L'ultima crociata
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L'ultima crociata

Quando gli ottomani arrivarono alle porte dell'Europa

  1. 216 pagine
  2. Italian
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L'ultima crociata

Quando gli ottomani arrivarono alle porte dell'Europa

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Per secoli, a ondate successive, le armate islamiche hanno condotto con costante insistenza la jihad, la "guerra santa", nell'intento di cogliere quella mitica "mela rossa" che nel loro immaginario collettivo simboleggia Roma. Per impedire la conquista di questo ambito obiettivo, i cristiani affrontarono, per terra e per mare, grandi battaglie e sostennero lunghi assedi. Ma ciò fu possibile solo perché la Cristianità, superando i non facili conflitti intestini, seppe trovare quell'unità necessaria a scongiurare il pericolo incombente.
Prendendo spunto dalla Lectio magistralis pronunciata da Benedetto XVI a Ratisbona nel settembre 2006, che tante polemiche ha suscitato, Arrigo Petacco ripercorre in queste pagine tutte le fasi della lotta millenaria del mondo cristiano contro l'Islam: dal 732, quando i paladini di Carlo Martello arginarono a Poitiers la prima invasione araba, a quando circa mille anni dopo, nel 1697, Eugenio di Savoia sconfisse a Zenta l'esercito del sultano, liberando definitivamente l'Europa da tale minaccia.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852013782

I

LE PRIME CROCIATE

La jihad contro la Cristianità
Urbano II, il papa che proclamò nel 1095 la prima crociata contro l’Islam, era francese, ma trascorse in Italia gran parte della sua vita come vescovo di Ostia e Velletri e poi, prima di essere elevato al soglio pontificio nel 1088, come «inviato speciale» di Gregorio VII nell’Italia meridionale flagellata dai saraceni e nella Sicilia dalla quale i normanni stavano faticosamente cacciando gli arabi che l’avevano dominata per tre secoli. Formatosi nella celebre abbazia benedettina di Cluny, che era il principale e forse unico centro culturale dell’epoca, Ottone di Lagery, questo il suo nome secolare, era uno degli uomini più dotti del suo tempo. Degno successore del grande Gregorio VII, riformò la Chiesa, ne ristabilì l’antica autorità e impose ai re e ai signori cristiani il giuramento di fedeltà al papa, pena la scomunica. Un uomo colto, insomma, ma anche risoluto, che sapeva farsi obbedire.
Questo conciso ritratto è utile per meglio conoscere il primo banditore delle crociate sul quale gli storici moderni sogliono spesso favoleggiare con quella supponente ironia che di solito emerge quando si parla di personaggi che immaginiamo brancolanti nelle nebbie dei cosiddetti secoli bui. Urbano aveva invece idee chiare e una solida visione del mondo in cui viveva. I suoi studi e le sue frequentazioni dell’Italia meridionale gli avevano consentito di valutare de visu la minaccia dell’Islam, la religione emergente e rivale che vantava la stessa genesi biblica cui si richiamava la Chiesa e che al pari del cristianesimo faceva opera di proselitismo, ma con la differenza che diffondeva il Verbo non con la persuasione, bensì con la spada.
La decisione di bandire la crociata non fu dunque un’alzata d’ingegno di un papa avventuroso, ma una meditata risoluzione da lui maturata nei concili di Piacenza e di Clermont, dove i rappresentanti della Chiesa bizantina lo avevano certamente informato della pericolosità del califfato islamico che si stava dilatando a macchia d’olio anche nel bacino mediterraneo. Urbano, insomma, fu forse il primo a capire che la jihad – la guerra santa islamica propugnata dai califfi di Baghdad – non era la solita guerra di conquista, ma una guerra ideologica, di religione, che si proponeva di sottomettere all’Islam tutti i popoli considerati infedeli. Letteralmente, «Islam» significa infatti sottomissione e «musulmani» sottomessi.
La Cristianità doveva quindi difendersi e Urbano II non esitò a impugnare la spada. O meglio, la fece impugnare ai cristiani galvanizzandoli, come vedremo, con i sistemi propagandistici allora consentiti. Proclamò infatti la guerra santa cristiana in risposta alla guerra santa islamica, utilizzando come pretesto la liberazione del Santo Sepolcro. Ai partecipanti all’impresa veniva garantita una ricompensa celeste.
Qualcosa di simile aveva promesso un paio di secoli prima anche Maometto ai seguaci arabi che avevano accettato la sua dottrina. Prima dell’entrata in scena del Profeta di Allah, il popolo arabo era un coacervo di tribù nomadi ostili fra loro, senza futuro e senza storia. Fu la sua predicazione a compattarle fino a formare una «comunità» (umma), o se volete uno stato nazionale, che rinunciava alle lotte intestine per votarsi alla diffusione del Verbo del Profeta in tutto il mondo. Insomma, oltre che a dare agli arabi un sentimento nazionale, Maometto, con il Corano, fornì loro anche il catechismo.
Il Profeta di Allah non era un legislatore, non lasciò infatti dei codici bensì solo una serie di norme, o meglio, di dogmi, che i suoi successori trascrissero a memoria nel Corano (che significa discorso). Secondo questa dottrina, il «vero credente» doveva imparare a leggere e a scrivere soltanto sul Corano e attenersi in tutto e per tutto alle disposizioni che il Libro stabiliva. Allah, quindi, aveva già deciso il destino di tutti gli uomini e questa convinzione fatalistica doterà i musulmani di grande coraggio e di un sovrano disprezzo per la morte. Il paradiso si sarebbe guadagnato accettando la propria sorte, ovvero obbedendo alle disposizioni stabilite dal Corano. Seguivano altri severi precetti, zelantemente osservati, di un’etica puritana non molto diversa da quella cristiana. Solo per quanto riguarda la sensualità Maometto si era rivelato di manica larga. I «veri credenti» prendessero pure quante mogli volevano, anche lui, d’altronde, ne aveva collezionato un buon numero: in paradiso ne avrebbero trovate ancora di più.
Alla morte del Profeta, avvenuta nel 632, questi non aveva lasciato un erede e la comunità scelse come suo successore Abu Bakr al-Siddiq, dal quale Maometto si era fatto sostituire in moschea. Fu lui il primo califfo (che significa vicario, come san Pietro per Gesù). Secondo califfo fu Omar al-Khattab, eletto su designazione di Abu Bakr. Omar guidò le grandi spedizioni arabe di conquista e iniziò l’organizzazione dell’impero arabo stabilendone le fondamentali norme legislative e religiose. Secondo una leggenda araba, semiveritiera, fu lui a ordinare la distruzione della famosa Biblioteca di Alessandria dove erano conservate le preziose collezioni di testi classici. Tale scempio fu giustificato col seguente sillogismo: se quei libri erano conformi nel contenuto a quanto già si leggeva nel Corano, erano «inutili», se invece erano in contrasto con esso andavano ugualmente distrutti perché «dannosi». Agli occhi dei musulmani delle posteriori generazioni, Omar apparve come il califfo ideale. Morì comunque assassinato.
A differenza di altri popoli invasori, gli arabi partirono dunque alla conquista del mondo cristiano con la spada, ma anche con il Libro. E vale la pena ricordare che il dramma del Medioevo (e non solo) si sarebbe giocato appunto sulla lotta fra tre libri: la Bibbia, il Vangelo e il Corano. Anche per Maometto la fonte di ispirazione era stata quella ebraica, cui aveva attinto pure il cristianesimo. Sul punto fondamentale, le tre religioni erano e sono d’accordo: esiste un solo Dio. Con la differenza, però, che per gli ebrei il Messia deve ancora apparire, per i cristiani è apparso con Gesù e per i musulmani con Maometto, circa seicento anni dopo. Ma che si chiamasse Dio o Jeovah, o Allah, era per tutti e tre l’onnipotente Signore ebreo del Vecchio Testamento.
L’impulso al proselitismo armato, predicato da Maometto, si conciliava perfettamente con il desiderio del popolo arabo di lasciare il deserto per la conquista di terre più ricche e più fertili, e la fede fornì anche un alibi ideologico a quella volontà aggressiva. La jihad, la guerra santa, diventò fin da allora il dogma cui i «veri credenti» dovevano obbedire. Nel Corano questa imposizione è infatti più volte ripetuta:
Fate la guerra a quelli delle Scritture [ebrei e cristiani] che non credono nella verità ... Combatteteli finché non paghino il tributo, siano tutti umiliati ... Che Allah faccia la guerra a questi mentitori ... quando incontrate questi infedeli uccideteli o stringete forte le catene dei prigionieri ... Allah metterà le anime dei guerrieri caduti in corpi di uccelli verdi che bevono nei fiumi del Paradiso...
Queste regole bellicose imposte da Maometto e ratificate dal Corano furono adottate da tutti i «veri credenti» come norme legittime del loro diritto di guerra.
Già alcuni secoli prima delle crociate, la jihad aveva imperversato ininterrottamente. Mentre gli eserciti con le bandiere verdi del Profeta conquistavano il Medio Oriente, l’Egitto, l’intero litorale nordafricano, la Sicilia e la Spagna, la pirateria saracena e barbaresca flagellava le coste europee del Mediterraneo.
Ma a proposito di questa pirateria sarà opportuno descriverne la peculiarità. I rozzi saraceni e i rozzi barbareschi, che si erano convertiti all’Islam in quanto il loro atavico istinto di predoni aveva trovato una sorta di legittimità nei dettami del Corano, avevano assai poco in comune con la raffinata civiltà orientale dei leggendari califfi. Essi non leggevano Le mille e una notte, non si godevano le mollezze degli harem di Baghdad o i fantastici giochi d’acqua dei mitici «giardini dell’Islam» così cari ai discendenti delle tribù provenienti dagli aridi deserti arabici. Tuttavia rispettavano la legge del Profeta attaccando esclusivamente le navi e i villaggi cristiani. A modo loro, insomma, applicavano le norme del diritto di guerra ratificato dal Corano. Le loro incursioni si distinguono infatti dalle consuete devastazioni barbariche tanto frequenti in quegli anni per il loro contenuto per così dire ideologico. I pirati islamici non aggredivano i correligionari, uccidevano soltanto gli infedeli o «stringevano forte le catene» per ridurli in schiavitù (attività molto redditizia e consentita dall’Islam), saccheggiavano i villaggi, rubavano tutto ciò che potevano rubare, ma poi si dedicavano con metodica perseveranza alla non redditizia demolizione di tutti i simboli della religione cristiana: incendiavano le chiese, bruciavano le immagini sacre e frantumavano le... campane. Questa singolare idiosincrasia per le campane non ha una spiegazione precisa: forse venivano considerate delle offensive rivali dei muezzin che invitavano alla preghiera dall’alto dei minareti.
La guerra corsara, che continuerà fino agli albori del XIX secolo, si svolse naturalmente in fasi alterne. All’epoca delle Repubbliche marinare capitò spesso, per esempio, che Genova, Pisa e Amalfi stringessero patti di reciproca tolleranza o compensazione con gli emiri barbareschi più venali, onde fossero rispettate le navi battenti le rispettive bandiere. A proposito della bandiera della Repubblica genovese (croce di San Giorgio rossa in campo bianco) si racconta anche un aneddoto curioso. Un potente emiro algerino si era impegnato a far rispettare dai suoi pirati le navi che battevano il vessillo della «Superba», cosicché alcuni armatori inglesi venuti a conoscenza di questo privilegio chiesero, o meglio, acquistarono dal Banco di San Giorgio, che governava la Repubblica genovese, il diritto di battere la stessa bandiera. La quale, con la successiva sovrapposizione della croce irlandese di San Patrizio e di quella scozzese di Sant’Andrea, diventerà la bandiera britannica.
Alla fine del primo millennio, il califfato aveva raggiunto la sua massima estensione – dall’Atlantico all’Himalaya – salvo naturalmente i territori sotto il dominio bizantino. Ma non si trattava di uno stato unitario, bensì di un complesso di sultanati e di emirati, uniti dal collante imposto dai riti della comune religione (la venerazione del Profeta, l’osservanza della jihad e della sha’ria, la legge coranica, nonché la conoscenza della lingua araba e l’obbligo del pellegrinaggio alla Mecca) più che dall’autorità del califfo, che risiedeva a Baghdad, la cui carica era puramente rappresentativa. Lo scisma fra sunniti e sciiti, provocato da una diversa interpretazione delle regole coraniche (per i primi la carica di califfo era elettiva, per i secondi si trasmetteva per via ereditaria ai discendenti del Profeta), non aveva prodotto gravi fratture. La setta sciita si era infatti affermata soltanto nella Persia, ma era sopravvissuto dovunque un senso di appartenenza alla medesima comunità. Cosicché, il musulmano che attraversava il dar al-Islam, la terra dell’Islam, ossia il califfato (il resto del mondo era chiamato dar alharb, la terra della guerra), si sentiva ovunque come fosse a casa sua.
Alla fine del primo millennio era dar al-Islam anche tutto il Medio Oriente, salvo ciò che restava dell’impero romano bizantino che, attorno a Costantinopoli, la sua antica capitale, costituiva un’isola cristiana al centro di un mare islamico. Gerusalemme, considerata sacra anche dai musulmani, era stata conquistata dal califfo Omar nel VII secolo e numerose erano state le conversioni di cristiani e di giudei all’Islam. Gli arabi si mostrarono tolleranti con i cristiani e i pellegrinaggi ai luoghi santi continuarono liberamente. Solo più tardi il califfo al-Hakim mise in atto una feroce persecuzione che portò alla distruzione della chiesa del Santo Sepolcro. Le violenze perpetrate provocarono grande sdegno in Europa e furono esse la non ultima causa, o forse il pretesto, del ripetuto intervento armato europeo in Palestina passato alla storia col nome di «crociate».
La Grande avventura
«Dio lo vuole!» gridavano i fondamentalisti cristiani che agli inizi del secondo millennio andavano predicando per le contrade d’Europa la crociata per la liberazione del Santo Sepolcro. Fu appunto sull’onda di questo appello, lanciato dal papa Urbano II e diffuso nell’intera Cristianità da Pietro l’Eremita e dai suoi seguaci, che ebbe inizio il primo cruento confronto fra le due più grandi civiltà del momento, quella cristiana e quella islamica.
Dopo di allora, per circa due secoli, la Terrasanta fu teatro di una guerra sanguinosa fra gli eserciti cristiani sopraggiunti dall’Europa e quelli islamici che si erano impadroniti di quel territorio un tempo appartenuto all’impero romano d’Oriente. Sulle motivazioni di questo lungo conflitto (a parte le motivazioni religiose che sono indiscutibili) non è facile fare completa chiarezza. Ancora oggi, d’altronde, la genesi della «Grande avventura» dei cavalieri crociati stimola gli storici, desiderosi di razionalizzare questo primo movimento di massa del mondo cristiano appena riemerso dalla lunga notte dei secoli bui. Ne sono, di conseguenza, sortite versioni diverse e spesso contraddittorie. Giudicando sovente col senno del poi, alcuni studiosi vi hanno intravisto l’inizio del colonialismo europeo che si sarebbe trionfalmente concluso nel XIX secolo. Altri vi hanno scorto invece l’ultima «invasione barbarica» contro ciò che era sopravvissuto della civiltà greco-romana, assegnando ovviamente ai rozzi cavalieri cristiani il ruolo dei «barbari» invasori.
Purtroppo, il revisionismo storico cade frequentemente nel trabocchetto delle facili interpretazioni suggerite dalla realtà in cui viviamo. Così è stato per le crociate: sotto l’influenza del senso di colpa alimentato dalla decolonizzazione, dell’autolesionismo del «politicamente corretto» e del «buonismo» ora imperante (persino papa Wojtiła ha invocato un perdono che l’Islam ha scambiato per un’ammissione di colpa), esse sono state rivisitate secondo i canoni dettati dall’etica moderna. Senza tener conto che a quell’epoca l’ideologia della sopraffazione animava tanto i cristiani quanto i musulmani.
Il fenomeno crociato deve invece essere inquadrato nel suo tempo. Un tempo in cui i saraceni flagellavano le nostre coste nel nome di Allah incendiando i villaggi e deportando in schiavitù intere popolazioni. Un tempo in cui la Cristianità era in crisi, divisa fra Oriente e Occidente e minacciata dall’irresistibile avanzata dell’Islam che già si era impadronito della Sicilia e della Spagna.
A parte dunque le varie interpretazioni, la crociata bandita da Urbano II nel 1095 dopo il concilio di Clermont fu essenzialmente la reazione della Chiesa di fronte al più grande pericolo che essa avesse mai corso dalla caduta dell’impero romano. Fino ad allora, malgrado le complesse vicissitudini, il papato era sopravvissuto alle temperie dei secoli bui e aveva conservato il suo prestigio cristianizzando i barbari invasori. Il «barbaro» Carlomagno, re dei franchi, aveva addirittura fondato con la benedizione papale il Sacro romano impero sulle rovine dell’antico impero romano d’Occidente.
Ora però non si trattava più di «barbari» pagani disposti a lasciarsi convertire alla nuova fede, bensì dei combattivi banditori di una religione concorrente molto più bellicosa di quella cristiana. Gli eserciti del califfato non erano infatti delle orde barbariche, ma efficienti strumenti di guerra al servizio di un disegno di conquista del mondo intero attraverso la jihad (che significa «guerra perenne contro gli infedeli»).
L’appello di Urbano II provocò un fenomeno di massa mai visto prima. Uomini usi alle armi, ma anche donne e persino bambini, come fossero tutti stati colti da una forma di follia collettiva, lasciarono i propri villaggi per affrontare la grande avventura tesa al riscatto del Santo Sepolcro. Ai partecipanti alla santa crociata la Chiesa garantiva la remissione di ogni peccato, la protezione dei beni e si assumeva la responsabilità morale dell’impresa. Il ritrovo dei crociati fu fissato per il 15 agosto 1096 a Costantinopoli dove affluì per terra e per mare da ogni parte d’Europa un numero incredibile di volontari.
Durante la marcia di avvicinamento, i cavalieri e i fanti crociati non andarono troppo per il sottile. Dovunque passarono lasciarono il segno saccheggiando villaggi e uccidendo non solo gli infedeli, ma anche cristiani ortodossi, cristiani copti ed ebrei. Anzi, gli ebrei furono i primi a soffrirne perché fondamentalmente, anche se oscuramente, il movimento crociato era rivolto forse più contro di loro che contro i seguaci di Maometto. È noto infatti che la prima crociata ebbe proprio inizio con il massacro delle comunità ebraiche incontrate durante il passagium verso la Terrasanta in quanto, come testimonia un cronista dell’epoca, «era questo il modo giusto per cominciare la spedizione ed era ciò che i nemici della fede cristiana meritavano».
Resta tuttavia difficile attribuire al solo sentimento religioso questo movimento di massa del mondo cristiano appena riemerso dall’oscurantismo. Certamente furono molti coloro che risposero all’appello perché animati dal sincero desiderio di liberare il Santo Sepolcro e sollecitati dai fanatici predicatori che dipingevano a fosche tinte le condizioni dei cristiani di Palestina. Ma molti altri furono spinti da motivazioni diverse e niente affatto religiose. Ecco, per esempio, cosa scriveva un anonimo cronista di quel tempo.
Le intenzioni dei crociati sono varie: alcuni partono per spirito d’avventura e altri perché spinti dalla povertà. Questi ultimi sono pronti a combattere non solo contro i nemici della Croce, ma anche contro gli amici del nome cristiano dovunque appaia un’opportunità di arricchimento. Poi ci sono gli oppressi dai debiti e coloro che si aspettano di sfuggire alle meritate punizioni in questa o nell’altra vita. Pochi sono spinti da un proposito santo...
Resta comunque da dire che i cavalieri che fecero «l’Impresa», come allora si usava dire, non erano soltanto dei cadetti senza futuro o comunque dei nobili senza terra desiderosi di arricchirsi. Anche se i nobili spiantati certamente non mancarono, come si può dedurre dal nome del primo loro comandante prescelto da Pietro l’Eremita, il tedesco Gualtiero Senza Averi, all’appello lanciato da Urbano II e dai suoi successori (le crociate furono almeno sette nell’arco di un paio di secoli) risposero feudatari di rango, principi, sovrani e persino imperatori, come Federico Barbarossa. D’altra parte, in quegli anni di grande fervore religioso, se la partecipazione alla crociata poteva essere intesa dalle masse diseredate come una sorta di pellegrinaggio interessato, per i nobili cavalieri fu soprattutto un’opportunità per emulare gli eroici paladini «senza macchia e senza paura» di cui i trovatori cantavano nelle corti le Chansons de geste.
Dopo una lunga marcia attraverso i Balcani, i partecipanti alla prima crociata confluirono nell’estate del 1096 a Costantinopoli. Qui furono accolti con sollievo dall’imperatore bizantino Alessio I, che già sentiva sul collo il fiato degli invasori arabi. Erano in gran parte franchi, tedeschi, britannici e italiani, i quali avevano scelto come comandante il conte di Lorena Goffredo di Buglione. Il loro numero varia, secondo le fonti imprecise del tempo, da trentamila a trecentomila. Come segno di distinzione, i cavalieri, chiusi nelle loro lucenti armature, esibivano una croce rossa sulla spalla destra.
La conquista di Gerusalemme
All’inizio, l’arrivo dei crociati in Terrasanta non allarmò più di tanto il mondo arabo. Anzi, fu accolto con indifferenza, quasi con disprezzo, come se si trattasse di un’azione periferica compiuta da una banda di predoni. Non si dimentichi infatti che...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Indice
  5. Prologo
  6. I - Le prime crociate
  7. II - Pirateria, schiavitù e usanze arabe
  8. III - Solimano
  9. IV - Alla conquista dell’Europa
  10. V - La risposta cristiana
  11. VI - L’impero ottomano e le potenze cristiane dopo lepanto
  12. VII - L’assedio di creta
  13. VIII - L’assedio di vienna
  14. IX - La grande guerra turca
  15. Bibliografia
  16. Fonti iconografiche
  17. Indice dei nomi