Disputa su Dio e dintorni
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Disputa su Dio e dintorni

  1. 280 pagine
  2. Italian
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Disputa su Dio e dintorni

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In queste pagine il non credente Corrado Augias e il credente Vito Mancuso si sfidano in una sorta di disputa d'altri tempi. Si parla di Dio, naturalmente, come dichiara il titolo del libro. Ma anche della vita; più precisamente la vita di ogni giorno, con gli interrogativi etici ed esistenziali ai quali tutti siamo chiamati a rispondere. Un dialogo serrato e stimolante in cui, partendo dal problema di tutti i problemi, Dio, la sua esistenza, la sua importanza per la vita, si affrontano i temi più disparati: l'evoluzione, il rapporto fede-scienza, l'eutanasia, l'accanimento terapeutico, lo scandalo del male, l'illuminismo, il Gesù storico, la Madonna e i suoi dogmi, la Trinità, le ingerenze politiche della Chiesa. Il più grande filosofo laico del Novecento italiano, Norberto Bobbio, diceva che «la vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa». Questo libro si rivolge a tutti coloro che vogliono pensare.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852010132
Parte seconda

DIO (E ALTRI MISTERI)

Molti altari, un solo granellino d’incenso

AUGIAS: Abbiamo cominciato questa discussione o disputa parlando di molte realtà terrene, compresa la realtà della Chiesa. Potevamo seguire un percorso diverso, invece è andata così. Un po’ per logica derivazione di un argomento da un altro; un po’, a mio parere, per caso; un po’ perché la realtà della Chiesa e la sua azione nel mondo, in particolare in Italia, sono da qualche tempo molto visibili, anzi, così visibili da aver riaperto alcune ferite e riacceso vecchie polemiche che sembravano essersi esaurite più o meno alla metà del XX secolo. In parole povere, abbiamo cominciato questa disputa parlando dei «dintorni» invece che del soggetto principale della discussione, e cioè Dio.
Non le nascondo, caro professore, che io avrei preferito non usare nel titolo del libro un termine così impegnativo. Ma visto che c’è, e visto soprattutto che qualunque cosa possiamo pensare, noi o chi legge, il discorso verso quel centro, vuoto o pieno che lo si ritenga, deve di necessità dirigersi… Insomma, è di questo che adesso dobbiamo discutere.
È un terreno sul quale, premetto, mi muovo con difficoltà. Tutta la mia concezione della vita e dell’essere mi porta a pensare che il termine «Dio» sia così vago e impreciso, così difficile da definire, perfino da immaginare, che sono proprio curioso di sentire che cosa dirà lei; nello stesso tempo mi chiedo in che modo sarò capace di affrontare la prova.
A lei la prima mano.
MANCUSO: All’inizio di questo intervento su Dio, quasi a costituirne la colonna sonora, pongo questa frase dei Racconti di Sebastopoli di Tolstoj: «Il protagonista del mio racconto, che io amo con tutte le forze dell’anima, che mi sono sforzato di descrivere in tutta la sua bellezza, e che è sempre stato, è e sarà bello, è la verità». Nella lingua russa ci sono due termini per verità: ìstina e pravda. Qui Tolstoj usa il secondo, pravda, che contiene sì l’idea di verità come esattezza (ìstina), ma che è di più, è verità effettivamente realizzata, verità in atto, verità come bene e come giustizia, verità come dimensione globale che produce bellezza e gioia. È questa dimensione ontologica globale a cui rimanda il termine pravda che è in gioco nel parlare di Dio (non senza una certa amara ironia visto che il quotidiano del Partito comunista sovietico si chiamava proprio «Pravda»).
Comincio con il dire che su Dio, lei e io e ogni altro essere umano siamo nella stessa condizione, che non è tanto quella di sapere o di non sapere (come se si trattasse di una questione intellettuale, una specie di rebus o di sudoku), ma piuttosto quella di dipendere. È, infatti, una questione che ha a che fare con la totalità della vita e tutti, lo si voglia o no, dipendiamo. Se mai esistesse un essere umano che fosse al contempo il più potente, il più colto, il più ricco, il più saggio di tutti gli uomini, anch’egli, per la parabola complessiva della sua esistenza, dipenderebbe da forze immensamente più grandi di lui. È proprio per esprimere questo fenomeno fisico della dipendenza da forze più grandi di noi che la mente umana, in ogni tempo e in ogni luogo, ha coniato la categoria del divino, riempiendola poi di contenuti e di immagini diverse a seconda dei tempi e dei luoghi. Detto en passant, io sono convinto che anche il clima abbia influenzato le religioni, sicché, per esempio, la religione del Giappone non poteva non costituirsi in modo radicalmente diverso da quella dell’Arabia Saudita, e quella di Israele da quella dei popoli scandinavi, e così via.
Che cos’è Dio? Non chiedo chi è, chiedo che cos’è, cioè qual è la dimensione della realtà che entra in gioco pronunciando il termine «Dio». Il termine «Dio» rimanda alla realtà chiamata da Tommaso d’Aquino «principium universitatis», principio di tutte le cose, e quindi anche fine di tutte le cose.
Perché dico principio e quindi fine? Perché il principio va distinto accuratamente dall’inizio. L’inizio è il colpo di pistola che fa scattare gli atleti nella gara dei cento metri e che poi non ha più nulla a che fare con il resto della corsa. Il principio (l’arché dei filosofi greci) è, invece, la realtà che accompagna sempre l’evento, che lo fonda, e senza il quale esso non sarebbe. L’inizio di un matrimonio è la data delle nozze, il suo principio, invece, è l’amore fedele e incondizionato che lo tiene insieme e senza il quale il matrimonio svanisce. Per questo nel concetto di principio è contenuta sia l’origine sia la fine (e il fine) di un evento.
Dire che Dio è il principio di tutte le cose (principium universitatis) significa dire non solo che le ha create, ma che le sostiene ora, le mantiene in esistenza ora. Spero più avanti di approfondire questo concetto. Per il momento sottolineo che, col nominare Dio, entra in gioco il senso e il sapore della nostra vita, la nostra origine e la nostra direzione, la dimensione che ci contiene, ci spiega, ci avvolge. Occorre liberare la mente dall’idea di un ente separato che se ne sta lassù, in qualche parte del cielo; che scruta le nostre vite, a volte clemente, a volte irato, a volte benigno, a volte maligno, a volte amico, a volte nemico; che a volte interviene dando ordini dettagliatissimi, a volte non interviene neppure nelle situazioni più disperate quando ci sarebbe tanto bisogno di lui; e a qualcuno parla come a un amico, a qualcun altro come a un nemico, e alla gran parte degli uomini si nasconde sdegnoso, come facevano gli antichi sultani orientali.
Sa qual è il dramma della nostra epoca? Che siamo molto progrediti quanto a conoscenze scientifiche, tecniche, storiche e di altro genere, che abbiamo sistemi politici ed economici altamente raffinati, e che, di contro, il livello della nostra concezione del divino è rimasto per lo più quello del passato, legato a un’immagine del mondo fisico, sociale e morale del tutto superata. Il dramma di noi occidentali (per gli altri popoli non so) è di non avere più una religione all’altezza delle esigenze del nostro tempo. Non vorrei esagerare, ma già i ragazzi si rendono conto che i concetti del catechismo e delle prediche non hanno molto a che fare con la vita reale, e quindi si annoiano.
Forse per questo la Chiesa cerca rilevanza inventando grandi eventi e giornate mondiali, beatificando e canonizzando come mai prima d’ora, pubblicando a raffica un documento dopo l’altro. Al riguardo, la differenza rispetto al passato è impressionante: quando la Chiesa aveva veramente in mano la società, non aveva bisogno di parlare molto e, infatti, per tutti i lunghi secoli della cosiddetta societas christiana, ufficialmente parlava pochissimo. Avviene così anche nella vita degli uomini, dove a chi è veramente potente basta solo una parola, a volte anche solo un cenno del capo per farsi capire (io sono di origini siciliane e di silenziosi cenni del capo un po’ me ne intendo). Ma riprendo il filo del discorso.
La religione, che un tempo era il collante della vita sociale e ispirava il pensiero, la musica, la letteratura, l’arte, la politica dell’Occidente, ora è ridotta al rango di materia facoltativa. Il risultato è una società senza religione. Ovvero un gigante dalla forza smisurata, dalla mente sopraffina, ma dal cuore rattrappito. Siamo fortissimi quanto a conoscenze e tecnologie, e scarsi, a volte paurosamente scarsi, quanto a sapienza spirituale, a visione del mondo, a capacità di dare senso al vivere e al morire; in una parola sola, a umanità.
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Forse la più grave è l’incapacità di offrire ai giovani dei concreti percorsi di vita per sottrarli al nichilismo crescente. Io sono tutt’altro che pessimista, ma spesso non posso fare a meno di pensare a quanto scriveva Simone Weil nel 1942: «Mai come in questo periodo le anime sono state così in pericolo». E, da allora, la situazione spirituale non è certo migliorata. Spesso guardo i miei figli e i loro amici, ammaliati e succubi della tv e dei giochi elettronici (contro cui mia moglie e io lottiamo dalla mattina alla sera), e mi prende un senso di impotenza. Quali sono gli eroi che abitano il cuore dei nostri ragazzi?
Ma lei mi chiede della mia fede. Ogni uomo, più o meno consapevolmente, ha una fede in base alla quale conduce la sua navigazione nel mondo, visto che nessuno possiede la mappa completa dell’oceano della vita. Anche lei ne ha una di fede, anche lei è costretto a navigare un po’ al buio, a volte fidandosi, a volte arrischiando. Io penso che ogni uomo dovrebbe giungere ad avere anche una sua religione, se per religione si intende ciò che indica l’etimologia più accreditata del termine, cioè il legame con il senso del tutto. Non vedo altra soluzione all’enigma dell’esistenza che indagare il senso del tutto (cioè la Verità) e uniformarvi la vita. Ogni altra soluzione mi sembra falsa, parziale, pigra, velleitaria.
La mia fede qual è? Io guardo alla vita, e vedo un’esplosione di contraddizioni. Vedo mille motivi per celebrarne la meraviglia, e altrettanti per dichiararla ingiusta e terribile. Adesso le sto scrivendo seduto su una panchina nel mezzo di un parco secolare in riva al mare, in una delle più belle località dell’Istria. Sarebbe facile ora, qui, applicare le cinque vie di Tommaso d’Aquino e da questa meravigliosa natura risalire a Dio in quanto motore, creatore, fondamento, ordinatore, fine del cosmo: la mente si lascerebbe ammaestrare facilmente dall’azzurro del mare, dal celeste del cielo, dal sole di quest’ora del giorno che colora gentilmente ogni cosa, anche questo taccuino su cui sto scrivendo.
Ma come dimenticare che tutto ciò si può trasformare in tempesta e portare morte e distruzione? In questo stesso mare che ora allieta e rinfresca, molti uomini sono morti, molti altri moriranno. La natura può essere una via per salire a Dio a celebrazione di questo mondo, oppure un motivo per rifiutare il mondo in quanto assurdo, inospitale, nemico. Gli esempi a sostegno di una via oppure dell’altra sono innumerevoli, e solitamente ognuno usa quelli che più fanno comodo alla sua tesi. Ma così, è ovvio, non si procede di un passo. In realtà, occorre sempre tenere presente la lezione di Hegel, che «il vero è l’intero», e non si deve tralasciare nessun fenomeno se si vuole tentare di avere realmente a che fare con la Verità, o, il che è lo stesso, col vero Dio. E alla domanda se il mondo sia ordinato e armonioso, oppure nient’altro che l’assurdo teatro di una lotta spietata, non vedo la possibilità di una risposta univoca.
Ora alzo gli occhi e vedo una serie di barche ormeggiate in questa piccola baia. Sopra la più vicina scorgo una signora che sta mettendo ordine spostando materassini e cuscini, o qualcosa del genere. Il sole sta quasi tramontando e, immagino, lei pensa a preparare la cena. Anche nelle altre barche c’è movimento. Deve essere bellissimo possedere una barca e andarsene in giro liberi per il mare, e approdare su isole semideserte e sentire solo il vento. Io non la possiedo, ma non ho il minimo risentimento verso chi se la può permettere. Il benessere, la ricchezza, la vita agiata, sono un desiderio naturale dell’uomo, per sé e per i propri figli, e non possono essere un male, anzi è sicuro che siano un bene, sono il risultato del nostro impegno nel mondo.
Inoltre, ritengo giusto che il merito sia ricompensato: se uno è davvero bravo nel suo lavoro, è giusto che guadagni di più, anche significativamente di più se è significativamente migliore. Sono quindi ben lungi dal recriminare contro la ricchezza e chi la possiede. Però non posso fare a meno di pensare che, talora, la ricchezza non è frutto del lavoro onesto. E che ci sono giovanotti che per saper giocare bene al pallone – e signorine che, per altre qualità – guadagnano cifre al di là di ogni ragionevole merito. E, soprattutto, non posso fare a meno di pensare a chi, non dico la barca, ma neppure una vacanza si farà mai nella vita, e temo si tratti della maggioranza della popolazione mondiale. Alla domanda se il mondo umano, la società da noi costruita, sia giusta o ingiusta, non vedo la possibilità di una risposta univoca.
I miei figli qui, la mattina, vanno in piscina a nuotare e al pomeriggio a scuola di pallanuoto. Entrambi sembrano cavarsela abbastanza bene. Ne ho due, avrebbero dovuto essere tre. Uno è morto nel ventre della madre al quinto mese di gravidanza. Quando guardo i miei figli che nuotano, talora penso a lui, che si sarebbe dovuto chiamare Federico, e che invece è annegato nel mare del nulla prima di poter approdare in questo mondo. La morte di Federico nel ventre materno non è che una delle tante vite segnate dall’assurdità delle malattie genetiche, e sono quasi diecimila quelle finora censite. Rivedo, ora che le scrivo, i volti delle persone handicappate che la vita mi ha fatto incontrare. Di qualcuno ricordo il nome: Luca, Sergio, Renatino, Michele, Flavio, Francesca. Perché la vita è stata così ingiusta con loro e con i loro genitori? Alla domanda se siamo figli del caso oppure di un Padre che ci ha pensati dall’eternità e plasmati con le sue mani, non vedo la possibilità di una risposta univoca.
Lei mi ha chiesto della mia fede, di dire in che cosa credo. All’interno di questa contraddizione che è la vita, io credo nel bene. Credo che il bene, tra le forze che attraggono e modellano le nostre esistenze, sia la forza più potente di tutte: eterna, consistente, indistruttibile, immortale. Qualcuno crede che la forza più potente sia il potere, e per realizzare se stesso è al potere che lega la vita, e quello che fa è solo in funzione del potere; qualcun altro crede che sia la ricchezza e a essa lega la vita; qualcun altro crede che sia il sesso e a esso lega la vita; qualcun altro crede che sia il sapere e a esso lega la vita; qualcun altro crede che sia il divertimento come mix di ricchezza, sesso, avventura e spezie varie, e a esso lega la vita. Io credo che la forza più potente di tutte sia il bene, e per realizzare me stesso cerco di legare la mia vita a esso e alla giustizia che ne promana. Se avessi fra le mani un granellino di incenso e lo dovessi bruciare sui cento altari dei valori che la vita presenta, io lo brucerei sull’altare del bene e della giustizia.
*
AUGIAS: Ogni volta che leggo un suo intervento torno a chiedermi: ma lei chi è? È un cristiano, questo mi sembra di poterlo affermare, anche se la parola «cristiano» è generica fino alla vaghezza; può voler dire molte cose diverse, tenute più o meno insieme da quell’aggettivo. Il Dio che lei disegna, comunque, ha poco a che vedere con l’essere perfettissimo creatore e signore del cielo e della terra dettato dal catechismo. Lei (se capisco bene) afferma che quell’immagine è superata, che in Occidente la religione non è più all’altezza dei tempi, che infatti cambiano con velocità vertiginosa, che l’espressione «alto dei Cieli» non ha più senso nel momento in cui i nostri cieli sono anch’essi inquinati, come gran parte dei nostri mari, e per di più gremiti di satelliti e dei loro rottami.
Sostiene anche di non vedere altra soluzione all’enigma dell’esistenza che non sia un’indagine sul senso del tutto e un adeguamento della nostra vita a tale senso, che potremmo anche chiamare «verità». Io, invece, non credo che ci sia alcun senso da scoprire. Il senso di ciò che accade sta in ciò che accade, senza altro disegno che non sia quello dettato da Il Caso e la Necessità, come recita il bel titolo del capolavoro di Jacques Monod.
Un altro grande scienziato, Stephen Jay Gould, ha perfezionato tale ragionamento. Studiando fra l’altro fossili nei quali si erano fortunosamente conservate anche alcune parti molli, arrivò a stabilire che «l’evoluzione non è una comoda scala di progresso prevedibile, assomiglia piuttosto a un frondoso cespuglio potato di continuo da un feroce mietitore: il pericolo (la possibilità) dell’estinzione». Si sono perpetuati organismi che parevano i più facili candidati all’estinzione, e viceversa, solo perché un fortuito concatenarsi di circostanze ha così determinato. Se le cose fossero andate diversamente, osserva Gould, noi esseri umani non saremmo mai stati formati come lo siamo stati, ovvero una variante fisicamente debole dei primati, ma con l’anomalia di un cervello molto più ricco di connessioni, più complesso e più fertile, e per conseguenza anche più pericoloso.
Questa teoria, che attribuisce a un misto di caso e di necessità le vicissitudini dell’universo, del nostro pianeta, degli organismi viventi e dei nostri destini, è fra l’altro la sola che spieghi le ingiustizie, le disparità, le assurdità che coinvolgono i miliardi di esistenze che hanno abitato e abitano il pianeta. Sono d’accordo con lei: ognuno di noi e noi tutti insieme dipendiamo da forze e spinte immensamente più grandi, nessuno di noi – nemmeno l’uomo più potente o più ricco – è singolarmente in grado di controllarle. È verosimile che sia stata la consapevolezza di questa poderosa (spaventosa) congerie di circostanze ad aver originato le prime idee di divino, come lei scrive e come anch’io credo. La civiltà romana è stata sicuramente una delle più sviluppate e, per alcuni aspetti, per esempio la scoperta e l’applicazione dello jus, addirittura geniale. Ciononostante, tutti davano per scontato, compresi i più colti, che i tuoni fossero provocati dal carro di Giove sulle nubi e i fulmini dalla sua ira. La nozione di elettricità statica era di là da venire. Ogni volta che l’orizzonte scientifico si è ampliato, quello religioso si è ristretto, il che basta da solo, sia detto fra parentesi, a spiegare la diffidenza della Chiesa (di tutte le Chiese) verso la scienza. Senza andare troppo lontano e ripetere esempi stranoti, basti pensare che nella prima metà dell’Ottocento papa Gregorio XVI considerava le ferrovie un prodotto del diavolo.
Sempre e ovunque la mente umana ha coniato la categoria del divino per riempire un vuoto di conoscenza, per attribuire a una inspiegabile metafisica ciò che non riusciva a far rientrare nell’ambito delle conoscenze disponibili. Per dirla con la lampante concisione di Ludwig Feuerbach: «Non è Dio che crea l’uomo, ma l’uomo che ha creato l’idea di Dio».
Che cosa intendeva il filosofo tedesco con queste parole? Quando un soggetto stabilisce un rapporto necessario con un oggetto trascendente, questo oggetto diventa la vera essenza del soggetto proiettata al di là e al di fuori di sé. In termini più espliciti: se a Dio si attribuiscono onniscienza, onnipotenza, infinita bontà, infinito amore e ogni altra umana qualità portata al suo massimo grado, Dio altro non è che l’oggettivazione idealizzata di quanto di meglio l’uomo riesca a sentire e a esprimere. In due parole: in quell’idea di Dio l’uomo proietta il meglio di sé. Ecco perché le varie religioni che si sono succedute nel tempo e diversificate nello spazio, altro non sono che l’assolutizzazione dei bisogni e delle aspirazioni di singoli esseri umani e di ogni determinata società. Feuerbach ne deduce, fra le altre cose, l’importante conseguenza che le religioni sono la prima, ancorché indiretta, coscienza che l’uomo ha di sé. Il che, per inc...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Disputa su Dio e dintorni
  4. Due parole per cominciare
  5. Parte prima. Dintorni
  6. Parte seconda. Dio (e altri misteri)
  7. Nota alla nuova edizione
  8. Libri citati
  9. Copyright