Ammazzate quel fascista!
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Ammazzate quel fascista!

Vita intrepida di Ettore Muti

  1. 228 pagine
  2. Italian
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Ammazzate quel fascista!

Vita intrepida di Ettore Muti

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Ettore Muti, ex segretario del partito fascista, fu trovato cadavere con una pallottola alla nuca nella pineta di Fregene il 24 agosto 1943. Sulle ragioni dell'unico delitto eccellente che funestò i famosi "45 giorni di Badoglio" (25 luglio - 8 settembre 1943) si sollevò un gran polverone in cui convivevano le ipotesi più diverse e contraddittorie.
Quarant'anni, spavaldo, violento, coraggioso, maschilista, amante rapace "più bello di Rodolfo Valentino", riassumeva tutte le caratteristiche del camerata "perfetto".
Votato all'avventura per l'avventura, senza pregiudizi ideologici o morali, fin dalla prima adolescenza non mancò a nessun appuntamento con la guerra. A quattordici anni combatté con gli Arditi sul Piave, a sedici seguì d'Annunzio a Fiume e poi, dopo la marcia su Roma, partecipò come aviatore spericolato alla campagna d'Abissinia, alla guerra di Spagna, alla conquista dell'Albania e infine al secondo conflitto mondiale, guadagnandosi una quarantina di decorazioni. Per i suoi meriti "guerrieri", Mussolini lo nominò nel 1939 segretario del partito al posto di Starace. Ma il mestiere del funzionario e del burocrate non si addiceva a un uomo d'azione così ribelle, leale, impolitico e persino onesto.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852012938
Argomento
History
Categoria
World History

XI
UN CADAVERE INGOMBRANTE

Il 24 agosto 1943, l’agenzia nazionale di stampa Stefani mise a rumore tutte le redazioni con il «lancio» del seguente dispaccio:
Questa notte, nei dintorni di Roma, è deceduto l’ex segretario del disciolto partito fascista Ettore Muti, medaglia d’oro al valor militare della guerra di Spagna.
La notizia apparve sui giornali dell’indomani con un titoletto su una colonna e senza una riga di commento. Il giorno successivo la Stefani eseguì un secondo «lancio» meno stringato del primo:
A seguito di accertamento di gravi irregolarità nella gestione di un ente parastatale, nel quale risultava implicato l’ex segretario del partito fascista Ettore Muti, l’Arma dei Carabinieri procedeva nella notte dal 23 al 24 corrente al fermo del Muti a Fregene. Mentre lo si conduceva alla caserma sono stati sparati dal bosco colpi di fucile contro la scorta. Nel momentaneo scompiglio egli si dava alla fuga, ma, inseguito e ferito da colpi di moschetto tirati dai carabinieri, decedeva.
Un’altra informazione ufficiale, diramata alcune ore più tardi, contrastava con le precedenti:
Stamane è stata trasportata all’ospedale militare del Celio con un’autoambulanza la salma del tenente colonnello Ettore Muti. Il Muti è stato colpito alla nuca da un colpo di arma da fuoco. L’autorità giudiziaria ha iniziato pronte indagini per far luce sulla misteriosa morte.
Con queste tre comunicazioni scarne, contraddittorie e confuse veniva liquidato l’unico delitto eccellente compiuto in Italia durante i tormentati «45 giorni di Badoglio». Se qualcuno avesse avuto dubbi sulla fine di Muti, sarebbero certamente bastate quelle poche righe per far intendere che la verità era probabilmente l’opposto di quanto si voleva far credere. Ossia che si trattava di un omicidio comandato per togliere di mezzo un personaggio scomodo o pericoloso. Ma si era in tempo di guerra, la stampa era controllata, ai giornalisti non era consentito svolgere indagini e tutto venne sbrigato alla svelta e senza clamori. Si diede per scontato che Muti era stato ucciso mentre tentava la fuga; i risultati della frettolosa inchiesta non furono resi noti; nessuno rivelò qual era l’ente parastatale coinvolto nelle «irregolarità» e non furono naturalmente resi noti i nomi dei componenti la pattuglia mandata ad arrestarlo.
Due giorni dopo Muti fu sepolto senza onori, sebbene si trattasse di un eroe di guerra. La salma era stata trasferita nottetempo al cimitero del Verano e venne tumulata alle 15 alla presenza di una ventina di persone, tra le quali la moglie, la figlia, le sorelle, qualche amico e due passanti che si erano uniti al mesto corteo quando avevano saputo che si trattava del funerale di Ettore Muti. A mamma Celestina, rimasta a Ravenna e già in ansia perché il 24 agosto, giorno del suo compleanno, non aveva ricevuto il consueto telegramma d’auguri che Ettore, ovunque si trovasse, non aveva mai dimenticato di inviarle, era stato detto che il figlio era morto a Bengasi, per cause di guerra (soltanto dieci anni dopo scoprirà, per puro caso, la verità leggendo un giornale). Si racconta inoltre che, mentre la bara veniva calata nella fossa, un aereo rimasto sconosciuto, dopo aver volteggiato sopra il cimitero, scese a bassa quota e lasciò cadere una corona di fiori. Ma di questo episodio, come della cerimonia funebre e del prosieguo delle indagini, non fu data alcuna notizia dai giornali e sul caso Muti cadde rapidamente il silenzio. Per il governo Badoglio quella sporca storia andava dimenticata al più presto.
Negli ambienti più ristretti della capitale, però, la notizia della morte di Muti destò scalpore, proteste e risentimenti. Appena ne fu informato, il questore Benedetto Norcia, amico intimo dell’ucciso, sentendosi «colpevole» per aver stabilito i contatti fra Muti e Senise, presentò indignato le proprie dimissioni. Fu colto di sorpresa persino il capo della polizia, anche se la cosa appare piuttosto strana, considerato l’incarico da lui ricoperto. Ma che si sia trattato effettivamente di uno stupore sincero lo documenta un’infuocata telefonata mattutina intercorsa fra Carmine Senise e il ministro degli Interni Umberto Ricci. Questo è il testo integrale della conversazione registrata dallo SSR poche ore dopo la consumazione del delitto.
Roma, 24 agosto 1943, ore 8.10.
Parla S.E. Senise.
Parla S.E. Ricci.
Senise: Buongiorno, Eccellenza.
Ricci: Caro Senise...
Senise: Il questore mi ha informato che questa notte a Fregene i carabinieri hanno sparato su Muti che, vistosi circondato, è scappato.
Ricci: Già...
Senise: E voi credete che il Capo della polizia deve essere l’ultimo a ricevere una notizia del genere?
Ricci: È strano...
Senise: Strano o non strano, io mi recherò immediatamente dal maresciallo Badoglio a presentargli le mie dimissioni!
Ricci: Mah...
Senise: Io sono un uomo tutto d’un pezzo e non ho mai macchiato il nome onorato che porto. Ho servito tutti i governi essendo un fedele servitore della Stato, ma non ho mai commesso carognate del genere! Anche al povero morto ho sempre cercato di venire incontro, perché, parlando tra noi, sono sempre stato convinto che, pur trattandosi di un individuo esaltato, in confronto a tanti altri era nu galantuomo.
Ricci: Si è certamente esagerato.
Senise: Siccome chi dovrebbe dare certi ordini è il Capo della polizia e quel fesso sono io, vorrei sapere chi leverà dalla testa della gente, per lo meno in gran parte, che la colpa è mia, mentre io, invece, non ne saccio proprio ’o riest ’e niente!
Ricci: Calmatevi, don Carmine: Voi siete una persona al di sopra di ogni sospetto, e la morte del povero Muti sarà certamente dovuta a tragica fatalità. Comunque, appena arriva il Maresciallo, gli farò presente quanto mi avete riferito.
Senise: Grazie e perdonatemi lo sfogo.
Aria diversa si respirava invece quella mattina nello studio di Pietro Badoglio al Viminale. A portargli la notizia era stato il generale Giacomo Carboni, che nelle sue memorie, rievocando quell’incontro, sembra scandalizzarsi per la reazione soddisfatta del Maresciallo all’annuncio dell’uccisione di Muti. Non manca infatti di esprimere per l’accaduto sentimenti di contrizione e di pietà che appaiono, a dir poco, sorprendenti visto che era stato Carboni a convincere Badoglio dell’esistenza del «complotto», nonché a organizzare l’operazione di polizia conclusasi poi a quel modo. Ma ecco cosa racconta Carboni:
Quando la mattina, dopo avere ricevuto di buonora la relazione di Cerica, mi presentai al Viminale per comunicare la notizia a Badoglio, il Maresciallo non nascondeva la propria esultanza e la esprimeva con espansioni non in armonia con il doloroso incidente verificatosi, nel quale un soldato aveva perso la vita. Sul fatto egli fece pubblicare un comunicato di contenuto inopportuno, anche perché rivelava dell’acredine, e per il quale mi recai a protestare. Ne venne allora preparato un altro, che risultò peggiore del primo, ma che, fortunatamente, non venne diramato. Il Capo della polizia, Senise, tentò di inscenare sulla morte di Muti una strana e torbida manovra, tanto improvvisa da farla sospettare premeditata, e che troncai con un brusco intervento durante una riunione alla presenza del ministro Ricci.
La «torbida manovra» sarebbe consistita nel fatto che il ministro Ricci, dopo la morte di Muti, aveva convocato nel suo ufficio i generali Cerica e Carboni e, in presenza di Senise, li aveva ammoniti a non procedere più per conto proprio, perché la direzione delle operazioni di polizia politica era di esclusiva competenza del ministro dell’Interno. «Dopo di che» racconterà Senise «il ministro Ricci pregò Carboni di comunicargli gli elementi raccolti a carico di Muti e le prove del “complotto” fascista da lui stesso denunciato. Ma Carboni rifiutò.»
Come si può facilmente dedurre da queste testimonianze contrastanti, uno dei due non raccontava la verità e si è portati a credere che il bugiardo non fosse il capo della polizia. Senise, come sappiamo, non riteneva Muti pericoloso e aveva sempre rifiutato di credere al fantomatico complotto fascista denunciato da Carboni. Ma a questo punto va anche detto, per correttezza, che il capo della polizia, pur ritenendo Carboni responsabile del «pasticciaccio» di Fregene, respingeva l’ipotesi del delitto premeditato. «È impossibile credere» osserverà infatti Senise nel dopoguerra, quando il caso sarà riesaminato «che se si pensava di sopprimere Muti, i carabinieri si regolassero con tanta superficialità e leggerezza, agendo di notte e in una pineta popolata. C’erano mille altri sistemi più comodi, meno chiassosi e infinitamente più sicuri per far trovare il cadavere di Muti in un luogo qualunque, con una sventagliata di mitra nel petto.»
Per la verità, a parte l’evidente gioco a scaricabarile messo in atto da Carboni, nonché le versioni ingarbugliate e contraddittorie che vennero diffuse, forse si potrebbe anche condividere l’opinione del capo della polizia, secondo il quale l’uccisione di Muti sarebbe stata accidentale. Ma non si può non tener conto del momento particolare in cui si verificò il tragico episodio e della fretta e della paura che attanagliavano i suoi ispiratori.
Il magistrato militare incaricato di condurre l’inchiesta era il colonnello Antonio Quartulli, un noto penalista richiamato alle armi nel 1942 e nominato procuratore generale del Tribunale militare territoriale di Roma. La mattina del 24 agosto, Quartulli fu convocato d’urgenza all’ospedale militare del Celio e condotto nella sala mortuaria dove giaceva, su un tavolo di marmo, il cadavere di un uomo di alta statura che indossava l’uniforme estiva di ufficiale dell’aeronautica. «Aveva quattro file di decorazioni sul petto» ricorderà Quartulli «e riconobbi immediatamente Ettore Muti.» Dopo aver fatto spogliare il cadavere, il magistrato rinvenne della sabbia marina nei risvolti dei pantaloni e ne raccolse un campione. Poi esaminò a lungo il corpo constatando che non presentava tracce di violenza né segni di colluttazione. L’esame della testa rivelò invece una vasta ferita nella regione della nuca. «Due proiettili di mitra» preciserà l’esaminatore «avevano attraversato il cranio dal basso verso l’alto riunendosi così da formare un unico foro ed erano usciti insieme dalla fronte aprendo una vasta ferita e forando la visiera del berretto.» Un foro «unico» di entrata era visibile anche sulla parte posteriore del berretto. «Stabilii» conclude Quartulli «che i colpi non erano stati sparati a bruciapelo.»
Volutamente o no, il magistrato trascurò di considerare un particolare sconcertante, che certamente non sarebbe sfuggito a un investigatore più attento o più volenteroso. Infatti, il foro «unico» prodotto dai due proiettili stava a dimostrare che i colpi, ammesso che non fossero stati sparati a bruciapelo, dovevano comunque essere stati messi a segno da una mano ferma su un bersaglio immobile: un uomo in fuga non può essere colpito nello stesso punto con tanta precisione. Ma questa «stranezza» non venne rimarcata. Non vennero neppure repertati i bossoli dei proiettili che certamente erano sparsi attorno al cadavere.
In seguito il magistrato militare si recò a Fregene. Dopo aver interrogato il brigadiere Barolat, comandante del posto fisso dell’Arma, che aveva fatto da guida alla squadra speciale del tenente Taddei, si recò al villino abitato da Muti in via Colombina. In casa c’erano soltanto la governante Concettina Verità e l’attendente Masaniello. Dana Havlowa, l’amante di Muti, e l’amico di lui Roberto Rivalta erano stati tradotti a Regina Coeli senza un preciso capo d’accusa. Ascoltati i testimoni e ricostruito lo svolgersi dei fatti così come abbiamo raccontato all’inizio di questo libro, Quartulli compì un sopralluogo nello spiazzo in cui era avvenuta l’uccisione. Al riguardo l’inquirente riferisce:
Si trovava nel folto del bosco a circa cento passi dalla casa, e qui feci una scoperta interessantissima: constatai che a circa centocinquanta metri di distanza c’era un accampamento di una compagnia italiana, al comando di un capitano, che aveva piantato le tende colà per la difesa costiera. Poco lontano c’era anche una batteria tedesca agli ordini del capitano Schwarz. Nel punto in cui Muti era caduto, notai sabbia uguale a quella trovata nei pantaloni del morto. Sul terreno c’era ancora un grumo di sangue.
Più tardi il magistrato interrogò il tenente Taddei il quale, dopo aver ricostruito il percorso compiuto quella notte, ripeté la versione ufficiale dei fatti, ossia che i carabinieri, fatti segno da colpi d’arma da fuoco provenienti dalla macchia, avevano reagito all’attacco e che Muti era stato ucciso mentre cercava di fuggire approfittando della situazione confusa venutasi a creare. Quartulli interrogò successivamente il tenente di fanteria Gugliotta, che faceva parte della compagnia accampata nella pineta. «Uditi degli spari,» dichiarò l’ufficiale «il capitano mi mandò con una pattuglia a ispezionare la macchia e altrettanto fecero i tedeschi dalla parte del mare: temevamo un sbarco di americani. Durante l’ispezione incontrai Taddei: mi spiegò che Muti era stato ucciso perché fuggiva.» Anche il comandante tedesco confermò di aver udito gli spari e di aver inviato i suoi uomini in perlustrazione, convinto che si trattasse di un tentativo di sbarco nemico, ma rifiutò di firmare il verbale dichiarando di non essere «autorizzato a sottoscrivere documenti che interessano gli italiani».
Proseguendo gli interrogatori, Quartulli raccolse le deposizioni di tutti i carabinieri che avevano partecipato all’operazione notturna e «furono tutti concordi nel raccontare che mentre scortavano Muti ai margini del bosco, erano stati sparati dalla macchia alcuni colpi d’arma da fuoco. Un po’ intimoriti, sapendo che i tedeschi si trovavano nei dintorni, s’erano buttati a terra. La notte era buia, senza luna: i carabinieri risposero al fuoco, accettando quello che sembrava l’inizio di un combattimento». «Ad un tratto» è sempre Quartulli che racconta «il tenente Taddei, per timore che i suoi uomini si ferissero fra loro, ordinò il cessate il fuoco. Fu a questo punto che Muti fece un balzo, si mise a correre verso il bosco e una sventagliata di mitra dei carabinieri l’abbatté.» Purtroppo il magistrato inquirente trascurò altri dettagli che sarebbero certamente risultati utili all’inchiesta. Per esempio, non ritenne necessario far cercare nella macchia i bossoli dei proiettili sparati dai presunti attaccanti e trascurò anche di esaminare le armi in dotazione ai carabinieri impegnati nella sparatoria. Quei militi erano tutti armati di moschetto modello 38: soltanto il tenente Taddei, il maresciallo Ricci e lo sconosciuto con la tuta kaki erano armati di mitra Beretta calibro 9 lungo. E Muti era stato ucciso da due colpi di mitra calibro 9 lungo...
Fra i testimoni interrogati da Quartulli figurava anche il conte Ugo Sani Navarra, generale di corpo d’armata a riposo e senatore del regno. Sua figlia, presente ai fatti, rilasciò in seguito la seguente deposizione:
Nell’agosto del 1943 abitavo con mio padre nel nostro villino di Fregene. Sapevo della presenza di Ettore Muti a cinquecento metri da noi, ma non l’avevo mai incontrato perché egli faceva vita molto ritirata e prendeva il bagno in un punto deserto della spiaggia. Mio padre ne parlava spesso con simpatia trattandosi di uno dei più valorosi soldati d’Italia. La prima volta che lo vidi fu un giorno poco prima del Ferragosto 1943. Il brigadiere Barolat del posto fisso di Fregene aveva detto a mio padre che Muti desiderava vederlo. Mio padre lo fece venire subito ed il colloquio si svolse nel giardino. Ricordo che Muti si lamentò di essere sottoposto a vigilanza e pregò papà di sentire a Roma se ci fosse qualcosa a suo riguardo. Mio padre si recò l’indomani dal Capo della polizia Senise e al ritorno disse che questi lo aveva rassicurato, mostrandogli un foglio di ex gerarchi ritenuti pericolosi e che il nome di Muti fra questi non figurava. Mio padre riferì a Muti tali assicurazioni e le comunicò anche al brigadiere Barolat il quale rimase meravigliato perché le assicurazioni di Senise contrastavano con l’ordine che egli viceversa aveva di continuare la vigilanza. Fino alla tragica notte fra il 23 e il 24 di Muti in casa non si parlò più.
Il nostro villino è a pochi passi dal punto esatto in cui si svolse il fatto e quella notte fummo svegliati di soprassalto ai primi spari. Io udii un grido ed un vociare concitato che non distinsi, perché subito coperto da spari più intensi e da scoppi di bombe. Il primo pensiero fu che si trattasse di uno sbarco nemico. La sparatoria infine cessò e tutto tornò silenzio. Mia madre accese la luce e si affacciò alla finestra. Io ero dietro a lei e dalla strada udii una voce che diceva in piemontese: «Sono il brigadiere Barolat. Chiami il generale e chiuda la finestra».
Papà dormiva al piano di sotto ed era già uscito in giardino. A esso si fece innanzi un ufficiale, che si presentò come il tenente Taddei dell’Arma, il quale gli disse di essere stato attaccato dal bosco e che nel conflitto, mentre traduceva in stato di arresto l’eccellenza Muti, questi era caduto ucciso.
L’ufficiale pregò mio padre di andare a riconoscere la salma. Mio padre rispose che avendolo loro arrestato sapevano bene di chi si trattasse e trovava curioso che chiedessero a lui il riconoscimento. Tuttavia mio padre si avvicinò al cadavere di Muti che giaceva riverso con ferite alla nuca. La faccia era sfigurata e imbrattata di sangue e di terra per cui, come ci disse poi, riconobbe Muti più dall’atletica corporatura e dall’uniforme che dal viso.
Mio padre fu molto turbato da questo fatto che gli parve strano fin dal primo momento, tanto più che il tenente Taddei si introdusse in casa nostra salendo fin nelle nostre camere come se cercasse qualcuno che si fosse rifugiato da noi. Mio padre protestò energicamente per quanto era accaduto reclamando un’inchiesta che stabilisse come si erano svolti i fatti. Trovò strano che fosse stato mandato un semplice tenente ad arrestare un colonnello e che, dopo averlo arrestato, lo si portasse a zonzo per il bosco.
Il gruppo con l’ufficiale si allontanò e rimasero due carabinieri a guardia della salma e uno nel nostro giardino. Il carabiniere rimasto da noi era Salvatore Frau,* palafreniere di papà che gli era stato assegnato da tempo, insieme al cavallo, dalla Caserma Pastrengo di Roma. Frau era tutto sconvolto e tremava sotto l’azione di un violento choc. Poiché io ero scesa in giardino, mi chiese delle sigarette che gli offrii. Nessuno di noi poté tornare a letto con l’ossessione di quel morto lì a due passi e con l’incubo nel cuore di una fosca tragedia che non appariva affatto chiara.
Più tardi, verso le 4, io portai ai due carabinieri rimasti di guardia del cadavere una tazza di caffè. Erano pallidissimi e sostavano a distanza dal corpo di Muti sul quale intanto, per pietà, una signora che abitava vicino a noi aveva disteso una coperta. Quando cominciò ad albeggiare, quanti erano stati in un primo momento diffidati a non uscire e a chiudere le finestre, vennero fuori per constatare quanto era accaduto e fra questi ricordo il professor Enrico Sovena, il colonnello Bertoletti, il signor Calabresi e il signor Orazio Meneghin.
Alle ore 5 arrivò un’autoambulanza che caricò il corpo di Muti allontanandosi poi velocemente. I carabinieri, compreso il nostro Frau, si allontanarono anch’essi. Mio padre era molto indignato. Egli in giardino aveva parlato con il carabiniere Frau il quale gli aveva raccontato tutti i particolari del fatto. Particolari che convinsero maggiormente mio padre della esistenza del dolo nella morte di Ettore Muti. Tanto più che è da escludere nella maniera più assoluta qualsiasi attacco di tedeschi o di altre persone. Non era vero che Muti avesse tentato di fuggire. Mio padre si ritirò nel suo studio a scrivere e ci disse che sarebbe poi andato a Roma per protestare.
Alle ore 7 il carabiniere Frau fece ritorno da noi come di consueto per ricevere ordini. Gli fu detto di portare il cavallo alle 8. Il suo stato di abbattimento durava ancora e dava la sensazione che agisse come un automa. Alle 8 Frau non venne; solo più tardi comparve il carabiniere Grazzini per avvertirci che Frau era scappato con il cavallo in preda a grande agitazione. ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Citazione
  5. I. QUELLA NOTTE A FREGENE
  6. II. UN FASCISTA PERFETTO
  7. III. L’AVVENTURA FIUMANA
  8. IV. L’INCONTRO CON MUSSOLINI
  9. V. DUE COLPI DI PISTOLA
  10. VI. LA BEFFA DI ADDIS ABEBA
  11. VII. DALLA GUERRA DI SPAGNA AL VERTICE DEL PARTITO
  12. VIII. È ARRIVATO IL CASTIGAMATTI
  13. IX. LA RICOMPARSA DI ARA
  14. X. LA STAGIONE DEGLI INGANNI
  15. XI. UN CADAVERE INGOMBRANTE
  16. XII. SETTE ANNI DOPO
  17. BIBLIOGRAFIA
  18. RINGRAZIAMENTI
  19. INDICE DEI NOMI