Rogério de Campos pensò che la sua ora fosse venuta. Il ponte del Rey de Reyes somigliava al pavimento di un mattatoio. Il sangue scorreva a rivoli o si espandeva a macchie, tra gli alberi abbattuti, i fasci di vele e gli intrichi di sartiame reciso. Alcuni moribondi e mutilati si lamentavano ancora, oppure gridavano invocando Gesù o la Madonna. I pirati si aggiravano tra i corpi, tagliando con freddezza la gola ai superstiti, e gettando i cadaveri in mare, anche quando si trattava di loro compagni senza speranze di guarigione. Spazzavano via i piedi di cervo, i chiodi a quattro punte lanciati al momento dell’assalto. L’odore di sangue era così penetrante da superare quello della salsedine, e stordiva.
L’uomo biondo e dalla pelle bruna che aveva guidato l’abbordaggio, una pistola carica in una mano e una corta sciabola nell’altra, guardò i superstiti, una ventina in tutto.
«Chi di voi è cannoniere?» domandò in uno spagnolo approssimativo.
Dopo un’esitazione, quattro uomini alzarono la mano.
«Bene. Avete la scelta tra finire in pasto agli squali e venire con noi.» Indicò con la sciabola il brigantino addossato al galeone, con gli alberi intatti, eccetto quello di mezzana, lievemente danneggiato. «Chi di voi si arruola?»
Si levarono quattro braccia tremanti.
«Direi che avete fatto la scelta giusta» sogghignò il mulatto dalla capigliatura bionda. «Benvenuti tra i Fratelli della Costa. Passate sul Neptune.» Sputò oltre l’impavesata di tribordo. «Veniamo ora agli ufficiali e ai sottufficiali. Ce ne sono, tra questi signori?»
Non vi fu risposta. La paura paralizzava le lingue. Rogério temeva di morire da un momento all’altro, tanto era il terrore che provava. Il suo cuore batteva palpiti rapidi e irregolari. Respirava con affanno. Notò appena i cannonieri che si avviavano alla fiancata, diretti al brigantino dalla bandiera nera, sotto le spinte di pirati nerboruti e lordi di sangue. Intanto i paranchi cigolavano e sollevavano le reti che avrebbero trasbordato le merci dal galeone alla nave che lo affiancava.
«Vi ho fatto una domanda» disse il mulatto, spazientito. Agitò lo sciabolotto. «Siete muti? Non vi ho fatto ancora tagliare la lingua, ma posso provvedere tra breve. Dov’è il capitano?»
«È morto in combattimento» si decise a rispondere il maestro d’ascia.
«E gli ufficiali?»
«Morti anche loro.» Si sporse un poco e additò Rogério. «Resta solo il nostromo.»
Rogério lo odiò, ma c’era poco da fare. Abbassò il capo, come se ciò potesse rimpicciolirlo e renderlo invisibile.
«Ah, un nostromo!» esclamò il comandante pirata, con interesse. «Sul Neptune ne ho già uno, però so che il capitano De Grammont ha perso il suo. Ne cerca un altro.»
Rogério, sempre chino, vide apparirgli dinanzi un paio di stivali a sbuffo dalla suola sporca di sangue, pantaloni grigi e i lembi di un mantello dello stesso colore, oltre alla guaina di una spada lunghissima, inadatta agli sciabolotti e alle daghe usati nell’arrembaggio.
«Guardami in faccia, idiota» ordinò il pirata, brutale ma senza collera. «Sei spagnolo? Quanti anni hai?»
Rogério si sollevò la mano sul capo per non fare cadere l’ampio cappello. Trovò la voce per rispondere: «Sono portoghese, signore, e devoto suddito di Pietro II, re della mia terra. Navigo da cinque anni. In effetti servivo sul Rey de Reyes come nostromo. Ho trentadue anni, compiuti da un mese.»
Le ultime parole, Rogério le dovette quasi urlare. Il frastuono era divenuto infernale. Ai lamenti, alle esclamazioni e allo stridio dei cordami si era adesso aggiunto un suono insolito, proveniente dal Neptune. Sul cassero del brigantino aveva preso posto una piccola orchestra, formata da quattro tamburini, due trombettieri e un violinista. I sette uomini suonavano una specie di inno marziale, forse un canto di vittoria o di lavoro. Il rullare dei tamburi prevaleva sugli altri strumenti. Fatto sta che la musica parve dare nuova lena ai pirati impegnati nel trasbordo. Rogério capì da dove proveniva la marcia languida e macabra che aveva preceduto l’abbordaggio al suo galeone. Mesi dopo avrebbe imparato che era chiamata regaine, cantilena. Causa il vento contrario, era sembrata avere scaturigini remote.
Quei suoni non infastidirono il mulatto, che proseguì: «Come mai un portoghese era al servizio dei peggiori nemici del suo paese?».
La domanda non prometteva nulla di buono. Rogério si sforzò di essere convincente. «Mio padre fu deportato a Siviglia quando il Portogallo apparteneva alla Spagna. Io sono nato là, però mi sento portoghese.» C’era poco di vero, ma suonava credibile.
«Da quanto tempo sei nostromo?»
«Da circa un anno.»
«Non è molto, ma De Grammont dovrà accontentarsi. Passa sul Neptune.»
Solo allora Rogério osò guardare da capo a piedi il capitano della nave nemica. Era abbastanza alto, magro, con baffetti fini, pizzo e capelli biondi lunghissimi. Aveva occhi azzurri mobili e vivaci, stranamente contrastanti con la carnagione. Malgrado la brutalità che stava esercitando, c’era una certa eleganza sia nei tratti del suo viso bruno sia nelle sue movenze. La voce era roca e dura, però con un misterioso sottofondo di gentilezza naturale.
Il capitano stava dicendo ai prigionieri, rimasti una quindicina in tutto, dopo la diserzione dei quattro cannonieri: «Sarò pietoso e vi lascerò in vita. Gli arruolamenti a forza non fanno per me. Del Rey de Reyes è rimasto quasi intatto solo l’albero maestro. Lo farò abbattere e inchioderò il timone. Dopo, se sarete soccorsi alla deriva, dipenderà dalle vostre preghiere e dal potere del vostro papa».
«Ci condannate a morte!» piagnucolò il maestro d’ascia. «Avete preso acqua e viveri!»
«Siete già morti. Io vi concedo qualche giorno in più. Ringraziate se non vi affondo.»
Il grosso pirata, gocciolante sangue da un taglio sulla fronte, che stava sospingendo Rogério alla murata di tribordo commentò: «Mai visto il capitano Lorencillo tanto generoso. Quelli non sanno la loro fortuna. Di solito, sulle navi spagnole catturate non lascia anima viva. Un tempo non era così, ma adesso è costume.»
«Lorencillo?»
«Lo chiamiamo in questo modo, ma il suo vero nome è Laurens de Graaf. Forse ti dice qualcosa.»
Rogério trasalì. Laurens de Graaf, nel mar dei Caraibi, lo conoscevano tutti. Era tra gli sciacalli più spietati che si nascondevano nella fascia di mare racchiusa tra Hispaniola e la Isla de la Tortuga (La Tortue, per i francesi che la governavano). Nel 1683, due anni prima, aveva preso Veracruz, assieme al suo maestro d’allora, il misterioso cavaliere De Grammont. Era stata un’orgia di crudeltà, durata settimane. Sugli abitanti della città, facoltosi o al servizio di potenti, rinchiusi in una cattedrale minata, era stata sperimentata ogni forma di supplizio. Si trattava di indurli a confessare dove avessero nascosto le ricchezze loro o dei padroni. Alle suore, che Lorencillo detestava perché luterano e De Grammont in quanto ateo, era toccata la sorte peggiore: essere stuprate da torme di pirati e poi stipate nel lazzaretto, a contatto con i lebbrosi. I Fratelli della Costa, venuto il tempo, erano salpati da Veracruz lasciandosi alle spalle un centinaio di morti, e altrettanti moribondi.
«Aspetta, adesso» disse l’accompagnatore di Rogério. «Passati i negri, andiamo anche noi.»
Il Rey de Reyes e il più basso Neptune erano tenuti giunti, oltre che dai grappini d’abbordaggio, da funi, precarie passerelle e fasci di griselle tagliate e usate come ponticelli. Su quei supporti insicuri si stavano facendo passare gli schiavi negri scovati nelle stive del galeone. Una delle merci più ambite dai pirati, che normalmente trascuravano ciò che non fosse denaro contante, lingotti d’oro o balle di stoffe raffinate.
Gli schiavi, nudi o seminudi, barcollavano sulle passerelle o strisciavano sulle corde, in preda a un evidente terrore. Chi di loro guardava in basso, nel lembo di mare che separava le due navi affiancate, certo notava le pinne degli squali attratti dal troppo sangue versato in acqua.
«Ci sono anche delle negre femmine!» rise la guida di Rogério. «Arrivati alla Tortuga ci divertiremo!» Fece una pausa, poi staccò le mani dalla murata. «Ecco l’ultimo degli schiavi. Speravo fossero di più. Seguimi, nostromo. Si va sul Neptune.»
Passarono carponi su due fasci di sartiame arrotolato tesi fra i velieri. Intanto, sulle loro teste, altri pirati, agili come scimmie, trasbordavano appesi alle funi, oppure semplicemente, dopo una breve rincorsa, saltavano da un ponte all’altro, a rischio di cadere in mare o di spezzarsi le gambe.
Rogério, avvezzo ai comportamenti formali della marineria spagnola mercantile e da guerra, era intimorito e al tempo stesso affascinato dall’animalità dei fuorilegge. Mise piede sul Neptune mentre ancora l’orchestrina rullava i tamburi e suonava marcette. Fu come atterrare in un nuovo mondo.
Nulla, sul brigantino a palo, cioè con tre alberi, ricordava ciò cui era avvezzo. Sul ponte regnava la più totale confusione di uomini e oggetti. Barili rotolavano da una murata all’altra a ogni ondata, pirati troppo anziani per abbordare fumavano lunghe pipe seduti sui pennoni di rispetto e si godevano lo spettacolo della presa del galeone come a teatro. C’era sporcizia ovunque. Sul castello di poppa, nello spazio di norma riservato agli ufficiali, sostavano cinque individui torvi vestiti di pelli, con fucili alti quanto loro. Si poggiavano alle armi come a stampelle. I pantaloni corti e le gambe nude e pelose erano la sola concessione al caldo torrido. Attorniavano il timoniere, un ragazzo biondo dall’espressione infantile. I loro colpi avevano causato i primi vuoti fra i difensori del Rey de Reyes.
Rogério, già scosso, per non dire terrorizzato, alzò gli occhi al parrocchetto. Vi sventolava la Jolie Rouge: un simbolo noto, detto dagli inglesi Jolly Roger. Era una bandiera di colore rosso o, in quel caso, nero, esibita al momento dell’attacco (dopo un profluvio di insegne fasulle) per spaventare la preda. Ogni filibustiere aveva la sua. In questo caso la stoffa era nera, e vi era cucito un teschio che sovrastava due tibie incrociate, con sotto una piccola clessidra. L’emblema dimostrava l’appartenenza ai Fratelli della Costa, i pirati fedeli al re di Francia. La clessidra voleva dire: “Badate, il vostro tempo è venuto”. O qualcosa di simile.
L’uomo dalla fronte insanguinata disse: «Rimani qua, ci vedremo più tardi. Sono stato anch’io nostromo sotto Michel Le Basque, anni fa. Mi chiamo Henri Du Val. Potrei darti buoni consigli».
Prima che Rogério avesse il tempo per replicare, il pirata si aggrappò a una cima penzolante e, presa una breve rincorsa, saltò sul ponte del galeone. Il portoghese rimase nuovamente stupito – per meglio dire, ammirato – dall’agilità animale di cui i pirati davano prova. Si domandò se non fosse quella una delle chiavi del loro successo.
Fu afferrato per un braccio da un uomo giovane ma già grinzoso, che aveva sul capo il largo fazzoletto che tutti i marinai portavano sotto il cappello per frenare i rivoli di sudore. In quel caso, però, il cappello mancava.
«Sei un prigioniero, no? Vieni alle pompe. C’è bisogno di gente alle pompe» disse il pirata in francese.
Rogério si irrigidì un poco. «Sono un nostromo. Il vostro capitano mi ha arruolato in quanto tale.»
«E allora?» Il marinaio gli rise in faccia, senza allegria. «Nostromo, scendi con me e non farmi perdere la pazienza, porco d’un diavolo. Il Neptune deve riprendere il mare. Vuoi seguirmi o preferisci che ti apra la pancia?»
Rogério notò che il brigantino aveva resistito meno di quanto avesse creduto ai cannoneggiamenti del Rey de Reyes. L’albero di mezzana, morso alla base, pendeva a tribordo. Sotto il carico del sartiame si sarebbe schiantato di lì a breve, e una decina di uomini cercavano di raddrizzarlo. Un tratto di murata era sparito, in corrispondenza del mascone di babordo. In basso, i danni dovevano essere stati maggiori.
«Andiamo» disse il marinaio. «E preparati a nuotare. La pompa è quasi sommersa.»
Il pirata si infilò in un boccaporto e ne scese la biscaglina. Rogério lo seguì. Si trovò in una specie di inferno.