Il caratteraccio
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Il caratteraccio

Come (non) si diventa italiani

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Il caratteraccio

Come (non) si diventa italiani

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Perché siamo come siamo, noi italiani? Perché ci piacciamo sempre di meno e cominciamo a trovarci antipatici? Che cosa è accaduto nella nostra storia nazionale, da Porta Pia alle Veline, che ha fatto di noi quello che siamo diventati: rissosi, astiosi, perennemente "incazzati" contro gli altri e sfacciatamente ipocriti, capaci di celebrare il Family Day un giorno e di tradire la stessa Family il giorno dopo?
Vittorio Zucconi sceglie, fra i tanti possibili, dieci eventi chiave della storia d'Italia - dalla presa di Roma alla Grande Guerra, dal fascismo al boom economico, da Tangentopoli a Berlusconi, passando per la tv di Mike Bongiorno, i furgoncini Ape e la "gioiosa macchina da guerra" post comunista - in cerca di quel "cromosoma storto" che non ha permesso di "fare gli italiani". Sì, perché l' homo italicus, incline a denigrarsi con passione, ha ormai maturato la certezza di non possedere un vero carattere nazionale, ma un caratteraccio. Prendendo spunto da un ciclo di "lezioni americane" tenute agli studenti di una prestigiosa ed esclusiva università del Vermont, il Middlebury College, Zucconi mette da parte, rispettosamente, Boccaccio e Cavour per rivisitare, con la sua ironia affettuosa tessuta di deliziose esperienze personali e con la coscienza di rivolgersi non ad accademici, ma a chi della storia italiana sa molto poco (cioè quasi tutti), pregiudizi e cliché sul dramma pirandelliano degli italiani in cerca di se stessi. Per mostrarci che, con crudele e puntuale dispettosità, la storia ha fatto di noi un popolo condannato a essere sempre anti, il prefisso che si è rivelato il surrogato della nostra identità e la formula magica usata da partiti, curie, demagoghi, comunicatori e potenze straniere per controllarci e condizionarci. Dal Brennero a Lampedusa l'italiano è prima di tutto anticomunista, antiamericano, anticlericale, antilaicista, antifascista, antimeridionale, antiberlusconiano.
Siamo contro qualcosa, ergo esistiamo. Nessuno prima d'ora era riuscito a spiegare con una similitudine così folgorante la natura della nostra disperata democrazia, "sempre più simile alla rana di Galvani, che ha bisogno di periodiche scosse per muovere le zampette e sembrare viva, restando morta". Ma siamo sicuri che sia del tutto colpa nostra?

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852012426
Argomento
History
Categoria
World History

Introduzione

I ragazzacci

Fu all’ultima ora dell’ultima lezione dell’ultimo giorno, davanti al plotoncino di studenti americani che erano riusciti a sopravvivere al mio corso di storia italiana senza scappare, che mi assalì il dubbio che non dovrebbe mai sfiorare un generale, un chirurgo, un falegname o un bravo insegnante: di avere sbagliato tutto. Di avere insegnato, senza volerlo, il falso.
Per un mese, d’estate, avevo tenuto un corso di storia contemporanea per dodici studenti laureati, impegnati a ottenere un master in italiano o un dottorato in lingue moderne presso il College di Middlebury (Vermont), piccolo ma «esclusivo» e «prestigioso», come si dice nel gergo commerciale del mercato americano dell’istruzione, dove le università si pubblicizzano e si vendono come i dopobarba o le polizze auto.
Era accaduto che, dopo anni di discussioni e di resistenze, il vicerettore della Scuola di lingue, il professor Michael Geisler, un eminente linguista tedesco, famoso nel nostro campus per il suo rigore accademico e per le sue atroci cravatte, e il responsabile della Scuola italiana, il professor Antonio Vitti, magnifico esperto e cultore di cinema italiano che da generazioni infligge a diligenti scolari ore di Ladri di biciclette e Umberto D con implacabile devozione messianica, avevano convenuto che era tempo di affiancare ai classici corsi di linguistica, di letteratura, di arti figurative, di semiotica, di cinema, anche escursioni nella storia recente e nella vita quotidiana della nazione dove la lingua studiata si parla. Sembrava un concetto ovvio, perché trattandosi di una lingua ancora viva, anche se non proprio in ottima salute, è giusto conoscere anche come vivono coloro che la parlano. Ma persino nel Vermont, come in ogni altro pianeta della galassia, le facoltà non brillano mai per ansia di innovazione e di cambiamento delle loro routine.
Alla fine, l’idea del professor Vitti era stata approvata e aveva avuto successo con i clienti, vale a dire gli studenti. Insegnanti, scrittori, conferenzieri, persino quei braccianti della cultura che siamo noi giornalisti, tra i quali Beppe Severgnini e il sottoscritto, erano stati invitati a tenere corsi e tutti avevamo accettato con gioia.
Sono inviti, questi, che noi giornalisti, giustamente e perennemente corrosi dall’inconfessabile convinzione di stare alla letteratura e alla saggistica come un imbianchino sta a Raffaello Sanzio, accogliamo sempre con entusiasmo, anche per pochi o punti compensi. Siamo avidi di quella patina di rispettabilità che la cattedra offre a una professione generalmente e non immeritatamente considerata dal pubblico allo stesso livello di prestigio riservato a venditori di auto usate, avvocati cacciatori di ambulanze, escort (in romanesco: mignotte), ortodontisti con le rate della barca da pagare e pubblicitari (i parlamentari sono in tutto il mondo fuori da ogni categoria).
Una cattedra universitaria è per un giornalista quello che le tabaccherie-profumerie erano un tempo per le signore del marciapiede arrivate a fine carriera, ma abbastanza sagge e parsimoniose da avere messo da parte i sudaticci guadagni e da avere acquisito, praticando altre forme di commercio in età matura, una patente di rispettabilità sociale.
Naturalmente per tutti noi, e – temo – non soltanto per noi dilettanti della cattedra, vige la legge universale dell’accademia: «Chi sa fare le cose le fa, chi non le sa fare le insegna agli altri». Quella legge che John F. Kennedy non mancava mai di ricordare agli economisti e ai professori di finanza e business quando chiedeva malizioso: «Ma se sapete tutto di economia e finanza, mai dovete accontentarvi di un miserabile stipendio da professore, invece di fare miliardi in Borsa o nel commercio?». Vocazione, signor presidente, è la vocazione.
Anche per questo, e per le voci di «radio college» che avevano subito diffuso la notizia che io, il nuovo instructor, il professore, tenevo lezioni soltanto moderatamente noiose e molto diverse dalle solite mattonate cattedratiche, la classe si era affollata di studenti iscritti e di «uditori». Erano disposti anche ad ascoltare me, pur di risparmiarsi qualche ora di lectura Dantis o di diapositive sulla poetica del futurismo.
In maggioranza femmine, come ormai avviene in tutti i corsi e le facoltà universitarie umanistiche del mondo, e loro stessi sovente insegnanti di italiano in scuole medie o superiori, decisi a fare il salto su una cattedra universitaria, i miei studenti avevano all’inizio partecipato sbigottiti alle due ore di lezione quotidiana e alle discussioni che nelle aule americane devono obbligatoriamente – e giustamente – seguire le prediche dell’istruttore.
Nessuno di loro era preparato a sentirsi raccontare gli eventi che io avevo scodellato con il solo strumento del quale un giornalista disponga: la brutalità dei fatti.
A corso finito – e a voti già assegnati, quando l’arma letale nelle mani dell’insegnante è ormai scarica – alcuni mi avrebbero fatto sapere di avere commentato fra di loro, con stupore, quello che l’ometto strepitante e agitato sulla cattedra (io, l’esimio professore) aveva spiegato. E spesso illustrato con l’inevitabile proiezione di immagini sullo schermo. Alcune delle quali erano ai limiti della pornografia soft, con grande esibizione di chiappe, seni, gambe, ombelichi e resoconti di «colloqui carnali», come un tempo scrivevano i pudichi ed eufemistici rapporti di polizia per definire orge e ammucchiate.
Erano presentazioni molto diverse dalle dignitose diapositive di affreschi preraffaelliti, miniature, manoscritti, bassorilievi, citazioni, lemmi, sintassi, coniugazioni (di verbi), schemi interpretativi e comparati ai quali anni di studio li avevano abituati. Dalla donna angelicata degli stilnovisti duecenteschi al satanico sedere dell’onorevole Ilona Staller, in arte Cicciolina, condotta in campagna elettorale da un barbuto autista con fluenti chiome subito ribattezzato dai romani «Gesù Cri’» (da cui l’indimenticabile invocazione dei fedeli all’autista sulle piazze della città santa del cattolicesimo: «’a Gesù Cri’, fàcce vede ’e zinne»), o alle mirabili forme del futuro ministro Mara Carfagna, il salto – per loro – era stato effettivamente brusco.
Anche se avrebbero forse dovuto capire dal titolo del corso, «Gli scandali nell’Italia del dopoguerra», che non avremmo trattato di operette morali, di sonetti o di scandali polverosi e sterilizzati nella letteratura antica e negli immaginari inferi danteschi.
Avevo infatti chiarito subito che chiunque avesse trovato offensive immagini e situazioni sessualmente scabrose avrebbe potuto ritirarsi senza pregiudizio curricolare. Inoltre avrei molto apprezzato se avessero evitato di denunciarmi alla facoltà e agli amministratori del college come molestatore di fanciulle, un rischio sempre presente nelle aule e negli uffici americani dove la suscettibilità femminista è altissima, la correttezza politica un comandamento. Si può essere licenziati – caso vero – anche soltanto per avere esposto sulla propria scrivania una foto troppo esplicita della propria fidanzata.
Se si vuole conoscere l’Italia, avevo premesso, si deve avere il coraggio di guardarla in faccia, o in altre parti del corpo, per quello che è, non per quello che si vorrebbe che fosse. E questo avrebbe comportato il frugare nel gigantesco armadio di tutte le stagioni e tutti i colori degli scandali.
Lo scandalo, avevo detto per cercare di dare una patina di storiografia e di politologia al museo degli orrori nazionali che mi preparavo a visitare con loro, particolarmente in una nazione che sembra piuttosto indifferente a quelle oscenità costituzionali e legali che in altri paesi producono il crollo dei governanti come nell’America di Richard Nixon, per funzionare deve essere inevitabilmente impastato di due ingredienti fondamentali e spesso intrecciati fra di loro, le due «S», sesso e soldi. Meglio se conditi da qualche goccia di una terza «S»: il sangue.
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Non avrei potuto parlare di casi come il sempre irrisolto, mezzo secolo dopo, omicidio Montesi, quello che stravolse e travolse la dirigenza della Democrazia cristiana attorno al cadavere di una giovane donna trovato sulla spiaggia di Torvaianica e aprì la porta della segreteria ad Amintore Fanfani, senza descrivere il mondo della vera o immaginaria Dolce Vita romana, nel quale i giornali del tempo affondarono le proprie zappe con abbandono (chi crede che il gossip sia un’invenzione o una piaga recente dovrebbe frequentare le emeroteche o dedicare qualche ora a ricerche in rete).
Né avrei certo potuto trattare il tema della Tangentopoli che ribaltò il sistema dei partiti negli anni Novanta e spalancò, grazie alle leggendarie «toghe rosse» della nuova mitologia politica italiana, la strada alla fortuna politica di Silvio Berlusconi, senza affrontare argomenti e immagini poco letterarie.
E ancora eravamo nel luglio del 2007. Lontanissima era l’estate pruriginosa e bollente del 2009 con le sue Noemi Letizia e le sue cortigiane da harem con registratore incorporato, con il profumo di «neve» fresca caduta fuori stagione sulle feste e le ville della Sardegna. «Lei deve essere un genio, professore» mi avrebbe detto di lì a due anni Filomena, una delle mie studentesse più attente e sveglie, dopo avere già avuto il voto, quindi non sospettabile di piaggeria. «Come ha fatto a immaginare che tante donne potessero passare dai concorsi di bellezza e dai calendari sexy al potere politico?»
Mi dispiacque respingere la patente di genio o profeta, ma dovetti disingannarla subito. Non occorreva un grande acume per vedere che nelle corti italiane, abbagliate dalla tentazione del «velinismo» e dai lustrini del successo televisivo, la strada verso il successo politico sarebbe passata sempre di più per letti e lettoni. Come nella Hollywood degli Studios dove il casting per i film era, e ancora è, fatto più sui divani dei grandi produttori che nei provini ufficiali.
Nel mondo delle corti italiane da anni circolava il timore che una delle tre «S», il sesso, avrebbe creato qualche serio problemino. Nell’avere previsto l’avvento di quella che qualcuno, molto sgarbatamente ma con indubbia efficacia, avrebbe poi battezzato «puttanopoli» e sospettato di «mignottocrazia», mi ero dunque dimostrato banalmente, cara Filomena, soltanto un italiano con qualche esperienza.
La tesi centrale del corso era semplice, forse semplicistica, ma era diretta a studenti americani che di storia italiana poco o nulla sanno, essendo la storia in generale una delle discipline meno apprezzate nelle scuole americane di ogni ordine e grado. La storia raramente, se non mai, conduce a quelle scrivanie nelle megafinanziarie del più grande casinò del mondo, la Borsa di Wall Street, dalle quali si esce o con una scatola di cartone sotto il braccio o con fascine di soldi nello zainetto.
Sapevo dunque che la storia, e tanto più la cronaca italiana contemporanea, erano terra incognita per i miei studenti e avrei dovuto, con la pazienza e l’umiltà di chi non può mai dare nulla per scontato, applicare il famoso precetto del più bravo produttore e direttore di trasmissioni giornalistiche televisive americane, Don Hewitt, morto nel 2009. Per decenni era riuscito a fare del suo programma «60 Minutes» un perenne successo, sfidando telefilm, serial, varietà, con questo semplice consiglio: «Non dovete mai sottovalutare l’intelligenza del pubblico e non dovete mai sopravvalutare le sue conoscenze».
In parole più semplici, la gente, il pubblico, il lettore, lo studente, tutti noi, siamo molto meno stupidi di come ci credano, ma siamo anche molto più ignoranti di come crediamo di essere. E il consiglio di Hewitt, uno degli ultimi superstiti della grande scuola dell’informazione americana e della generazione degli Ed Murrow e dei Walter Cronkite, aveva sempre un corollario indispensabile: «Tell me a story», chiedeva ai suoi famosi inviati e giornalisti, raccontami una storia.
Gli studenti post-laurea, come anche la proverbiale casalinga di Voghera, la serva di Molière o l’operaio di Peoria (Illinois), come si dice negli Usa («se funziona a Peoria, funziona dovunque» era il motto), non sfuggono alla legge di Hewitt. Sono più intelligenti di quello che le loro espressioni catatoniche potrebbero far credere, ma più ignoranti di quello che proclamano gli attestati appesi alla parete.
Poche mani, fra le ventiquattro che avevo in classe, si erano alzate quando avevo condotto il semplice test di mostrare la vecchia foto di un politico romagnolo con gli occhi accesi, imbarazzato nelle sue ghette, insaccato nello scomodo frac, lo stiffelius, cappello duro a cilindro in testa e mascella volitiva serrata, e avevo chiesto di identificarlo: ahhh, uuuuhh, ehm, un paio avevano correttamente risposto «Mussolini», ed erano persone che provenivano dall’Italia o vivevano in Italia.
Nessuno aveva riconosciuto i volti di altri due uomini che, nella vicenda italiana contemporanea, hanno avuto ruoli fondamentali per fare dell’Italia quello che è: Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti, e non parliamo nemmeno di Camillo Benso conte di Cavour; tutti, fortunatamente per i somari, eclissati nella nostra storia dal «miglior presidente del Consiglio» mai visto in Italia dall’Unità, Silvio Berlusconi, riconoscibilissimo. Va detto per equità che non sarebbero molti gli studenti universitari italiani, tendenzialmente vergini di cultura storica e spesso anche di grammatica e sintassi, demolite dalla metrica degli sms scandita da +, x, -, in grado di riconoscerli.
La tesi del mio insolito corso era questa: lo scandalo è il solo motore dei cambiamenti, nel campionato di calcio come nel campionato delle poltrone, in una società tradizionalista e profondamente conservatrice e statica come la nostra, impregnata da secoli di asfissiante e marmorea ortodossia controriformista e dal mai davvero abolito Index Librorum Prohibitorum, l’indice dei libri, un conformismo assorbito e incorporato golosamente dal centralismo dogmatico del movimento comunista e poi dal «partito privato» organizzato da Berlusconi; allergica ai cambiamenti radicali e alle rivoluzioni; diffidente, per esperienza secolare, dello Stato; sempre affezionata alla mistica del «piove, governo ladro» poi elegantemente sublimata nell’invito «ad andare tutti affanculo» (tutti, meno colui che ti ci manda, naturalmente); radicata nella propria certezza che «c’hanno arrubato la partita».
Nel cuore infartato della società italiana dove la placca del cinismo da pizzeria e la cooptazione attraverso le famiglie e le corti ottunde la circolazione, lo scandalo è lo stent che apre a forza l’arteria occlusa. È il bypass coronarico che permette al debole organo dei cambiamenti di pulsare.
Le tre «S» sono la motivazione fondamentale di mutazioni che spesso sono soltanto apparenti, balletti, quadriglie nelle quali dame e cavalieri si scambiano i posti senza lasciare il salone della festa, ma che creano nella populace, nella gente, l’impressione della novità. Anche quando – come fu il caso del passaggio immaginario tra la Prima e la Seconda Repubblica – nella sostanza cambia ben poco.
Dei profondi e irrisolti problemi che affliggono dalla nascita la nostra penisola, come l’eterno pasticcio (nessun «conflitto») di interessi fra potere pubblico e privato, la perenne, e utilissima, arretratezza della società che continua a «fermarsi a Eboli» perché lì le fa comodo scendere dalla corriera, la metastasi delle organizzazioni criminali divenute parte integrante e motrice del sistema finanziario, l’emorragia di braccia e di talenti, pochi si interessano e meno si preoccupano fuori dai soporiferi convegni, dagli editoriali che soltanto gli autori leggono e dai ponderosi saggi.
Per scuotere l’opinione pubblica servono storie di corruzione troppo sfacciata per essere ignorata, come le mazzette divenute indispensabile voce dei capitolati d’appalto nella Milano «da bere», o le puttane, le veline, i balletti verdi o rosa che siano secondo la flottante moralità del momento, con preferenza per l’omosessualità. I Michele Sindona, i Licio Gelli, le bombe e i treni dilaniati sprofondano nello stagno dei mangiatori di loto, nella memoria breve, nelle cortine fumogene che si alzano per nascondere prima, per minimizzare e poi addirittura per riabilitare fieri e certificati gaglioffi, secondo il principio del «sono tutti uguali».
Ma le giovani donne misteriosamente morte sulla spiaggia con il reggicalze (ma senza calze! dettaglio che infiammò la fantasia morbosa dell’Italia perbenista del 1953 sulla povera Wilma Montesi), possibilmente spolverate da cocaina, scuotono e possono demolire, come ben sa anche il personaggio più politicamente longevo e potente dell’Italia repubblicana, Silvio Berlusconi, morso ferocemente alle caviglie e ferito da vicende boccaccesche apparentemente assai meno gravi delle accuse e delle imputazioni di malaffare addirittura mafioso che ne hanno accompagnato l’ascesa politica. Ma che mai lo hanno fermato o ne hanno intaccato la popolarità.
L’Italia resta la terra della revolutio interrupta, dove gli aspiranti rivoltosi lanciano sassi, pubblicano febbrili volantini, ammazzano qualche disgraziato assurto a simbolo del momento cercando di colpire quel «cuore dello Stato» che solo dopo i massacri compiuti gli autori scoprono non esiste, essendo l’Italia una gelatina nella quale si possono conficcare coltelli senza mai raggiungere il cuore. I dissidenti, gli insurgentes, si prestano al lavoro sporco di servizi e potenze straniere, spruzzano slogan feroci sulle pareti, assaltano i forni, uccidono un re, marciano su Roma con la complicità del sovrano imbelle e delle sue truppe regie, secondo l’eterna illusione imperiale della cooptazione e dell’assorbimento del «re barbaro». Fino a quando ci si accorge, sempre troppo tardi, che ci sono in città più barbari che romani e si deve ricominciare tutto da capo e puntellare le rovine. Ma perché il potere tremi davvero, il potente deve essere accusato di avere baciato una polposa fanciulla (baciato essendo evidentemente un’allegoria), non di avere baciato un mammasantissima mafioso.
La revolutio interrupta, come il suo sconsigliabilissimo equivalente nel sesso (capite ora perché avevo dovuto avvertire le mie studentesse di tenersi forte alle mie lezioni), può produrre grandi orgasmi, autentici o simulati, grida e gemiti, ma raramente, e sempre non intenzionalmente, partorisce creature nuove. Magari molto diverse dai genitori, secondo un’altra ferrea legge, quella delle «conseguenze impreviste» e della «famiglia prima di tutto». Anche il terrorismo rosso, quello più puro e duro, conosceva una pausa nel mese di agosto, quando i tremendi rivoluzionari e avanguardie del partito armato dovevano, come rivelò un pentito, portare al mare le famiglie. E se davvero i morti potessero rivoltarsi nelle loro tombe, molte amare giravolte dovrebbero fare quelle quasi trecento vittime del partito armato se sapessero che i loro assassini mossi da febbrile ansia trotzkista-leninista-guevarista-maoista avrebbero aperto la strada ai Craxi, ai Forlani, agli shopping center e all’impero dei lustrini e degli imbonitori da teleschermo.
Lo scandalo è libretto da melodramma, commuove tutti e non cambia niente, quando cala il sipario, per noia e stanchezza inverse all’agitazione e agli acuti. Se le tre «S» – sangue, sesso e soldi – riescono a generare qualcosa, anche soltanto l’impressione del cambiamento, esso deve comunque sempre esplodere e consumarsi all’interno delle classi dirigenti, mai con moti provenienti dall’esterno del proverbiale Palazzo. Anche le rivoluzioni, in Italia, sono fatte da chi già detiene il potere.
Dal voto del Gran Consiglio fascista nel 1943, che si suicidò credendo di abbattere soltanto chi lo aveva creato e salvare il collo ai dissidenti, alla denuncia delle candidature di veline che fece scattare l’estate bollente di Berlusconi nel 2009, partita da insinuazioni avanzate inizialmente dall’interno del partito al governo, il Popolo della Libertà (appunto), e poi segnata dalla denuncia venuta dal massimo dell’inside, dalla famiglia stessa del capo del governo attraverso la moglie Veronica, lo scandalo diventa il motore della «quadriglia» soltanto se smuove gli ingranaggi interni al potere, mai quelli esterni. Persino la tanto venerata o esecrata Tangentopoli ebbe origine non da diseredati lanciati all’assalto del Palazzo, ma dall’interno della magistratura che è, costituzionalmente, un potere interno e non esterno allo Stato.
Avevo dunque scelto, deliberatamente, un elemento di shock nel cursus di questi studenti americani, secondo un criterio più giornalistico che accademico. Volevo scuoterli, costringerli a prestare attenzione e a fare qualche riflessione, spingendosi oltre il collaudato e pigro meccanismo dell’imparare quello che il professore vuole e rigurgitarglielo addosso alla fine per ottenere il voto necessario al proseguimento dell’iter accademico.
Le miss con il sedere all’aria, i cadaveri degli affaristi suicidi o assassinati, i volti dei politici sorpresi con le dita nel barattolo della marmellata o altrove, la gazzarra di monetine e di nodi scorsoi lanciati e agitati in Parlamento da moralisti con le code di paglia desiderosi soltanto di sostituire quelli che fingevano di voler linciare, l’uso del sesso, che nell’Italia implacabilmente maschilista e ipocrita significa sempre l’esibizione del corpo femminile o l’infamante accusa di omosessualità, come strumento di consenso, l’immagine incancellabile e imperdonabile della nudità di Claretta Petacci, l’Amante, la donnaccia, colpevole di null’altro...

Indice dei contenuti

  1. Indice
  2. Introduzione
  3. Il vento dell’Est
  4. Santi e briganti
  5. Di qua e di là del Piave
  6. Mangia e taci
  7. Mare nero, mare rosso
  8. La carica delle Cinquecento
  9. Una mosca a Torino
  10. Il crollo
  11. Su dai canali
  12. Meno male che Ahmed c’è
  13. Dicono di noi (come gli studenti americani vedono gli italiani)
  14. Ringraziamenti e scuse
  15. Bibliografia