Roma e Gerusalemme
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Roma e Gerusalemme

La Chiesa cattolica e il popolo d'Israele

  1. 344 pagine
  2. Italian
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Roma e Gerusalemme

La Chiesa cattolica e il popolo d'Israele

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«Questo libro è una sorta di sintesi storica e ideologica del rapporto tormentato tra l'ebraismo e il cristianesimo. Vengono messi in evidenza i punti nodali della storia che hanno segnato il destino delle due confessioni e il modo in cui ciascuna li ha vissuti, nelle elaborazioni autonome e nel rapporto con l'altra.
Lo sforzo è di dimostrare, accanto al dato che appare spesso in tutta la sua crudezza, la possibilità di una rilettura e di una reinterpretazione: il passato non viene nascosto né sottovalutato, ma si fa in modo che non diventi un macigno insormontabile che blocca ogni possibilità di evoluzione futura positiva.»

Riccardo Di Segni
Rabbino Capo di Roma

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852011542

Parte quarta
Percorsi messianici

I

Mentsh

Un argomento di fondamentale importanza per la difesa dei diritti umani e per la libertà religiosa sta per essere discusso a Milano, il 6 settembre 1982, nell’antico Seminario di Corso Venezia, fatto costruire cinque secoli prima da san Carlo Borromeo per attuare i decreti del Concilio di Trento. L’arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini, autorevole promotore del dialogo con gli ebrei, ha invitato a tenere qui la X sessione plenaria del Comitato internazionale di collegamento cattolico-ebraico (ILC), dedicata al tema della «Santità e valore della vita umana nell’attuale contesto di violenza». I vari delegati, tra questi Jean Halpérin ed Emmanuel Lévinas, si sus­seguono negli interventi, quando tra il silenzio attento un signore distinto si alza e prende la parola con voce calma ma fremente di interiore passione. Il tono rivela un’intima convinzione di integrità, mentre sottolinea che per un ebreo essere religioso significa impegnarsi con forza nel promuovere la giustizia, la pace e i valori culturali, opporsi alla violenza, all’antisemitismo e al terrorismo nel mondo, difendere la libertà religiosa e avere a cuore i buoni rapporti fra Israele e la Santa Sede.
Ascoltando per la prima volta la testimonianza di quest’uomo già avanti negli anni, ma vigoroso, sereno e determinato, ho l’impressione di trovarmi di fronte a una persona integra e retta, di una franchezza senz’ambiguità, quello che in yiddish si direbbe mentsh: era Gerhart M. Riegner. Quando i delegati del Comitato congiunto vennero in visita all’Ambrosiana – dove qualche decennio prima due studiosi, poi papi, Achille Ratti (Pio XI) e Angelo Giuseppe Roncalli (Giovanni XXIII) avevano insieme condotto i loro studi – mentre mostravo loro gli splendidi codici ebraici miniati, non avrei certo immaginato che i nostri percorsi si sarebbero di nuovo intrecciati sulla via del dialogo promosso e incoraggiato da papa Giovanni Paolo II.
Qualche anno dopo il cardinale Johannes Willebrands, una delle più eminenti guide del movimento ecumenico e dei rapporti ebraico-cristiani dopo il Concilio Vaticano II, chiese all’arcivescovo di Milano di consentire a inviarmi a Roma per servire come segretario della Commissione della Santa Sede per i rapporti religiosi con l’ebraismo. Così, durante sette anni, lavorando nell’ufficio di via dell’Erba o visitando numerose nazioni, in particolare nell’Europa orientale che stava scuotendosi dal giogo sovietico, era quasi una regola per me cooperare strettamente con il dottor Riegner e i suoi più vicini collaboratori: Fritz Becker a Roma, Jean Halpérin e Ruthy Alcheh a Ginevra, Leon A. Feldman a New York. Quest’ultimo, divenuto segretario dell’International Jewish Committee on Interreligious Consultations, si è dedicato per quasi un ventennio al dialogo ebraico-cristiano che ha compiuto grandi passi grazie agli sforzi congiunti di molti uomini e donne, laici e religiosi, di associazioni e organismi ecclesiali o internazionali, tra cui il Consiglio Ecumenico delle Chiese e l’Amicizia Internazionale ebraico-cristiana (International Council of Christians and Jews).
Diritti umani, pace e dialogo
Tutti i temi principali del dialogo erano costantemente aggiornati nell’agenda di Riegner, e prima ancora nel suo cuore appassionato e nella sua valutazione attenta e acuta; ma ciò che più contava ai miei occhi era e resta quello sguardo intenso e universale – cioè «cattolico» ed «ecumenico» – con cui egli sapeva prendersi cura di ogni concreta situazione di sofferenza umana, di ingiustizia e violazione dei diritti di ogni persona. Senza scordare il peso grave della memoria e della storia, guardava sempre al futuro con incrollabile speranza, facendo appello, senza mai arrendersi, perché si unissero le comuni risorse ed energie sia entro che fuori dei confini delle diverse comunità di fede, dei popoli e delle culture. Gerusalemme, Auschwitz e Ginevra furono tra i luoghi d’incontro più frequenti, nello sforzo di dare seguito al sogno dei padri del concilio quando scrissero la Dichiarazione Nostra aetate.
La continuazione delle sessioni plenarie dell’ILC fu una delle nostre costanti occupazioni. Questo comitato, definito dal cardinale Willebrands nel 1985 «il solo organo ufficiale di comunicazione fra la Santa Sede e la comunità ebraica, un simbolo e uno strumento effettivo di rapporto» fra Chiesa cattolica ed ebraismo mondiale, ha svolto dal 1970 un’opera preziosa e insostituibile. Quando nel 1984 in Polonia scoppiò una dolorosa controversia, generata dalla fondazione di un convento carmelitano nell’area del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, Riegner dispiegò tutta la sua energia per far comprendere ai molti interlocutori e amici cattolici che era necessario rispettare con il silenzio la memoria di tutte le vittime della Shoà e della barbarie nazista. Ci volle una lunga e paziente opera di convinzione, durata un decennio, e infine una lettera del papa alle «care suore» del carmelo, nel 1993, per concludere l’annosa vicenda con il collocamento del monastero in una più adatta sede, e con la fondazione di un Centro di educazione e dialogo a Oswiecim.
Non meno tenace fu l’azione che Riegner svolse a Gerusalemme nel maggio 1991, mentre si avviava decisamente il superamento dell’impasse nei primi rapporti ufficiali tra le rappresentanze pontificia e israeliana, adoperandosi anche alla soluzione di questo problema. Sempre pronto a cogliere con discrezione qualunque opportunità per favorire incontri che contribuissero ad accrescere la mutua fiducia e comprensione, sapeva tessere reti che servivano da basi per migliorare le relazioni fra i popoli e le nazioni. Anche in questo caso, l’occasione fu fornita dalla IX assemblea plenaria del Congresso mondiale ebraico, che si teneva a Gerusalemme sotto la presidenza di Edgar Bronfman, una circostanza che offrì numerose possibilità per incontri informali di alto livello. Grazie all’atmosfera costruttiva che ne scaturiva, maturava così il tempo per un incontro istituzionale tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele.
Radici amare
A Roma la domenica 30 agosto 1987 è una calda e quieta giornata che ancora vede la città semideserta, addormentata nel caldo estivo, in attesa che qualche ventata di ponentino rechi la tanto sospirata frescura serale. Non sono molti al lavoro, neppure fra i più stakanovisti del Vaticano, eppure qualche eccezione è richiesta per la preparazione dell’imminente viaggio apostolico che il papa tra pochi giorni inizierà negli Stati Uniti. Una preoccupazione in più viene dalle recenti tensioni – non è una novità – che agitano le acque dei rapporti con le organizzazioni ebraiche mondiali: stavolta, le inquietudini principali durante l’estate erano causate dall’udienza papale concessa al presidente austriaco Kurt Waldheim, sospettato di collaborazione con i nazisti, e più in generale da una certa impressione che si volesse «banalizzare» o cristianizzare la Shoà. Oltre a questo, non solo l’irrisolta questione del convento carmelitano nel «Vecchio Teatro» di Auschwitz, dove i tedeschi avevano immagazzinato il gas di sterminio zyklon B, ma anche la beatificazione di Edith Stein a Colonia, alcuni mesi prima, il 1° marzo 1987, avevano suscitato amarezza e critiche a motivo delle origini ebraiche della suora carmelitana, deportata e uccisa ad Auschwitz come milioni di altri ebrei, e ora proposta come modello di martire della fede cattolica.
Per questi motivi, dopo uno scambio di lettere pubbliche, il rabbino Mordechai Waxman, presidente del Consiglio delle Sinagoghe d’America e moderatore dell’International Jewish Committee on Interreligious Consultations, e il cardinale Willebrands, presidente della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, si sono accordati per convocare una riunione straordinaria di delegati ed esperti – una ventina in tutto – che ha assunto la veste di una sessione speciale del Comitato internazionale di collegamento cattolico-ebraico. Gli incontri sono previsti il 31 agosto e il 1° settembre, e l’attesa è vivissima per la modalità che si vorrebbe conferire all’incontro con il papa, a Castelgandolfo, sotto forma di libera conversazione aperta sui vari argomenti. Inusuale è anche il fatto che, con un’iniziativa originale, Waxman e Willebrands agendo di fatto come co-moderatori, allo scopo di indirizzare e organizzare gli incontri dei due giorni seguenti, decidono di riunirsi preventivamente nella casa romana del cardinale, in piazza della Città Leonina, il pomeriggio della domenica 30 agosto.
Il grido silenzioso della Shoà
Il dottor Riegner, infaticabile animatore di questi incontri, accompagna il rabbino Waxman, mentre accanto al cardinale siedono padre Pierre Duprey, vicepresidente della commissione vaticana, e io, che ne ero il segretario. Beatrice, l’anziana domestica del cardinale, ci serve amabilmente di the o caffè, accompagnati dalle sue tradizionali dolcezze maceratesi. È da questa conversazione che scaturirà la convinzione di Willebrands, di preparare un documento ufficiale sulla Shoà e l’antisemitismo, ed ecco come ne nacque l’idea. Fu Riegner che, intervenendo dopo aver sottolineato l’importanza di compiere un passo nuovo sulla strada del dialogo, con tono pacato ma insieme vibrante e pieno di sofferta memoria, venne al punto sostanziale: per dissipare le inquietudini e la sfiducia che agitano le comunità ebraiche riguardo alla sincerità del dialogo, e confermare l’autorevole orientamento che il papa continuamente dà con il suo magistero, come ha fatto di recente a Varsavia, il tempo è maturo per un documento della Chiesa – forse anche un’enciclica – che affronti in modo complessivo i gravi temi della Shoà e dell’antisemitismo, nelle sue radici storiche e religiose, aspetti che sono in qualche modo collegati con la storia e con il futuro dei rapporti ebraico-cristiani. «Tuttavia – conclude – non si tratta di un progetto che noi ebrei possiamo suggerirvi o chiedervi di considerare, solo voi potete prendere autonomamente una simile iniziativa, che però avrebbe certamente anche un effetto straordinariamente positivo sull’ebraismo mondiale; in particolare, se annunciata ora, alla vigilia del viaggio papale negli Stati Uniti, la decisione impressionerebbe profondamente e positivamente le grandi e vivaci comunità ebraiche americane, oggi agitate da dubbi e critiche su ciò che la Chiesa pensa della Shoà».
Riegner si interrompe, visibilmente scosso dalla commozione nel ricordo della Shoà. Forse ripensa alla lettera che Edith Stein scrisse nel 1933 a Pio XI, per chiedergli di levare la sua forte voce contro l’antisemitismo, o all’analogo suggerimento che nel 1945 intellettuali cattolici avevano egualmente sottoposto a Pio XII, entrambi allora disattesi. Ma ora i tempi sono cambiati. C’è solo un breve silenzio pieno di qualcosa d’intenso, di un’attesa gravida, di un peso di memorie, come prima di riconoscersi dopo una lunga assenza. Ma è poco più di un attimo: le parole di deciso assenso di Willebrands risuonano brevi e meditate, quasi come a colmare un’attesa antica, a rispondere a un gesto di fraterna fiducia e di verità, forte come un grido. Il cardinale le ripeterà poco dopo al papa, che vivamente desideroso di partecipare di persona a questo dialogo ci aveva premurosamente invitati alla sua tavola. Due giorni dopo Giovanni Paolo II, incontrando i delegati ebrei e i partecipanti cattolici, a Castelgandolfo, accoglie la notizia da parte del cardinale e la commenta, affermando l’importanza del futuro documento su Shoà e anti­semitismo, e ribadisce che la memoria ebraica della Shoà è «un ammonimento, una testimonianza, un grido silenzioso» rivolto alla Chiesa e a tutta l’umanità.
Una piaga che ancora sanguina
La reazione immediata di Willebrands non si spiega senza le solide fondamenta di un pensiero maturato lungamente, prima nelle dure esperienze delle persecuzioni naziste in Olanda, durante la guerra e l’occupazione tedesca, poi in decenni di dialogo e di riflessioni sull’antisemitismo e sulle radici cristiane dell’antigiudaismo attraverso i secoli. Alcuni anni prima, a Oxford, nel 1985 aveva affrontato l’argomento chiedendosi: «Il Nuovo Testamento e la cristianità sono antisemiti?», e pur ammettendo gravi errori storici nell’insegnamento e nella prassi antigiudaica da parte dei cristiani, egli riteneva che in sostanza la risposta da dare fosse negativa. Nonostante il dibattito su queste tematiche durasse da tempo, la preparazione dell’annunciato documento non sarebbe stata né breve né facile, e avrebbe richiesto più tempo di quello che si era inizialmente immaginato.
Ci vollero undici anni, tre sessioni plenarie del Comitato internazionale di collegamento (ILC), e un colloquio intra-ecclesiale specificamente dedicato allo studio delle «Radici dell’antigiudaismo in ambiente cristiano», prima di raggiungere conclusioni pubbliche, nella forma di due o più documenti e pronunciamenti ufficiali da parte cattolica su questi argomenti. Il documento cattolico più noto e significativo è stato senza dubbio quello firmato dal cardinale Edward Idris Cassidy nel 1998 Noi ricordiamo: una riflessione cristiana sulla Shoà, tuttavia occorre menzionare almeno anche le precedenti riflessioni a riguardo dell’antigiudaismo, dell’antisemitismo e dell’antisionismo, contenute nell’ampio documento su La Chiesa di fronte al razzismo, pubblicato nel 1988 dal Pontificio consiglio giustizia e pace, presieduto dal cardinale Roger Etchegaray. In quest’ultimo documento, Etchegaray dichiarava con chiarezza che anche talune forme di antisionismo in realtà sono espressioni di antisemitismo.
Tra gli altri testi ecclesiali che in questi ultimi tempi hanno trattato alcuni aspetti dell’atteggiamento negativo di parte cristiana nei confronti del popolo ebraico durante i secoli, vanno pure inclusi il più recente documento della Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, e un lungo articolo del cardinale Walter Kasper su Antisemitismo: una piaga da guarire. Tutti questi sforzi convergono nell’impegno per sradicare le radici amare di una pianta che appare simile a un parassita pericoloso, capace di soffocare e avvelenare la robusta ripresa di sempre più fraterni rapporti fra ebrei e cristiani, figli entrambi della fede dei patriarchi e della speranza dei profeti d’Israele.

II

Spiritualmente semiti

Il grande cambiamento introdotto nei rapporti ebraico-cristiani dal Concilio Vaticano II nel 1965 aveva avuto, sessant’anni prima, alcuni anticipatori nell’ambiente letterario e spirituale del conciliatorismo e del modernismo. Questi profeti erano rimasti allora inascoltati, perché la loro voce si era unita a un analogo appello di rinnovamento cattolico proveniente dall’altra sponda dell’Atlantico, e che veniva sospettato di eresia, al pari del modernismo.
Antonio Fogazzaro, il giovanissimo conte Tommaso Gallarati Scotti, monsignor Luigi Vitali direttore dell’Istituto dei Ciechi di Milano, la giovane contessa Sabina di Parravicino Ravel, monsignor Geremia Bonomelli, sono alcuni tra i molti che vedono, nel cattolicesimo progressista americano di fine secolo, una corrente di idee preziose per il conciliatorismo italiano. Questa continuità ideale che unisce cattolici europei e americani viene spezzata quando Leone XIII interviene a condannare l’americanismo teologico, il 22 gennaio 1899, e più tardi quando Pio X con l’enciclica Pascendi nel 1907, mentre ripudia il modernismo, sconfessa anche i princìpi degli americanisti.
Filosemiti
Achille Ratti, amico di modernisti e consigliere spirituale del giovane conte Tommaso, condivideva le idee di «filosemiti» come il barnabita Giovanni Semeria e il vescovo di Cremona Geremia Bonomelli, i quali non nascondevano certo le loro simpatie verso gli ebrei. Il Semeria nei primi anni del Novecento aveva apertamente sostenuto tesi che allora suonavano contrarie all’opinione pubblica più comune, e che diventeranno generalmente accettate dalla dottrina cattolica solo dopo il Concilio Vaticano II. Opponendosi all’antisemitismo, nella sua opera Il primo sangue cristiano sosteneva che «per molti che siano stati i torti degli ebrei verso il cristianesimo, non ci danno, se cristiani, il diritto di odiarli – voi sapete che per noi è legge il perdono. Il quale non ci diverrà che agevole, se rifletteremo di quanto agli ebrei siamo debitori. Il vecchio panegirico che ne tesseva Paolo nella Lettera ai Romani non ha cessato e non cessa d’esser vero: “Ad essi appartiene l’adozione di figli, la gloria, il testamento, la legge e le promesse; da loro secondo la carne è uscito il Cristo, Dio benedetto nei secoli”».
Ancor più audacemente arrivava a introdurre il concetto di semitismo all’interno della rivelazione cristiana ricordando che: «Il soffio cristiano è un soffio semita; Gesù è nato e cresciuto fuori delle nuove idee e dei nuovi affetti che s’elaboravano nella coscienza pagana... Anche Paolo fu un semita, semita di spirito e da buon semita educato». Altrettanto si può dire per il campo della morale: «La morale cristiana vien su nobile e pura di per se stessa, sgorga dalla coscienza di Gesù e qui, nonché il pensiero, la veste stessa rimane strettamente semitica». In definitiva, secondo il Semeria, precursore in ciò del pensiero contemporaneo, «esser giudeo o cristiano non appaiono agli apostoli come due termini contraddittori, quali poi diventeranno».
In quegli stessi anni G. Bonomelli riprendeva con nuovo vigore le medesime tesi semeriane, che nelle sue opere ebbero più vasta eco e diffusione, e riassumendo nel libro Tre mesi al di là delle Alpi la sua opposizione all’antisemitismo articolata in tre punti:
1. Non è da uomini ragionevoli e molto meno da cristiani odiare gli ebrei ed aizzare l’opinione pubblica contro di loro perché sono ebrei: per noi uomini e cristiani non ci sono razze che si possano mettere al bando del genere umano; 2. Per noi cristiani la progenie d’Israele ha titoli particolari, indimenticabili, alla nostra simpatia ed alla nostra gratitudine; 3. Se gli ebrei sono colpevoli di quei delitti, dei quali si accusano, si faccia la luce: si sceverino i colpevoli, si convincano e sopra di loro cada pure il peso della legge; ma nel biasimo e nella condanna non si involgano rei ed innocenti e tutta la razza: non sia mai che ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Ascolta, Israele
  5. PARTE PRIMA - Madri e padri
  6. PARTE SECONDA - Eredità spartita
  7. PARTE TERZA - Notte e speranze
  8. PARTE QUARTA - Percorsi messianici
  9. Postfazione di Riccardo Di Segni
  10. Bibliografia scelta
  11. Indice