Chi ha paura muore ogni giorno
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Chi ha paura muore ogni giorno

I miei anni con Falcone e Borsellino

  1. 210 pagine
  2. Italian
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Chi ha paura muore ogni giorno

I miei anni con Falcone e Borsellino

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Nell'estate del 1992 due esplosioni di enorme potenza annientarono la vita di tre magistrati - Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, Paolo Borsellino - e di otto giovani che li scortavano. Fu un colpo terribile per l'Italia e per chi considerava i giudici del pool antimafia gli eroi di una stagione di straordinario successo nella lotta a Cosa nostra. A Giuseppe Ayala quelle esplosioni strapparono tre amici carissimi, lasciando lo struggente ricordo di dieci anni di vita insieme e un rabbioso, mai sopito rimpianto. Ora, a distanza da quei tragici eventi, Ayala ha deciso di raccontare la sua verità su Falcone e Borsellino, ricordandone il fondamentale contributo alla lotta alla mafia e le attualissime riflessioni sulla Sicilia, Cosa nostra, la giustizia e la politica, ma anche la loro travolgente ironia, la gioia di vivere, le passioni civili e private. La storia di quegli anni, delle vittorie e dei fallimenti, dell'impegno di pochi e delle speranze deluse di molti, riporta al centro dell'attenzione la tremenda capacità di sopravvivenza della Piovra, che si nutre dei silenzi, delle complicità, delle disattenzioni e delle colpe di una Sicilia e di un'Italia che non sono, forse, abbastanza cambiate da allora.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852012327
VIII

«Mi chiamo Tommaso Buscetta»

Era l’inizio dell’estate 1984 quando la polizia brasiliana arrestò Tommaso Buscetta, raggiunto anche da un nostro mandato di cattura internazionale emesso un paio d’anni prima. Giovanni, volato subito a Brasilia, se lo trovò davanti nell’aula di quella Corte federale.
L’interrogatorio seguì il solito cliché sino a quando Falcone chiese all’imputato di parlare della mafia. Contrariamente a quanto accadeva sempre, Buscetta non rispose con la frasetta: «Non so a cosa lei stia facendo riferimento, è una parola che ho letto solo sui giornali…». Usò, invece, una battuta: «Ci vorrebbe una notte intera, signor giudice… mi scusi, sono stanco».
Appena rientrato a Palermo, Giovanni mi telefonò invitandomi a raggiungerlo a casa, una villa di Mondello poco distante dalla mia, che aveva preso in affitto per il periodo estivo. Mi raccontò del viaggio e, a un certo punto, mi guardò fisso negli occhi, dicendomi: «Posso anche sbagliarmi, ma secondo me Buscetta è pronto a collaborare. La sua risposta alla domanda sulla mafia me lo dici tu che altro senso può avere?». «Te lo do io il senso. Sei sotto l’effetto del jet lag! Fatti una bella dormita. Domani ne riparliamo» gli risposi, lasciandogli intendere che la sua ipotesi non mi convinceva per niente.
La richiesta di estradizione che avevamo già trasmesso per via diplomatica alle autorità brasiliane venne accolta. Gianni De Gennaro partì subito per il Brasile e il 15 luglio riportò in Italia Buscetta, nel frattempo miracolosamente scampato a un tentativo di suicidio tutt’altro che simulato, come pure fu ipotizzato. De Gennaro, che durante il viaggio si era speso con successo affinché l’intuizione di Giovanni si rivelasse fondata, non lo portò in carcere, ma in una comoda cella improvvisata all’interno del palazzo della questura di Roma. L’incolumità di Buscetta lì sarebbe stata garantita. In carcere lo sarebbe stata molto meno.
La legge non prevedeva a quel tempo una tale possibilità. Non esisteva alcuna normativa che riguardasse i collaboratori di giustizia e Buscetta altro non era che un detenuto come tanti altri. Si trovò, comunque, il modo per dare a quella scelta necessitata una dignitosa parvenza di legalità.
Il primo interrogatorio si tenne nel mese di luglio, l’ultimo a settembre. I verbali sono tutti manoscritti da Falcone con calligrafia chiara e senza traccia di correzioni, come sempre. Ho partecipato nel tempo a svariate decine di interrogatori condotti da lui e mai ho visto un difensore chiedere, come spesso accade, una modifica a quanto verbalizzato da Giovanni. Era semplicemente impeccabile. Una garanzia anche per l’imputato.
Buscetta si era deciso a compiere il grande passo. Sembrava impensabile e invece era vero. Si sentiva con le spalle al muro, sapeva di essere stato condannato a morte da quelli che, per una vita, erano stati suoi sodali. Non se ne dava una ragione, ma non era più disposto a tenere a freno il «fortissimo spirito di rivincita che lo animava», secondo la definizione di Falcone. Quello che, ancor di più, gli impediva di comprendere il senso della sua condanna risiedeva nel fatto che gli ex amici, non essendo riusciti a scovarlo per eseguirla, avevano ucciso i suoi due figli maschi, il marito della figlia, un cognato, un fratello e, infine, il figlio di quest’ultimo. Una vera carneficina.
Il primo pensiero di Buscetta fu sicuramente quello di organizzare una vendetta da par suo. Non disponeva, però, degli strumenti necessari. Era latitante in Brasile, per di più nella condizione di braccato, mentre a Palermo non aveva a chi rivolgersi. I suoi complici, ormai, li avrebbe potuti trovare in un solo posto: al cimitero. Ne prese atto e li sostituì con i giudici e i poliziotti. Non lo avrebbe fatto se non avesse incontrato gente di cui si fidava, ma la trovò, senza cercarla, a Brasilia in una calda mattina di quel giugno: Giovanni Falcone era l’uomo giusto e Gianni De Gennaro pure.
Volle precisare, prima di tutto, che lui era un mafioso e non un «pentito». Erano gli altri ad aver tradito il codice d’onore. Lui, invece, mai, e lo rivendicò. Non aveva, da mafioso, nulla di cui pentirsi. Per la prima volta decise di rispondere con la verità. La polizia brasiliana lo aveva torturato, arrivando a strappargli tutte le unghie dei piedi. Le uniche parole che riuscirono a fargli pronunciare furono: «Mi chiamo Tommaso Buscetta». Lo imbarcarono allora su un aereo e, quando si trovarono ad alta quota nel cielo di San Paolo, aprirono un portellone e minacciarono di lanciarlo nel vuoto. Niente, silenzio assoluto. Ci provarono anche con le scosse elettriche, il risultato non cambiò. Non era uno che parlava Buscetta, se non aveva voglia di farlo. Falcone gliela fece venire.
Le sue rivelazioni possono essere suddivise in due filoni: una ricostruzione degli eventi, a partire dalla strage di Ciaculli del 1963; una completa descrizione dell’organizzazione mafiosa, della sua struttura e delle regole di comportamento più significative, con una sorprendente precisazione: la parola mafia non viene mai pronunciata dai mafiosi. È «Cosa nostra» il termine adoperato per indicare l’associazione.
Non è esagerato definire «storico» il contributo fornito da Buscetta: un gruppo di uomini, senza aver prestato il giuramento di affiliazione alla mafia, veniva introdotto al suo interno per conoscerla direttamente. Non era mai successo. Nobilitando, forse esageratamente, quell’evento mi venne in mente un paragone che manifestai ai colleghi: «Buscetta è Virgilio, Dante è Falcone, Cosa nostra è l’Inferno». Al di là dell’irriverente accostamento letterario, era proprio questa la sensazione che provavamo durante la lettura dei verbali: un viaggio alla scoperta di un mondo tanto ignoto quanto terribile.
L’utilità processuale di quelle 329 pagine era gigantesca, perché, oltre alla parte riguardante le singole responsabilità delle tante persone menzionate, la rivelazione dell’impianto verticistico di Cosa nostra rafforzava ancora di più l’impostazione unitaria dell’istruttoria che avevamo scelto. L’apparentemente variegata articolazione di centinaia di delitti era, in realtà, tutta riconducibile al nucleo di comando, la cosiddetta «commissione» o «cupola» e, per i crimini meno eclatanti, alla gerarchia interna di ciascuna famiglia.
L’esempio del mosaico che avevo proposto a Falcone risultò perfetto, nel senso che, oltre alle tessere, avevamo ora anche il reticolato in cui inserirle per ottenere l’immagine completa. Ironia della sorte: Cosa nostra diventava tale anche per noi. L’avevamo davanti, finalmente.
Gli interrogatori si tennero a Roma, dove Giovanni si recava a giorni alterni, partendo la mattina e tornando a sera inoltrata. Il primo problema riguardò la riservatezza, che doveva essere assoluta. La bomba da far scoppiare l’avevamo noi, questa volta, ma nessuno doveva sospettarlo. Il sistema fu il seguente: Giovanni viaggiava esclusivamente con voli di Stato, non solo per motivi di sicurezza, ma anche perché, se avesse usato voli di linea, la incessante ripetitività della sua presenza a bordo, sempre sulla medesima tratta, avrebbe potuto insospettire qualcuno. Le comunicazioni telefoniche tra noi, durante le giornate di interrogatorio, furono abolite. Nessuna notizia da Roma né viceversa. Le riunioni, al ritorno di Giovanni, avvenivano nel giardino della sua villa, dove ci recavamo alla spicciolata per dare meno nell’occhio.
Usavamo il tavolo da ping pong, tante erano le carte da esaminare per organizzare la ricerca dei necessari riscontri ai contenuti dei verbali. I quali venivano, poi, tutti consegnati a Caponnetto, che li custodiva in cassaforte senza estrarne neanche una copia. Durante gli incontri li leggevamo, ognuno di noi prendeva appunti per lo sviluppo e l’approfondimento dei vari filoni d’indagine, che ci dividevamo per «aree di competenza» non rigidamente prefissate, ma flessibili rispetto alla funzionalità complessiva. Le mie, per esempio, riguardavano gli omicidi della guerra di mafia e alcuni settori del traffico di stupefacenti.
Il problema non era solo fare bene ma, ancor di più, non perdere tempo. Quanto poteva durare quella ferrea segretezza? Era la nostra principale preoccupazione. Una ragionevole previsione ci portava ai primi d’ottobre.
E invece, la mattina del 28 settembre, Falcone, conversando con un giornalista, ebbe netta la sensazione, rivelatasi poi del tutto immotivata, che una «fuga di notizie» fosse in agguato. Il lavoro, per la verità, era quasi pronto, per cui si decise di anticipare i tempi. A quando? A subito, in perfetto stile falconiano.
I mandati di cattura da emettere erano 366, ciascuno dei quali constava di decine e decine di pagine. Si mise in moto la macchina dell’ufficio istruzione: il testo della lunga e articolata motivazione veniva ultimato da Falcone e Borsellino, mentre le parti già completate erano in macchina per la fotocopiatura. Una catena di montaggio regolata da un’attività più che frenetica.
Ma la frenesia, si sa, può fare qualche scherzo. E quella notte lo fece: nella concitazione si dimenticarono di Di Lello. Il quale, dopo essere stato a cena con me, se ne tornò a casa, tranquillo perché all’oscuro dell’allarme appena scattato. Alle quattro del mattino, in pieno sonno, venne svegliato dall’insistente suono del citofono. Si alzò e andò a rispondere. Dall’altra parte una voce, ferma e decisa: «Carabinieri. È il giudice Di Lello?». Peppino, sorpreso e anche un po’ perplesso, rispose: «Sì, sono il giudice Di Lello, mi dica». «L’attendiamo, abbiamo l’ordine di portarla al più presto al Palazzo di giustizia.» «Scendo subito» fu la risposta. Per sua fortuna non ebbe il tempo di chiedersi ancora una volta: «Ma che minchia è successo?» perché ricevette in quel momento una telefonata di Paolo Borsellino che, con tono diretto e sbrigativo come d’abitudine, lo richiamava all’ordine: «Sì vabbè, non ti abbiamo avvertito, scusaci. Solo che qui c’è da firmare, anzi devi mettere un casino di firme. Prima arrivi meglio è!». Si narra che Di Lello, pur di sbrigarsi, si sia recato a fare il suo dovere indossando ancora il pigiama, seppure coperto da un dignitoso impermeabile; ma questa, forse, è leggenda.
La raffica di mandati di cattura piombò sui destinatari l’indomani, il 29 settembre 1984. I latitanti si ridussero a un’esigua minoranza. Intere famiglie mafiose furono trasferite in sette carceri di massima sicurezza, situate soprattutto nel Centro-Nord. Nessuno fu rinchiuso all’«hotel Ucciardone» di Palermo: questa volta si faceva sul serio. L’effetto sorpresa c’era stato, l’impenetrabile segretezza che ci eravamo imposti aveva funzionato. Nulla era trapelato durante i due mesi e mezzo di lavoro preparatorio. Un caso più unico che raro.
L’operazione antimafia più importante del XX secolo fu giornalisticamente definita «il blitz di San Michele» e provocò reazioni vaste e contrastanti. La stragrande maggioranza era di apprezzamento, più a Roma che a Palermo, più all’estero – Stati Uniti in testa – che in Italia.
Gli ambienti più contigui alla mafia accusarono il colpo, ma si impegnarono subito a mettere in piedi il primo atto di una strategia di delegittimazione che sarà portata avanti a lungo: «Buscetta è lontano da Palermo da troppi anni, che ne può sapere dei fatti più recenti? Avrà detto quello che gli hanno voluto far dire… Non avrà il coraggio di ripetere le sue accuse al processo, davanti a tutti… E poi le prove dove sono? Che credibilità possono avere le dichiarazioni di un delinquente incallito? Il pentitismo è la barbarie della giustizia, la morte dello Stato di diritto» e così via. Erano furiosi, le loro talpe si erano rivelate un fallimento. Per questa volta li avevamo battuti, e non sarà l’ultima.
Il quotidiano locale andò oltre, affidando i suoi editoriali a una firma sino ad allora sconosciuta, quella di un magistrato di primissimo pelo che scriveva scomodando citazioni di grandi giuristi del passato e filosofi di tutte le epoche e tutte le latitudini: una sorta di trattatello a puntate del perfetto giudice, con la evidente pretesa di dimostrare che noi, invece, eravamo tutt’altro. «Diffidate gente, diffidate!» era il messaggio, sottolineato da attacchi diretti e pesanti. Leggevamo tra incontenibili risate. Perfino Caponnetto, che mai si lasciò contagiare dal nostro sarcasmo, racconterà a Saverio Lodato: «Io e Paolo commentammo, ridendo, uno di questi articoli». Prendendo spunto dal Gattopardo, spiegai un giorno ai colleghi del pool: «Poveretto, “viene per insegnarci le buone creanze, ma non lo potrà fare, perché noi siamo dei”». Quel magistrato prestato al giornalismo si lasciò usare e coinvolgere in un gioco più grande di lui, ma non gli porterà fortuna. È scomparsa da tempo sia la sua firma di editorialista sia la sua presenza in magistratura. Pare faccia l’avvocato da qualche parte.
La forma, modellata da una vera e propria orgia di idiozie, ci faceva ridere, ma la sostanza non ci sfuggiva e, meno ancora, l’obiettivo: era il maxiprocesso prossimo venturo.
Il sistema di potere era uscito dal letargo e cominciava a reagire. La campagna denigratoria era aperta. «Il Giornale» di Milano si affiancò con il malcelato compito di sprovincializzarla. Non era la fine del mondo, ma il segnale era chiaro e un po’ ci inquietò: non più di tanto, perché lo davamo per scontato.
Il quotidiano palermitano fu in quegli anni al centro di ricorrenti attacchi per il taglio scelto, ritenuto, a ragione, non certo di sostegno al nostro lavoro. Nessuna meraviglia: al pari di molti altri organi di stampa locali, il collegamento con l’establishment è tendenzialmente organico. La peculiarità di quello siciliano è che ne fa parte anche la mafia. La conseguenza è ovvia. Per questo ritengo sia stato un errore fuorviante averlo ribattezzato, come fecero in molti, «L’eco di Ciaculli», la contrada del «papa» Michele Greco.
Fu, più banalmente, l’eco della città che contava, di una fetta, quantomeno. La più dura. La mia nota generosità d’animo, unita alla conoscenza di uomini e cose, mi induce alla concessione di una benevola percentuale di non compiuta consapevolezza.
Il codice ci imponeva di interrogare gli imputati entro quindici giorni dalla notifica del mandato di cattura. Non erano pochi, ma il numero degli arrestati e la distanza da Palermo delle carceri che li ospitavano ci imposero, come al solito, di organizzarci al meglio. Furono costituite alcune coppie, un sostituto procuratore e un giudice istruttore, a ciascuna delle quali vennero assegnati i penitenziari dove avrebbero dovuto recarsi. Io ero l’unico non «monogamico», come, con un «guarda caso», sottilizzò Falcone.
In una prima fase il mio partner sarebbe stato Borsellino, carceri di Napoli e Rebibbia e, in una seconda, Peppino Di Lello, carceri di Fossombrone e Ascoli Piceno. Giovanni fu all’unanimità esentato dal tour de force. Era quello che si spendeva da mesi più di tutti e ci sembrò giusto concedergli un momento di pausa.
Fu un tour faticosissimo, meno male che gli interrogatori si risolsero abbastanza in fretta. Gli imputati, come previsto, negarono anche l’evidenza: nessuno aveva mai conosciuto Buscetta che, comunque, era per tutti un «infamone». Non nascondo che vederne tanti in faccia, ascoltarli e pensare a cosa c’era dietro ciascuno di loro mi fece un certo effetto, anzi un pessimo effetto. La prospettiva delle severe condanne che avrebbero subito un po’ consolava, ma non del tutto. La sfilza di bugie che ci venne elargita rese ancor più martellante un quesito al quale non riesco ancora a dare una risposta plausibile. Perché all’imputato, oltre al diritto di tacere che è sacrosanto, dev’essere riconosciuto anche il diritto di mentire spudoratamente? Se gli venisse negato, ne soffrirebbe davvero quello alla difesa sancito dalla Costituzione? Esiste forse un altro contesto in seno al quale qualcuno possa legittimamente sparare menzogne a piacimento? Non mi risulta.
Nel carcere di Napoli ci capitò di interrogare uno dei due o tre che avevano scelto un’originale linea difensiva: fingersi pazzi. Paolo non gradì la sceneggiata, però la ascoltò con pazienza e si rivolse poi verso di me dicendo, con tono calmo ma non basso, in strettissimo siciliano: «Mischino, chistu veru pazzu è. Che piatusu! Però furtunatu è, picchi accussì un capisci chi gran pezzu di merda ca è». Il mafioso incassò e portò in cella. Al maxiprocesso sarà condannato all’ergastolo e successivamente andrà ad allungare la lista dei pentiti.
La «tre giorni» con Di Lello fu massacrante. In quelle carceri era stato concentrato il maggior numero di imputati. Dopo l’ultimo interrogatorio, sfiniti, ci sedemmo in macchina per tornare a Roma. Avevamo una scorta di almeno quattro auto corazzate e non meno di una decina di uomini armati con indosso giubbotti antiproiettile. Erano le quattordici e Peppino aveva fame: «Senti, Giuseppe, non potremmo dire al caposcorta di fare una breve sosta per mangiare un panino? Magari in un posto appartato. Sai, Roma lontana è!». «Brillante suggerimento» commentai. Il caposcorta, che era della zona, aderì con evidente entusiasmo: «Un panino non saprei… però a un paio di chilometri conosco una buona trattoria… che anche ai fini della sicurezza non crea problemi». «Bene, ci fermeremo lì, grazie» gli dissi, mentre lo sguardo di Di Lello diventava languido. L’ingresso nel locale, quasi vuoto dato l’orario, paralizzò il personale di sala e i pochi altri astanti, di certo non abituati all’irruzione di uomini armati che, con fare deciso, prendevano posto ai tavoli. Il mio sguardo cercò quello del caposcorta, lo trovò. Il militare si appartò col proprietario che, un attimo dopo, rassicurato, si avvicinò a me e Peppino per proporci con orgoglio il meglio del menu. Riprendemmo il viaggio alle cinque: il panino si era trasformato in un pranzo pantagruelico. Quando arrivammo a Roma, e solo allora, il caposcorta ci svegliò.
Il rientro a Palermo confermò i sospetti sollecitati dal viaggio appena concluso. All’ae...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Chi ha paura muore ogni giorno
  4. 23 maggio - 19 luglio 1992
  5. I. La voglia di schierarmi
  6. II. Bisogna non essere soli
  7. III. Saguntum expugnatur
  8. IV. Una scorta per l’ultimo arrivato
  9. V. Diventare grandi
  10. VI. Gioco di squadra
  11. VII. La partita truccata
  12. VIII. «Mi chiamo Tommaso Buscetta»
  13. IX. La mafia alla sbarra
  14. X. A ciascuno il suo
  15. XI. L’uomo giusto
  16. XII. Incompatibilità ambientale
  17. XIII. E le perdette tutte
  18. Copyright