo avete sostituito con un suo nemico politico. Egli è pronto a sferrargli un calcio, tu sai dove...».
Benché innamorata, Nicchia non trascurava gli affari e cercava di coinvolgerci anche il suo amante. A Paul, sulle prime, non piacevano gli intrallazzi finanziari cui si dedicava la Contessa. «In te non amo proprio la donna d’affari: mi è lontana, fredda, glaciale» la rimbrottava, ma a poco, a poco, quel giornalista spericolato che duellava per un nonnulla e che aveva sempre vissuto la politica come una battaglia ideale si rese conto che questa poteva anche essere una fonte di guadagno. Seguendo i consigli di Nicchia, che gli si rivelò una donna in possesso di una freddezza di giudizio che molti uomini politici avrebbero invidiato, cominciò a imbastire una serie di speculazioni che gli consentirono di ricavare considerevoli profitti. Nei diversi anni che durerà il loro amore, nonostante i vaneggiamenti e le farneticazioni di Virginia, riusciranno entrambi a costituirsi un considerevole patrimonio.
Esperta in seduzione, perspicace in politica e negli affari, come amministratrice dei propri beni era un disastro, ma come madre, Nicchia era ancora peggio. Giorgio si stava avvicinando alla maggiore età, ma lei sembrava ignorarlo, forse perché la vicinanza di un figlio adulto rivelava i suoi anni. Come madre, non era certamente un modello: finché era stato bambino, aveva usato Giorgio quasi come un ornamento della sua bellezza. Lo vestiva come una bambola preziosa, abbigliandolo con pizzi e merletti e arricciando i suoi lunghi capelli biondi, tanto che in molti ritratti dove Nicchia posa con lui, si stenta a capire se si tratti di un maschio o di una femmina. In seguito lo aveva trasferito da un collegio all’altro a seconda di dove la portava la sua vita errabonda. Spesso si dimenticava addirittura della sua esistenza. Fra le sue carte di quegli anni, come nei suoi diari, a volte neppure si avverte la presenza di un figlio. Crescendo, il ragazzo aveva manifestato di nutrire nei suoi confronti quel sentimento di odio-amore tipico dei figli maschi di madri troppo belle e troppo disinvolte. Dai collegi dove era ospitato, Giorgio le scriveva spesso e ciò doveva infastidirla. «Non posso passare le mie giornate a leggere le sue lettere» scriveva all’abate Maurette, padre spirituale del ragazzo: «Fate in modo che scriva di meno». E Giorgio si disperava: «Non oso scrivere a Mina...». «Ho paura di dispiacere a Mina...» E tuttavia adorava quella mamma stravagante, era fiero di essere suo figlio anche se non ignorava la sua condotta.
Quando era tornata a Parigi, Nicchia non era riuscita a far accettare Giorgio nel suo vecchio collegio di Neuilly per via dell’età. Aveva perciò dovuto industriarsi per trovargli una sistemazione lontana da casa, affinché la sua presenza non intralciasse la sua libertà di movimenti. Trovò infine una soluzione che peggiore non poteva essere. Pare su consiglio dell’abate Maurette, scelse infatti di affidarlo a un precettore che solo se avesse chiesto un minimo di informazioni sul suo conto, anche la madre più sciagurata si sarebbe ben guardata dal farlo. Costui si chiamava Genulfo Sol ed era un marsigliese, mezzo giornalista e mezzo ruffiano, che viveva con una matura vedova tenutaria di una pensione dove si esercitava anche la prostituzione. Con un simile maestro e in quell’ambiente, il giovane, ormai diciottenne, riacquistò il tempo perduto, ma in senso sbagliato. Le cattive compagnie e l’amore mercenario che non tardò a scoprire trasformarono ben presto il timido Giorgio in un giovanotto senza scrupoli. Frattanto, aveva anche destato la cupidigia del suo precettore rivelandogli che, da maggiorenne, avrebbe potuto disporre di una rendita lasciatagli in eredità dal padre, di alcune proprietà in Piemonte, nonché della somma di centomila franchi, premio di un’assicurazione sulla vita del genitore. Genulfo Sol comprese subito che quella era la buona occasione per arricchirsi. Fra finzioni e perfidie, l’astuto precettore lavorò di fino circuendo il ragazzo e allontanandolo sempre di più dalla madre distratta. A poco a poco, sondandolo con astuzia, egli venne a conoscenza dei segreti della Contessa, scoprì che possedeva carte importanti di cui era molto gelosa e riuscì infine a convincerlo che, per liberarsi della madre e per entrare in possesso dei propri beni, doveva emanciparsi, ossia ottenere che gli fossero riconosciuti i suoi i diritti prima di avere raggiunto la maggiore età. Giorgio non esitò ad approvare quel progetto. Ma come convincere sua madre che da questo orecchio proprio non sentiva? Semplice, gli rispose il suo maestro. Bastava rubarle quei documenti importanti e quindi ricattarla...
Una sera di novembre del 1874, Giorgio Verasis fece il colpo. Asportò dagli scrigni della madre un fascio di carte preziose (lettere «in cifra» di Vittorio Emanuele e di Cavour, lettere intime di Napoleone III, di Nigra, di Bismarck, di Rothschild, e altre carte definite «importantissime»), poi fuggì in Italia e si rifugiò alla Spezia. La distratta Contessa si accorse della scomparsa del figlio (e delle sue carte) soltanto qualche giorno dopo quando il mellifluo Sol andò a trovarla per chiederle notizie di Giorgio che, a suo dire, era scomparso. Scoperto l’accaduto e preoccupata più per i documenti che per il figlio, Nicchia spedì l’istitutore, del quale ancora si fidava, a cercare gli uni e l’altro alla Spezia da dove, nel frattempo, Giorgio si era rifatto vivo.
L’operazione ricattatoria messa in atto dal giovane Verasis su consiglio del suo istitutore ebbe uno svolgimento piuttosto intricato. Giorgio ebbe certamente altri complici e, in particolare, si giovò dell’aiuto di Ambrogio Doria, il «primo amore» di Nicchia. Sappiamo infatti che, appena giunto alla Spezia, egli aveva messo al corrente delle sue intenzioni sia la marchesa Doria che suo figlio Ambrogio, diventato nel frattempo un influentissimo senatore del Regno, e aveva trovato incoraggiamento e appoggio per la realizzazione del suo canagliesco progetto. Il comportamento dell’antico innamorato della bella Nicchia è francamente sconcertante, ma così è accaduto. Secondo le voci che circolarono all’epoca negli ambienti aristocratici spezzini, Ambrogio si sarebbe comportato in quel modo vergognoso per spirito di vendetta. Alcuni anni prima, dopo che Nicchia era rimasta vedova, lui le aveva chiesto di sposarlo, ma lei lo aveva respinto con una lettera insolente.
La querelle fra Nicchia e Giorgio, che lei, nei suoi diari, ora chiama «il Tigre», andò avanti a lungo fra denuncie, intermediari e avvocati. Uno spezzino di nome «Goujon» l’avvertì che Genulfo Sol faceva il doppio gioco, ma ormai era tardi. Giorgio intanto, spalleggiato da Ambrogio, aveva trovato ospitalità alla Spezia in casa del barone Morand, e resisteva ostinato alle pressioni materne: avrebbe restituito il maltolto solo in cambio della sua emancipazione. La vertenza si protrasse per molti mesi e si concluse infine, grazie alla mediazione dell’avvocato Mongini della Spezia, a tutto vantaggio di Giorgio il quale, cantando vittoria, così riferì a Genulfo Sol il risultato dell’accordo.
La Contessa ha accettato quanto segue:
1. Di lasciarmi in Italia sotto la responsabilità di Morand (che accetta)
2. Di lasciarmi libero di seguire gli studi che mi pare e di intraprendere la carriera che io preferirò.
3. Di servirmi di tutte le mie rendite garantite dai titoli depositati presso un notaio.
In cambio, Giorgio Verasis aveva firmato una dichiarazione in cui riconosceva di avere preso a sua madre, «Madama la Contessa V. Verasis di Castiglione, nella casa materna di Parigi, delle lettere private e d’affari, nonché due libri cifrati del re». Garantiva che i documenti restituiti «non sono stati fatti leggere a terze persone o copiati» e si impegnava d’ora in poi a non occuparsi degli affari di sua madre.
Nel suo diario, la Contessa umiliata e addolorata, commentò così la fine della vertenza: «Il Tigre sì, è vero, ha firmato, ma mi ha graffiata finché ha potuto». Unica sua consolazione: pretese che il figlio allontanasse da sé quel coquin, quel furfante di Sol e questi l’accontentò licenziando l’istitutore e negandogli qualsiasi compenso.
Da allora, Giorgio Verasis visse per suo conto fra La Spezia e Torino. Rivide la madre soltanto alcuni anni dopo e nel diario di lei si può leggere: «Il Tigre mi è sembrato tutt’altro che forte e sicuro di sé. Eh, perbacco! Me l’hanno proprio incretinito quei piemontesi! L’ho trovato debole, bestia, brutto e goffo. Non sa più dire una parola d’italiano. Abbiamo discusso non come una madre e un figlio, ma come due avvocati. È proprio vero che lui è tutto interesse e io tutto buon cuore...».
Circa il suo buon cuore, la Contessa forse esagerava; Giorgio tuttavia si rivelò in seguito spendaccione come suo padre e molto esoso. Tornò spesso alla carica per spillare soldi alla madre: «Pensa forse che io mi sia arricchita pagando i debiti di suo padre?» annota lei sarcastica nel diario.
Terminati gli studi, Giorgio Verasis entrò nella carriera diplomatica, visse due anni in Argentina e poi a Lisbona. A ventidue anni sposò sua cugina Amalia Asinari di San Marzano e Caraglio e morì improvvisamente, ucciso dal vaiolo, a Madrid, dove era giunto appena un mese prima come funzionario dell’ambasciata d’Italia. Era il 14 novembre 1879 e Giorgio aveva da poco compiuto ventiquattro anni. Appresa la triste notizia, Nicchia la registrò nel suo diario con queste parole: «Giorgio è morto: era il solo essere che avevo veramente amato sulla terra».
«È troppo tardi per ricominciare a vivere quando si comincia a morire...» scriveva sconsolata all’amico fedele Louis Estancelin che cercava di farla riemergere da quell’abisso di depressione in cui stava precipitando. Aveva quarantacinque anni. Molti anni prima, poco più che ventenne, in una giornata di malinconia aveva spiegato a Henri d’Ideville quali erano per lei le fasi della vita: «Quindici anni d’infanzia, quindici anni di giovinezza, quindici anni di vecchiaia...». E ora cosa l’aspettava?
Dalla sera del 24 dicembre del 1876 abitava in un ammezzato di Place Vendôme 26. Aveva voluto prendere possesso della sua nuova residenza alla mezzanotte esatta «per entrarci come Gesù bambino» e da allora aveva cominciato a intristirsi. Col trascorre degli anni, anche gli amici più intimi si erano a poco a poco diradati o perché chiamati a miglior vita o perché l’amicizia si era col tempo esaurita. Soltanto l’«amico normanno», il generale Estancelin, le resterà vicino fino alla fine dei suoi giorni.
Pensava sempre più spesso alla morte e se inizialmente questa sua mania poteva apparire un vezzo, in seguito si trasformerà in ossessione. Scriveva e stracciava testamenti, disponeva dettagliatamente le proprie esequie riempiendo pagine intere di crayonnages infernaux, di scarabocchi indecifrabili: «Intendo e ordino di essere sepolta nella nuda terra, da sola, nel mio grande esilio di Parigi. Di notte, senza fiori, senza luci, senza cavalli, senza uomini, senza donne, senza preghiere e senza preti. Rispettate le mie volontà e non dite che non avete decifrato i miei scarabocchi perché ne ho depositato una copia dal notaio...». Oppure si perdeva a compiangersi: «Non una patria, non una famiglia, non un amore, non un amico, né affetti, né salute, né denaro... Nulla più della bellezza, che ora non c’è più, mi è stato fatale!».
Col tempo, aveva trasformato l’appartamento di Place Vendôme in un fortino inaccessibile. Si era fatto costruire un ingresso particolare con tre porte per difendersi dai «nemici» che nella sua fantasia malata aumentavano di giorno in giorno. Per raggiungerla, i pochi amici superstiti dovevano sottoporsi a una complicata operazione. Il visitatore doveva annunciarsi dalla strada con un fischio di cui la Contessa aveva stabilito la particolare modulazione. Quel segnale valeva per tutti (in un suo ritratto donato a Estancelin si legge questa curiosa dedica: «Al mio vecchio amico Louis in ricordo di venticinque anni di fischi»). La chiave di casa che veniva gettata dalla finestra al sopraggiunto era d’argento a forma di croce e ornata da due «V» incrociate e incoronate. Nella sua impugnatura si celava una minuscola cavità atta a contenere una spugnetta che poteva essere imbevuta di profumo o... di veleno. Per aprire la seconda porta occorreva pronunciare una parola d’ordine, la terza invece si apriva come d’incanto e l’ospite veniva accolto dall’abbaiare furioso dei cani della Contessa. Nicchia ne teneva sempre una coppia e li amava teneramente. Gli ultimi due si chiamavano Casino e Sanduga. Quando morirono li fece imbalsamare e lasciò scritto che fossero deposti nella sua bara. Ma neanche questo suo ultimo desiderio sarà esaudito dagli ingrati eredi. Degli altri cani che aveva posseduto conservava i cuori immersi in piccole ampolle colme d’alcool.
Poeti e scrittori affascinati dalla personalità della celebre Contessa, come Gabriele d’Annunzio, Robert de Montesquiou, Frédéric Loliée e tanti altri, hanno contribuito a mitizzare un personaggio già di per sé straordinario, circondando di suggestive leggende il momento del suo fulgido splendore come quello del malinconico tramonto. Le une e le altre non sempre corrispondenti al vero, anche se sempre verosimili. È falso, per esempio, che Nicchia negli ultimi anni della sua vita avrebbe ricoperto tutti gli specchi di casa con un panno nero per nascondere, come ha scritto Guido Gozzano, «l’onta suprema della decadenza», tuttavia nell’appartamento di place Vendôme di specchi non ce n’erano. C’era invece un’incredibile quantità di ritratti e di fotografie che la raffiguravano nel pieno fulgore della sua bellezza. A poco a poco, la sua casa si era trasformata in un polveroso museo. Affastellati sui mobili, nelle vetrine e negli armadi, c’erano i reperti e le testimonianze di una vita trascorsa nel lusso e nella ricchezza: gli abiti indossati ai balli delle Tuileries, broccati, maschere, fiori, scialli, ventagli, piume, cotillon, oggetti vari e inviti coi più bei nomi del Secondo Impero. Le finestre erano perennemente chiuse, le tappezzerie erano di velluto nero e così il tappeto. Tutto era immerso nella penombra e il salotto, nel suo aspetto funereo, ricordava quello, un tempo famosissimo, dell’altra italiana che, qualche anno prima di lei, aveva avuto Parigi ai suoi piedi: la principessa Cristina di Belgioso, l’amica di Cavour e di Mazzini, che Nicchia fece in tempo a conoscere e che visse come lei un triste declino.
«La Contessa della leggenda», come lei amava definirsi nel suo volontario esilio dal mondo, vagheggiò per anni l’idea di scrivere la propria biografia onde costruirsi un piedistallo per entrare con tutti gli onori nella storia. Il povero Estancelin, come già si è ricordato, compì sforzi inauditi per incanalare il torrente turbinoso dei suoi ricordi e dei suoi rancori, poi si arrese. Ma sono rimaste pagine significative o sconclusionate, da lui scritte evidentemente sotto dettatura, che gettano lampi di luce su un’esistenza controversa e tormentata. Ecco un brano:
Leggete e ricordate, voi che amate la storia. La mia è una curiosa e accidentata storia di cose diversissime che m’hanno colpita a diritto e a traverso colpendomi in affari, in amori, in famiglia, in patria, in salute, in fortuna. Fatalità o provvidenza, non so: in questo gioco di vita e di morte non so più distinguere. Finisco per abbandonarmi al caso... I miei mesi sono maggio, giugno, novembre e marzo. Nel maggio il mio matrimonio funesto e la vedovanza, lo stesso giorno. In marzo la morte di mia madre, la nascita di mio figlio... e di novembre la morte del Tigre a Madrid. Da marzo o da giugno, la villa Gloria, Passy, le Tuileries, Vaticano, Pitti, La Spezia, Moncenisio, 1859, Custoza, Lissa, Solferino, Nizza, Savoia, Spagna, Versailles, Firenze... tormenti attraverso i quali sono passati o trapassati e miei amori o disamori, d’ogni sorta, giovani, continuati o cessati, non per vecchiezza né candore, ma per difetto e privilegio della sfortuna che mi perseguitò sempre, dato che io non dico di non essere stata amata, dico che non sono stata adorata come la mia rivale [Eugenia?] ... In quanto alle mie piccole storie di amorazzi e di incontri senza amore, nessuno potrebbe credere a quali disdette furono sempre sottoposti e vinti.
In un altro brano, la Contessa accenna alla sua attività politica:
Come avrei trascinato l’imperatore a Solferino e Thiers a Versailles, se non avessi usato della mia influenza personale, dei miei ragionamenti, mutandomi a seconda delle loro idee, a seconda della loro conversazione? È ormai tempo di chiarire tutto, prima che io muoia, perché possiedo tutti gli autografi, i dispacci cifrati, le lettere, i dettagli più intimi...
La Contessa non chiarirà un bel nulla, e gli storici si affretteranno a dire che queste sue velate minacce non erano che farneticazioni di una vecchia delusa e inacidita. Resta il fatto che ancora nel 1881 la casa...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. I - Una partenza movimentata
  5. II - Un’adorabile bugiarda
  6. III - Un matrimonio senza amore
  7. IV - Quanta noia nella «regal Torino»
  8. V - Le strategie di Cavour
  9. VI - La «proposta indecente» del conte di Cavour
  10. VII - Nicchia trionfa alle Tuileries
  11. VIII - Il Congresso si diverte
  12. IX - La «pericolosa passione» dell’imperatore
  13. X - La camicia da notte di Compiègne
  14. XI - Un agguato sospetto...
  15. XII - ...e un attentato lampante
  16. XIII - Le malinconie di Villa Gloria
  17. XIV - I cospiratori di Plombières
  18. XV - Nicchia va alla guerra
  19. XVI - La rivincita
  20. XVII - La sconfitta della crinolina
  21. XVIII - L’avventura messicana e la guerra del ’66
  22. XIX - Una giornata particolare
  23. XX - «Sono la più bella creatura che Dio ha messo al mondo»
  24. XXI - Gli occhi di Bismarck
  25. XXII - Gli ultimi fuochi
  26. XXIII - Il tramonto
  27. Bibliografia essenziale
  28. Ringraziamenti
  29. Indice