Il diritto di morire
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Il diritto di morire

La libertà del laico di fronte alla sofferenza

  1. 112 pagine
  2. Italian
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Il diritto di morire

La libertà del laico di fronte alla sofferenza

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"Il suicidio nel nostro paese non è reato, e non lo è ovviamente nemmeno il tentato suicidio. Allora, mi chiedo: perché un poveraccio che si trovi in una condizione di degrado, di dolore mentale e fisico, e che chieda insistentemente di poter terminare la sua vita, non deve essere esaudito nel suo desiderio?"
In queste pagine Umberto Veronesi affronta con grande rispetto ma senza falsi pudori l'argomento dell'eutanasia: un tema spinoso, sul quale, con sempre maggiore frequenza, è chiamata a confrontarsi la nostra società in cui le tecniche di terapia intensiva possono prolungare la vita vegetativa per un tempo indefinito. Il celebre oncologo spiega perché "curare" i pazienti, talvolta, diventa un modo per non "prendersi cura" di loro; chiarisce per quale motivo è urgente giungere a una normativa che anche in Italia dia valore giuridico al cosiddetto testamento biologico; parla d'oppiacei e di cure palliative; delinea la posizione degli altri stati europei sull'argomento. Ma soprattutto pone un'ineludibile questione etica: è lecito impedire a un individuo di disporre della propria vita, anche quando è diventata invivibile?

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852011733

VII

Un sonno senza risveglio

Anni fa li chiamavano “i sempreverdi”. Sono le persone in stato vegetativo permanente, che non torneranno mai più a uno stato di coscienza, ma che continuano a vivere grazie alle tecnologie di supporto vitale. Sono proprio queste storie al limite che diventano casi di cronaca e che innescano lacerazioni familiari e giuridiche, com’è accaduto di recente per Terri Schiavo, la giovane donna americana in stato vegetativo permanente dal 25 febbraio 1990 e morta quattordici giorni dopo che la Corte suprema degli Stati Uniti aveva autorizzato l’interruzione dell’idratazione e della nutrizione artificiale, richiesta dal marito della donna e avversata dai familiari al punto che la sorella Suzanne ha paragonato Terri a una “vittima di Auschwitz”.
Se si possono capire i sentimenti dei genitori e della sorella, bisogna invece chiedersi perché, con regolare ripetitività, l’opinione pubblica reagisca a questi drammi terribili con tanta emotività e angoscia, e perché giornalisti e scrittori se ne facciano portabandiera, crocifiggendo medici e magistrati. Non ho l’abitudine di sospettare complotti, e ammetto la buona fede di chi si sente colpito nella propria umanità da decisioni che sembrano inumane. Penso pertanto che ciò accada, in buona parte, per mancanza di una corretta informazione. Aggiungo subito che purtroppo non si vede chi tale corretta informazione possa o voglia darla. Certo non i giornali e le Tv, che sono soliti rintracciare in questi drammi gli elementi più adatti a imbastire storie a sensazione. In tal modo viene a mancare il ruolo temperatore della ragione e si scatena l’emotività selvaggia. E i giornalisti di primo piano non fanno eccezione. Così ho trovato molte affermazioni rilasciate da una famosa scrittrice (in un’intervista pubblicata dal “Foglio” su questo caso) che non hanno alcuna base scientifica, come per esempio quando dice che “lo stato vegetativo è un alternarsi di sonno e di veglia durante il quale il malato vede, capisce, reagisce agli stimoli”. E ancora: “Quella era una donna che capiva. Che pensava, che ragionava. Io sono certa che la sua lunga agonia, la sua interminabile esecuzione effettuata attraverso la fame e la sete, Terri l’abbia vissuta consapevolmente”. Un’affermazione questa che è stata poi tragicamente smentita dai risultati dell’autopsia del cervello di Terri Schiavo: la donna era “in morte cerebrale, il suo cervello aveva subito devastazioni massicce e irreversibili, e i centri cerebrali della vista distrutti”. La povera Terri era cieca, e le immagini dei suoi occhi che sembravano guardare il volto della madre erano un’illusione, un puro riflesso.
La realtà è che su queste situazioni “al limite”, rese possibili proprio dall’enorme progresso della scienza medica, c’è davvero una paurosa mancanza d’informazione. Non solo nell’opinione pubblica e nei giornalisti, ma anche in molti medici e infermieri.
Il parere degli esperti
Per questa ragione, durante il mio mandato ministeriale, nominai con decreto il “Gruppo di lavoro su nutrizione e idratazione nei soggetti in stato di irreversibile perdita della coscienza”. Non è il caso qui di riportare per esteso un lavoro che è stato redatto dai massimi esperti del problema. Basti ricordare che nel capitolo sui “quadri clinici particolari” si esaminano la sindrome di de-afferentazione (Locked-in Syndrome), lo stato di coma apparente con l’interruzione di tutte le vie motorie, che murano letteralmente il malato entro il proprio corpo ma gli lasciano la coscienza; poi il mutismo acinetico, “condizione di apparente vigilanza, con cicli spontanei di chiusura e apertura degli occhi, ma nessuna evidente manifestazione di attività psichica e una scarsa e stereotipata motilità spontanea”. In questa condizione resistono tuttavia “ancora barlumi di attività psichica cosciente”.
Infine si arriva allo stato vegetativo persistente e permanente, che è il quadro estremo della condizione precedente. Nella loro esposizione su questa condizione, gli esperti che avevo nominato riportarono quella che è praticamente l’essenza dello stato vegetativo, come descritto da Jennett e Plum, ovverosia “la mancanza di ogni risposta adattativa all’ambiente esterno, l’assenza di ogni segno di una mente che riceve e proietta informazioni, in un paziente che presenta prolungati periodi di veglia”.
Questi pazienti sono in grado di respirare spontaneamente, e le loro funzioni cardiovascolari, gastrointestinali e renali sono conservate. Di solito sembrano dormire, con gli occhi chiusi; altre volte sembrano svegli, con gli occhi aperti. Esclude lo stato vegetativo la presenza di segni anche minimi di percezione cosciente o di motilità volontaria, anche limitata al semplice battito degli occhi. I concetti di persistenza e di permanenza vanno distinti. Mentre l’aggettivo persistente si riferisce solo a una condizione di passata e perdurante disabilità con un incerto futuro, l’aggettivo permanente implica l’irreversibilità.
Naturalmente era cruciale che il gruppo di lavoro si occupasse dell’idratazione e della nutrizione artificiale di questi soggetti in stato vegetativo permanente, anche alla luce del lungo dibattito etico che ha cercato di chiarire come si debbano intendere queste azioni: “doveroso sostentamento” oppure “trattamento medico”? La differenza è importantissima, perché il doveroso sostentamento implica che esso debba essere fornito comunque, mentre il trattamento medico può rientrare a buon diritto tra quelle “cure inappropriate” che il medico ha il dovere morale di non somministrare, che il paziente in stato di coscienza ha il diritto assoluto di rifiutare, e che non devono essere intraprese se il soggetto ha lasciato “direttive anticipate” in cui chiede questo.
E per il paziente in stato d’incoscienza che non abbia lasciato il testamento biologico, cioè le sue direttive anticipate? È il caso soprattutto di persone giovani che di colpo sono piombate in uno stato irreversibile d’incoscienza. Come Terri Schiavo, e prima di lei Karen Ann Quinlan, Eluana Englaro e altri. Ed è anche il caso di bambini nati con gravissime malformazioni, a causa delle quali rimarranno – per tutta la durata della loro debole vita – in uno stato che si può definire “al di qua della coscienza”. Sono i casi più strazianti. Sul piano scientifico sono tristemente chiari, ma diventano controversi quando incontrano la lacerante richiesta della famiglia che spera comunque, e soprattutto quando essi ricevono il trattamento sensazionalistico che i media riservano loro sempre, senza ripensamenti e senza pentimenti. In Italia non esiste ancora la legge sul testamento biologico, ma è chiaro che la situazione dei soggetti in stato vegetativo permanente che non hanno potuto esprimere direttive anticipate e la cui volontà non è possibile ricostruire o interpretare costituisce un problema nel problema.
Il gruppo di lavoro l’ha esaminato, e ha fatto una raccomandazione: quando si constata questa situazione, va immediatamente nominato un rappresentante legale, che “ricopra la legittima posizione di soggetto interlocutore dei medici nel decidere sui trattamenti sanitari sull’incapace”. Il riferimento è l’art. 357 del codice civile, dove si dice che il tutore “ha la cura della persona”. Ma questo tutore potrebbe restare inerte davanti a questioni importanti, oppure non dimostrarsi adeguato a tutelare i diritti del soggetto. Gli esperti perciò consigliano che non venga lasciata una “totale discrezionalità” al rappresentante legale dell’incapace. E indicano come un principio fondamentale di riferimento per il legislatore quello della “dignità della persona”, che ha fondamento giuridico nell’art. 32 della Costituzione della Repubblica italiana, è recepito dal Codice di deontologia medica ed è ampiamente condiviso dalla più autorevole dottrina in campo bioetico.
Incapaci di soffrire
Idratazione e nutrizione artificiale dividono dalla morte i soggetti in stato vegetativo permanente, che come abbiamo detto respirano da soli ma sono in irreversibile stato d’incoscienza.
Hanno colpito la sensibilità collettiva le immagini della gente che si affollava intorno all’ospedale innalzando cartelli per la vita di Terri Schiavo. C’era chi piangeva, e in tutto il mondo l’angoscia si è propagata come il fuoco in una prateria, senza trovare il conforto della ragione. La scienza non è né fredda né disumana, credetemi. La scienza cerca di fugare i dubbi, fornire certezze e rassicurare. La scienza non vuole il male né il dolore di nessuno, e anzi conduce le sue battaglie più grandi proprio in nome dell’uomo. La scienza ha cercato di dire la sua parola nel generale tumulto per il caso di Terri Schiavo, ma non ha trovato udienza. Eppure, come l’autopsia del cervello della povera Terri ha mostrato la devastazione che avevano subito i suoi centri nervosi, così nella relazione finale del gruppo di studio ministeriale si trova la spiegazione scientifica che dovrebbe tacitare le angosce di chi crede che per Terri Schiavo e per gli altri sfortunati soggetti in stato vegetativo permanente la decisione d’interrompere l’idratazione e la nutrizione artificiale sia null’altro che una crudele condanna a morire di fame e di sete.
Scrivono gli esperti: “Ad avviso di questo gruppo di lavoro, il punto essenziale è che nell’idratazione e nutrizione artificiale di individui in stato vegetativo permanente viene somministrato un nutrimento come composto chimico (una soluzione di sostanze necessarie alla sopravvivenza) che solo medici possono prescrivere e che solo medici sono in grado di introdurre nel corpo attraverso una sonda nasogastrica o altra modalità, e che solo medici possono controllare nel suo andamento, anche ove l’esecuzione sia rimessa a personale infermieristico o ad altri. Mentre il beneficiato non solo non può apprezzare il preparato e i suoi effetti, ma soprattutto non può, e non potrà mai più, rendersi conto del fatto di essere alimentato”.
Mi sembra che la conclusione che se ne può trarre sia chiara, e tale da rimuovere l’angoscia: le persone in stato vegetativo permanente, così come non avvertono di essere idratate e alimentate, così non avvertono di non esserlo più. Qualunque cosa possa sembrarci, la realtà è che non soffrono, perché non sono più capaci neppure di soffrire. Siamo chiaramente fuori dal terreno dell’eutanasia, che per definizione contempla la volontà del paziente di porre termine all’esistenza, volontà che ovviamente qui non può essere espressa (a meno della presenza di un testamento biologico redatto in precedenza).
Nancy, morta di eutanasia legale
Nel gennaio 1983 Nancy Cruzan, una ragazza americana di ventisei anni, ebbe un gravissimo incidente automobilistico, con arresto cardiaco. I soccorritori erano riusciti a rianimarla, ma Nancy era rimasta senza respirare per quindici minuti, riportando lesioni al cervello che l’avevano precipitata in uno stato di coma dimostratosi poi uno stato vegetativo permanente. I suoi genitori, cinque anni dopo l’incidente, iniziarono la battaglia perché alla ragazza venisse riconosciuto il diritto a morire, ma lo Stato del Missouri continuò a opporsi. Di giudizio in giudizio, il caso arrivò alla Corte suprema degli Stati Uniti, che nel giugno del 1990 approvò – con cinque voti a favore e quattro contro – una sentenza che, considerando tutti gli aspetti del problema, ha sicuramente precorso i tempi. Secondo questa sentenza, i cittadini hanno un diritto di privacy generale, che comprende anche il diritto a non essere sottoposti a trattamenti medici tesi a prolungare la vita nonostante non vi siano più ragionevoli speranze di guarigione e la persona sia sprofondata in un coma totale. Questa parte della sentenza ammetteva quindi quella che fu chiamata allora “eutanasia legale”, e che in seguito e tuttora viene definita spesso “eutanasia passiva”.
Come ho già detto, personalmente la considero una definizione errata. Ma proprio sulla volontà del paziente si fondò la seconda parte della sentenza della Corte suprema, che affermò il diritto di cercare “una chiara e convincente” prova della decisione di morire. All’epoca già da anni erano sorte negli Stati Uniti e in genere nei paesi anglosassoni molte Società per il diritto alla morte, che avevano già raccolto migliaia di “testamenti in vita” circa le proprie volontà sul trattamento medico di fine vita. Ma poteva Nancy, una spensierata ragazza di ventisei anni, aver pensato di compilare uno di questi moduli, che avessero o no valore legale all’epoca? I genitori si affannarono per anni a sostenere che la loro ragazza aveva più volte espresso a voce la convinzione di “non voler vivere come un vegetale”. I giudici non si facevano convincere. A settembre del 1990, la svolta: mamma Cruzan chiese un nuovo processo, e i magistrati accordarono a tre amici di Nancy di fare da testimoni. I giovani ricordarono che nelle loro chiacchiere di adolescenti Nancy aveva più volte esclamato: “Dio mio, se dovessero tenermi viva artificialmente, preferirei la morte!”. Vero o no, i giudici ammisero come testimonianza convincente quella dei tre giovani, e dissero di sì: Nancy Cruzan poteva morire. Il 15 dicembre 1990 furono rimossi i tubi che alimentavano e idratavano Nancy, e dopo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Premessa
  3. Introduzione
  4. I Il mistero della morte e della vita
  5. II Male fisico e metafisico
  6. III Perché è ancora un tabù
  7. IV L’eutanasia nella società moderna
  8. V L’insostenibile solitudine del dolore
  9. VI Le ipocrisie del “non fare”
  10. VII Un sonno senza risveglio
  11. VIII Sacralità e dignità della vita
  12. IX Una legge impossibile
  13. Conclusione
  14. Indice