Come posso essere me stesso nel lavoro che svolgo? Come faccio a esprimermi al meglio? Come posso dare un senso significativo alle otto ore che mi aspettano ogni giorno? Come dar loro una mia impronta personale?
Queste le domande che dovremmo porci per trovare nella professione che svolgiamo una collocazione felice, ma di fatto il concetto di lavoro cui di norma facciamo riferimento appare molto diverso. Non siamo più abituati a ragionare così, a pensare che il nostro lavoro è uno spazio esistenziale in cui prima di tutto è fondamentale “incontrare se stessi”, riuscire a esprimersi, realizzarsi, trovare la nostra vera identità per poi riportarla in tutti gli ambiti della nostra vita.
Lo testimoniano i più recenti sondaggi: il 65% degli italiani lavora male perché non si sente realizzato; nel 70% dei casi la professione svolta non corrisponde al lavoro desiderato; e, se il 20% afferma di avere un’occupazione accettabile, soltanto il 10% ammette di aver concretizzato la propria aspirazione.
I motivi di scontento più frequenti? La mancanza di gratificazioni verbali da parte dei capi; l’essere costretti a subire scorrettezze; la sensazione di essere sottoutilizzati; la ripetitività e l’eccessivo spirito di competizione. Il lavoro diventa così il luogo privilegiato del sacrificio, della rinuncia, della frustrazione, della rivalità, delle aspettative deluse, del dovere per il dovere. Per la maggior parte di noi il lavoro è un mix di disagi: dalla comunicazione difficile con capi e colleghi alla difficoltà a far fruttare le proprie risorse, all’obbligo di assoggettarsi a ritmi serrati e ripetitivi, che alla lunga mortificano qualsiasi velleità di cambiamento.
Quali dovrebbero invece essere le caratteristiche di un lavoro gratificante? Non avere orari fissi è il sogno impossibile del 35% degli intervistati; sentirsi rispettati è il bisogno frustrato del 25% e potersi esprimere liberamente, dando un calcio a formalismi e diplomazie obbligate, il desiderio inesaudito del 20%.
Il lavoro fa “maturare” la coscienza
Che dire allora a chi non ne può più di lavorare e aspetta solo il momento di andare in pensione? A chi è convinto che un impiego vale l’altro, tanto è solo lo stipendio che conta? E a chi afferma che qualsiasi professione alla fine appiattisce l’esistenza o addirittura uccide? Emblematiche le parole dell’egittologo Schwaller de Lubicz: «Se fra te e l’oggetto del tuo lavoro interponi uno strumento automatico che elimina la tua volontà e soprattutto la tua sensibilità, ogni contatto fra te e la materia lavorativa è rotto. (…) Tu hai steso un velo tra te e la cosa; la cosa sussiste, ma tu, essere cosciente, perdi la tua vita soffocando la tua coscienza».
Traspare, dalle parole del grande simbolista, un’idea di lavoro carica di un significato molto più ampio che delinea i tratti inequivocabili di un lavoro felice. Quali le sue caratteristiche? Si tratta di un lavoro capace di sviluppare le proprie attitudini potenziali; che, non più finalizzato all’azione che si svolge, né chiuso nel risultato che si ottiene, dà il senso del cambiamento e della trasformazione. Insomma, un lavoro “vivo”, com’è viva la terra senza la quale l’uomo-seme non può maturare. In quest’ottica, è grazie all’occupazione che svolge, che l’uomo può maturare la propria coscienza e con essa conquistare un livello sempre più completo di benessere psicofisico.
Il lavoro è una via per arrivare a noi stessi
Questo è possibile se non si cade nella trappola del pensiero razionale, che ci fa vedere tutto piatto, convincendoci che la vita, e quindi il lavoro, siano operazioni noiose e ripetitive.
Diversamente, il lavoro porta alla prassi, alla concretezza e nel suo continuo “fare” ci tiene lontani dai labirinti improduttivi della testa. Quindi, è tanto più costruttivo e apportatore di benessere, quanto più diventa il tramite per incontrare le nostre energie profonde. Riuscire a esprimerle in ambito lavorativo non solo ci farà stare bene in ufficio, ma ci consentirà di mettere in atto le nostre potenzialità creative nella vita.
Questa la finalità che ci proponiamo: far ridiventare il lavoro una partita da giocare tra noi e noi, la via privilegiata per arrivare a essere noi stessi. Ciò non significa che gli altri elementi non contino: i risultati, lo stipendio, la carriera, i rapporti col capo e coi colleghi, tutti elementi non trascurabili, che però devono spostarsi sullo sfondo. Troppo spesso infatti questi aspetti ci abbacinano, diventando il nostro principale punto di riferimento, anche il nostro primo problema. E qui sta il segnale da non sottovalutare: quando imputiamo il malessere di cui soffriamo a cause esterne a noi, c’è qualcosa che non va. In realtà non sono mai questi i veri motivi che ci fanno stare male al lavoro: continuando a fissare la nostra attenzione sulla realtà contingente, perdiamo la visione d’insieme e, così facendo, smarriamo il senso del nostro operare.
Prima regola: occupiamoci di noi stessi
Come punto di partenza, proviamo a occuparci prima di tutto di noi stessi, a chiederci come stiamo sviluppando la nostra attività, se c’è un modo migliore per esprimerci e cosa ci farebbe rendere al massimo. Per esempio: fermiamoci un attimo a ricordare quella volta in cui abbiamo lavorato con entusiasmo e senza neppure sentire la fatica. Cos’era presente in quel momento che ci faceva stare così bene? Se ci caliamo in quell’istante, ci accorgeremo che allora era scattato qualcosa dentro di noi; le conferme esterne, la promozione, il guadagno erano venuti dopo. Ci renderemo conto che i problemi che riteniamo tanto importanti sfumano, sino a tornare nella posizione da comprimari che loro spetta.
Seconda regola: ridimensioniamo il problema del guadagno
Un altro dato a rischio che ci preclude il benessere è l’eccessiva importanza attribuita all’incentivo economico, che è considerato la molla principale che ci spinge a lavorare. Non si pensa però mai abbastanza che è anche quella che più di altre è in grado di renderci insopportabile un lavoro e di farci stare male. Infatti, se prima di tutto scegliamo il denaro, perderemo l’opportunità di trovare il centro di noi stessi. Quindi, addio a una professione che ci piace e che riteniamo sintonica alle nostre caratteristiche e addio alla possibilità di stare bene e di esprimerci al meglio.
Con questa mia posizione non voglio assumere un atteggiamento distaccato nei confronti dei soldi e del guadagno. Tutt’altro. È solo questione di capovolgere i termini del problema: il denaro ha senso quando è associato a una valida qualità della vita. Ma diventa limitativo e pericoloso quando si trasforma nel primo e più importante parametro con cui autovalutarci, nel riferimento principale attorno a cui tratteggiare la nostra identità.
La verità è che siamo molto di più del nostro stipendio. E poi è difficile credere che si possa guadagnare bene senza mettere in campo le nostre energie migliori. Salvo riuscire a farlo con grande sforzo e senso di malessere.
Ricordati che…
Dare un senso al proprio lavoro significa ricercare in esso la gioia interiore. In quest’ottica il lavoro è:
- il grande “antidoto” ai veleni della mente
- ciò che ci fa maturare la coscienza
- una partita con noi stessi
- la maggior possibilità di esprimere il nostro potenziale creativo.
Qual è lo stile di lavoro che ci appartiene? C’è chi per rendere al massimo deve concedersi cicliche interruzioni; chi invece si obbliga a nascondere l’orologio e a fare una tirata finché non ha concluso. Così per la comunicazione in ufficio: se alcuni prediligono gli scambi verbali diretti coi colleghi, altri privilegiano il silenzio e la riservatezza. Lo stesso con il cibo: per molti di noi il pasto è una pausa irrinunciabile per ritrovare la concentrazione; per altri, invece, è meglio consumare piccoli snack davanti al computer e non distrarsi. Comportamenti diversi, che fanno capo a energie lavorative specifiche. Noi ne abbiamo identificate quattro: ciascuna di esse tratteggia un approccio professionale particolare, che espone a rischi differenti.
La meta, innanzitutto
Questo tipo di energia lavorativa è diretta al fine. Silenziosa e precisa, non si fa deviare da nulla. Come un diesel marcia lenta e inesorabile verso il suo obiettivo. Ecco le modalità con cui si caratterizza.
La postura
Sempre seduti alla scrivania. Dotati di grandi capacità di concentrazione, siamo in grado di resistere a qualsiasi interferenza, per portare a termine in modo lento e regolare il nostro compito. In ufficio siamo facilmente riconoscibili perché stiamo sempre seduti alla scrivania, da cui non ci alziamo finché il lavoro non è finito. Il nostro tratto dominante è la staticità.
Il rapporto col tempo
Niente pause… neanche per fare pipì. Il rapporto col tempo è stritolante, nel senso che viviamo costantemente proiettati nel futuro. Quando iniziamo un lavoro non molliamo fino alla fine e abbiamo sempre presente il carico di incombenze ancora da assolvere. Per non ritrovarci con dei sospesi o degli arretrati, siamo capaci di non concederci mai una pausa e, se abbiamo qualche minuto libero, lo occupiamo subito per portarci avanti. Il rinvio non fa parte del nostro corredo energetico, tantomeno il meritato ozio tra la fine di un lavoro e l’inizio di un altro. Perciò non familiarizziamo facilmente coi colleghi: cordiali quanto basta per tenerli a distanza di sicurezza, non ci concediamo caffè, chiacchiere o telefonate. E se il ritmo è incalzante, non troviamo neppure un momento per… fare pipì!
Il rapporto col cibo
Mangiare è soprattutto una necessità. Durante la settimana lavorativa, non diamo particolare importanza al cibo. Nutrirci è una necessità che assolviamo nel modo più economico possibile e, per risparmiare tempo, tendiamo a pranzare sempre nello stesso locale, preferendo piatti semplici e digeribili. Nel cassetto niente snack, caramelle o sfizi: non essendo previste pause nella marcia, non sentiamo il bisogno di addolcire la giornata con bocconcini consolatori.
Lo stile comunicazionale
I rapporti sono davvero carenti. Parliamo poco, non discutiamo con nessuno le nostre posizioni ed evitiamo i consigli, che non richiediamo e diamo solo dietro sollecitazione. Anche quando subiamo un torto o ci infuriamo per una ragione più che giustificata, non facciamo rimostranze. Tantomeno lasciamo trasparire le emozioni, imbavagliandole in uno stoico distacco. Proprio quando è impossibile non commentare un evento lavorativo, affidiamo all’ironia messaggi trasversali. Più spesso preferiamo mandar giù, salvo poi, quando la goccia fa traboccare il vaso, sbottare, esplodendo male. Comportamento di cui ci pentiamo immediatamente, rientrando subito nei ranghi.
L’abbigliamento
L’abito è comodo, poco appariscente. Gli uomini prediligono lo stile informale, senza giocare con gli accessori e senza seguire la moda. Le donne preferiscono i maglioni al tailleur, prestano poca attenzione ai particolari, niente gioielli e viso acqua e sapone. Anche i capelli sono spesso trattenuti, per non dare fastidio se scendono sul viso: lunghi o corti sono comunque pettinati in modo semplice. Quello che conta è la funzionalità che porta a scegliere uno stile pratico.
DI COSA SOFFRI
Se pensiamo alla caratteristica di quest’energia statica e dura, che è quella di non deviare mai dai binari e di non lasciarsi andare, risulterà chiaro perché, per analogia, sono le ossa il bersaglio principale. Non sono forse loro la nostra parte “pietra”, l’intelaiatura rigida della struttura corporea, quella che tiene? Attenzione quindi ad artrosi, cervicalgie e lombalgie. Un alto rischio esiste anche per il polmone, organo che con la respirazione presiede allo scambio dentro-fuori, scambio che, come la comunicazione, è carente, se non inesistente.
IL RISCHIO NEL LAVORO
Il problema più serio in cui si incorre è l’isolamento. Parlare poco o non parlare per niente provoca negli altri reazioni negative: il silenzio infatti allontana i colleghi, che possono interpretarlo come segno di superiorità o di superbia. Chi tace viene vissuto spesso come “giudicante” o accusatore e il gelo di cui si circonda raffredda inevitabilmente la relazione coi colleghi, che tenderanno quindi a estrometterlo dal gruppo. Un’aggravante è data poi dal fatto che, non confrontandoti con gli altri, puoi irrigidirti sulle tue posizioni, andando in una sola direzione con ostinazione e senza spirito critico.
Mille cose insieme
Questo tipo di energia lavorativa è labirintica. La sua regola è il movimento, fatto di accelerazioni, virate e brusche frenate. Non si ripete mai perché l’abitudine… la uccide.
La postura
Mai fermi. Sempre indaffarati su più fronti, anche da seduti siamo in continuo movimento. Veloci come l’aria, non procediamo mai in linea retta, ma andiamo a zig-zag, partiamo di scatto per poi frenare bruscamente, fino ad arrivare ad… attorcigliarci su noi stessi. Ecco perché fatichiamo a mantenere la postazione di lavoro: spesso ci troviamo fuori dal nostro spazio e invadiamo quello degli altri. Mentre telefoniamo, prendiamo appunti o scorriamo lo sche...