La solitudine dei numeri primi
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La solitudine dei numeri primi

Paolo Giordano

  1. 312 pagine
  2. Italian
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La solitudine dei numeri primi

Paolo Giordano

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Informazioni sul libro

Alice ha sette anni e odia la scuola di sci, ma suo padre la obbliga ad andarci. È una mattina di nebbia fitta, lei ha freddo e il latte della colazione le pesa sullo stomaco. In cima alla seggiovia si separa dai compagni e, nascosta nella nebbia, se la fa addosso. Per la vergogna decide di scendere a valle da sola, ma finisce fuori pista, spezzandosi una gamba. Resta sola, incapace di muoversi, al fondo di un canalone innevato, a domandarsi se i lupi ci sono anche in inverno.
Mattia è un ragazzino intelligente con una gemella ritardata, Michela. La presenza costante della sorella umilia Mattia di fronte ai suoi coetanei. Per questo, la prima volta che un compagno di classe li invita entrambi alla sua festa, Mattia decide di lasciare Michela nel parco, con la promessa che tornerà presto da lei.
Questi due episodi iniziali, con le loro conseguenze irreversibili, saranno il marchio impresso a fuoco nelle vite di Alice e di Mattia, adolescenti, giovani e infine adulti. Le loro esistenze, così profondamente segnate, si incroceranno e i due protagonisti si scopriranno strettamente uniti eppure invincibilmente divisi. Come quei numeri speciali, che i matematici chiamano primi gemelli: due numeri primi separati da un solo numero pari, vicini ma mai abbastanza per toccarsi davvero.
Questo romanzo è la storia dolorosa e commovente di Alice e di Mattia, e dei personaggi che li affiancano nel loro percorso. Paolo Giordano tocca con sguardo lucido e profondo, con una scrittura di sorprendente fermezza e maturità, una materia che brucia per le sue implicazioni emotive. E regala ai lettori un romanzo capace di scuotere per come alterna momenti di durezza e di spietata tensione a scene più rarefatte e di trattenuta emozione, piene di sconsolata tenerezza e di tenace speranza.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852014062

Quello che rimane
(2007)

31

Suo padre telefonava il mercoledì sera, tra le otto e le otto e un quarto. Negli ultimi nove anni si erano visti poche volte e dall’ultima era già passato molto tempo, ma il telefono non aveva mai squillato a vuoto nel bilocale di Mattia. Nelle lunghe pause tra le parole emergeva lo stesso silenzio dietro entrambi, niente televisioni o radio accese, mai degli ospiti a far tintinnare le posate sui piatti.
Mattia riusciva a immaginare sua madre che dalla poltrona ascoltava la telefonata senza cambiare espressione, con entrambe le braccia appoggiate ai braccioli, come quando lui e Michela facevano le elementari e lei si sedeva lì ad ascoltarli recitare le poesie a memoria e Mattia le sapeva sempre mentre Michela taceva, incapace di qualunque cosa.
Ogni mercoledì, dopo aver riagganciato, Mattia si trovava a domandarsi se il rivestimento a fiori arancio della poltrona fosse ancora lo stesso o se i suoi l’avessero sostituito, logoro com’era già a quel tempo. Si domandava se i suoi fossero invecchiati. Di certo erano invecchiati, lo sentiva nella voce di suo padre, più lenta e affaticata. Lo sentiva dal suo respiro, che si era fatto rumoroso nel telefono, sempre più simile a un affanno.
Sua madre prendeva in mano la cornetta solo ogni tanto e le sue erano domande di rito, sempre le stesse. Fa freddo, hai già cenato, come vanno i tuoi corsi. Qui si cena alle sette, aveva spiegato Mattia le prime volte. Ora si limitava a dire sì.
«Pronto?» rispose.
Non c’era alcun motivo per dirlo in inglese. Il suo numero di casa ce l’avevano sì e no dieci persone e nessuna di loro si sarebbe sognata di cercarlo a quell’ora.
«Sono papà.»
Il ritardo nella risposta era appena apprezzabile. Mattia avrebbe dovuto portarsi un cronometro per misurarlo e poter calcolare quanto il segnale deviasse dalla linea retta di oltre mille chilometri che congiungeva lui e suo padre, ma se ne dimenticava ogni volta.
«Ciao. Stai bene?» disse Mattia.
«Sì. E tu?»
«Bene… La mamma?»
«È qui.»
Il primo silenzio cadeva sempre in questo punto, come una boccata d’aria dopo la prima vasca in apnea.
Mattia raschiò con l’indice la scalfittura nel legno chiaro del tavolo rotondo, a circa una spanna dal centro. Non si ricordava neppure se l’aveva fatta lui o se erano stati i vecchi inquilini. Appena sotto la superficie smaltata c’era del truciolato compresso, che gli finì sotto l’unghia senza fargli male. Ogni mercoledì scavava quella fossetta di qualche frazione di millimetro, ma non gli sarebbe bastata una vita intera per passare dall’altra parte.
«Allora l’hai vista, l’alba?» chiese suo padre.
Mattia sorrise. Era un gioco che c’era tra di loro, l’unico forse. Circa un anno prima, da qualche parte in un giornale, Pietro aveva letto che l’alba sul mare del Nord è un’esperienza imperdibile e la sera aveva letto il trafiletto al figlio, per telefono. Devi andarci assolutamente, gli aveva raccomandato. Da quel giorno glielo chiedeva, di tanto in tanto: allora l’hai vista? Mattia rispondeva sempre no. La sua sveglia era puntata alle otto e diciassette minuti e la strada più breve per l’università non passava dal lungomare.
«No, ancora niente alba» rispose.
«Be’, tanto non scappa» fece Pietro.
Rimasero già senza parole, ma indugiarono qualche secondo, con la cornetta appoggiata all’orecchio. Entrambi respirarono un po’ di quell’affetto che ancora resisteva tra di loro, diluito lungo centinaia di chilometri di cavi coassiali e alimentato da qualcosa di cui non sapevano il nome e che forse, se ci avessero pensato bene, non esisteva più.
«Mi raccomando, allora» disse Pietro alla fine.
«Certo.»
«E cerca di stare bene.»
«Okay. Saluta la mamma.»
Riagganciarono.
Per Mattia era la fine della giornata. Girò intorno al tavolo. Guardò distrattamente i fogli impilati da una parte, con il lavoro che si era portato dall’ufficio. Era ancora inchiodato su quel passaggio. Da dovunque prendessero la dimostrazione, lui e Alberto finivano sempre per andarci a sbattere contro, prima o poi. Se lo sentiva che dietro quell’ultimo ostacolo c’era la soluzione, che passato quello arrivare al fondo sarebbe stato facile, come lasciarsi rotolare giù da un prato a occhi chiusi.
Era troppo stanco per riprendere il lavoro. Andò in cucina e riempì un pentolino con l’acqua del rubinetto. Lo mise sui fornelli e accese il fuoco. Passava così tanto tempo da solo che una persona normale sarebbe impazzita nel giro di un mese.
Si sedette sulla sedia pieghevole di plastica, senza rilassarsi del tutto. Alzò gli occhi verso la lampadina che pendeva dal centro del soffitto, spenta. Si era fulminata appena un mese dopo l’arrivo di Mattia e lui non l’aveva mai sostituita. Mangiava con la luce accesa nell’altra stanza.
Se quella sera fosse semplicemente uscito dall’appartamento e non ci fosse più tornato, nessuno avrebbe trovato là dentro dei segni del suo passaggio, a esclusione di quei fogli incomprensibili ammucchiati sul tavolo. Mattia non ci aveva messo nulla di sé. Si era tenuto l’arredamento anonimo in rovere chiaro e quella tappezzeria ingiallita, appiccicata ai muri da quando la casa era stata costruita.
Si alzò. Versò l’acqua bollente in una tazza e ci immerse una bustina di tè. Guardò l’acqua colorarsi di scuro. La fiammella di metano era ancora accesa e nella penombra era di un azzurro violento. Abbassò il fuoco fin quasi a spegnerlo e il sibilo si affievolì. Avvicinò la mano al fornello, dall’alto. Il calore esercitava una debole pressione sul suo palmo devastato. Mattia la fece scendere, lentamente, e la chiuse intorno alla fiamma.
Gli veniva in mente ancora adesso, dopo le centinaia e poi migliaia di giornate tutte uguali trascorse all’università e gli altrettanti pranzi consumati alla mensa, nella palazzina bassa in fondo al campus. Si ricordava del primo giorno in cui era entrato e aveva copiato la sequenza dei gesti dalle altre persone. Si era messo in coda e a piccoli passi aveva raggiunto la pila dei vassoi di legno plastificato. Vi aveva disposto sopra la tovaglietta di carta, si era munito delle posate e di un bicchiere. Poi, una volta di fronte alla signora in divisa che faceva le porzioni, aveva indicato una delle tre vaschette di alluminio, a caso, senza sapere che cosa ci fosse dentro. La cuoca gli aveva chiesto qualcosa, nella sua lingua o forse in inglese, e lui non aveva capito. Aveva di nuovo indicato la vaschetta e quella aveva ripetuto la domanda, uguale identica a prima. Mattia aveva scosso la testa. I don’t understand, aveva detto, con una pronuncia spigolosa e stentata. La signora aveva alzato gli occhi al cielo e aveva sventolato per aria il piatto ancora vuoto. She’s asking if you want a sauce, aveva detto il ragazzo di fianco a Mattia. Lui si era girato di scatto, disorientato. Io… I don’t…, aveva detto. Sei italiano?, gli aveva fatto quello. Sì. Ti ha chiesto se vuoi una salsa in quella porcheria. Mattia aveva scosso la testa, frastornato. Il ragazzo si era voltato verso la signora e le aveva detto semplicemente no. Lei gli aveva sorriso e finalmente aveva riempito il piatto di Mattia e l’aveva fatto scivolare sul ripiano. Il ragazzo aveva preso lo stesso e prima di poggiare il piatto sul vassoio se l’era avvicinato al naso e l’aveva annusato con disgusto. Questa roba fa schifo, aveva commentato.
Sei appena arrivato, eh?, gli aveva domandato dopo un po’, ancora fissando la purea liquida dentro il piatto. Mattia aveva detto sì e lui aveva annuito accigliato, come se si trattasse di qualcosa di serio. Dopo aver pagato, Mattia era rimasto impalato di fronte alla cassa, con il vassoio stretto tra le mani. Con lo sguardo aveva cercato un tavolo vuoto in fondo alla sala, dove avrebbe potuto dare le spalle a tutti e non sentirsi troppe paia di occhi addosso mentre mangiava da solo. Aveva appena fatto un passo in quella direzione, che il ragazzo di prima gli era passato davanti e aveva detto vieni, da questa parte.
Alberto Torcia era lì già da quattro anni, con una posizione permanente da ricercatore e un finanziamento speciale, ottenuto dall’Unione europea per la qualità delle sue ultime pubblicazioni. Anche lui era scappato da qualcosa, ma Mattia non gli aveva mai domandato da cosa. Nessuno dei due, dopo tanti anni, avrebbe saputo se definire l’altro un amico o semplicemente un collega, nonostante condividessero l’ufficio e pranzassero insieme tutti i giorni.
Era martedì. Alberto sedeva di fronte a Mattia e, attraverso il bicchiere pieno d’acqua che lui si portò alle labbra, intravide il nuovo segno, livido e perfettamente circolare, che aveva sul palmo. Non gli chiese nulla, si limitò a guardarlo storto per fargli intendere che aveva capito. Gilardi e Montanari, al tavolo insieme a loro, sghignazzavano di qualcosa che avevano trovato su internet.
Mattia vuotò il bicchiere in un sorso. Poi si schiarì la gola.
«Ieri sera mi è venuta in mente un’idea per quella discontinuità che…»
«Ti prego, Matti» lo interruppe Alberto, mollando la forchetta e tirandosi indietro sullo schienale. Gesticolava sempre in modo esagerato. «Abbi pietà almeno mentre mangio.»
Mattia abbassò la testa. La fettina di carne nel suo piatto era tagliata a quadratini tutti uguali e lui li separò con la forchetta, lasciando tra di essi una griglia regolare di linee bianche.
«Ma perché la sera non fai altro?» riprese Alberto più piano, come se non volesse farsi sentire dagli altri due. Mentre parlava disegnava con il coltello dei piccoli cerchi nell’aria.
Mattia non disse nulla e non lo guardò. Si portò alla bocca un quadratino di carne, scelto tra quelli del contorno che con i loro bordi frastagliati disturbavano la geometria della composizione.
«Se tu ogni tanto venissi a bere qualcosa con noi» continuò Alberto.
«No» fece Mattia, secco.
«Ma…» cercò di protestare il collega.
«Tanto lo sai.»
Alberto scosse la testa e aggrottò la fronte, sconfitto. Ancora insisteva, dopo tutto quel tempo. Da che si conoscevano era riuscito a trascinarlo fuori casa sì e no una decina di volte.
Si rivolse agli altri due, interrompendoli nel loro discorso.
«Ehi, ma quella l’avete vista?» fece, indicando una ragazza seduta due tavoli più in là in compagnia di un signore anziano. Per quanto ne sapeva Mattia, lui insegnava al dipartimento di Geologia. «Se non fossi sposato, Cristo, cosa le farei a una così.»
Gli altri due ebbero un momento di esitazione, perché nel loro discorso non c’entrava per niente, ma poi lasciarono perdere e andarono dietro ad Alberto mettendosi a fantasticare sul perché uno schianto del genere fosse finito al tavolo con quel vecchio trombone.
Mattia tagliò tutti i quadratini di carne lungo la diagonale. Poi ricompose i triangoli in modo da formarne uno più grande. La carne era già fredda e stopposa. Ne prese un pezzo e lo ingoiò quasi intero. Il resto lo lasciò lì dov’era.
Fuori dalla mensa Alberto si accese una sigaretta, per dare a Gilardi e Montanari il tempo di allontanarsi. Attese Mattia, più indietro di qualche passo rispetto a loro, che camminava a testa bassa, lasciandosi condurre da una crepa rettilinea lungo il marciapiede e pensando a qualcosa che non aveva nulla a che fare con l’essere lì.
«Cosa mi stavi dicendo sulla discontinuità?» gli fece.
«Non ha importanza.»
«Dài, non fare lo stronzo.»
Mattia guardò il collega. La punta della sigaretta tra le sue labbra era l’unico colore acceso in quella giornata tutta grigia, uguale alla precedente e di sicuro anche alla successiva.
«Non ce ne possiamo liberare» fece Mattia. «Ormai ci siamo convinti che è lì. Però forse ho trovato un modo per cavarne qualcosa di interessante.»
Alberto si fece più vicino. Non interruppe Mattia finché lui non ebbe finito di spiegargli, perché lo sapeva che Mattia parlava poco ma, quando lo faceva, valeva la pena di stare zitti e ascoltare.

32

Il peso...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La solitudine dei numeri primi
  4. L’angelo della neve (1983)
  5. Il Principio di Archimede (1984)
  6. Sulla pelle e appena dietro (1991)
  7. L’altra stanza (1995)
  8. Dentro e fuori dall’acqua (1998)
  9. Messa a fuoco (2003)
  10. Quello che rimane (2007)
  11. Ringraziamenti
  12. Copyright
Stili delle citazioni per La solitudine dei numeri primi

APA 6 Citation

Giordano, P. (2010). La solitudine dei numeri primi ([edition unavailable]). Mondadori. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3299890/la-solitudine-dei-numeri-primi-pdf (Original work published 2010)

Chicago Citation

Giordano, Paolo. (2010) 2010. La Solitudine Dei Numeri Primi. [Edition unavailable]. Mondadori. https://www.perlego.com/book/3299890/la-solitudine-dei-numeri-primi-pdf.

Harvard Citation

Giordano, P. (2010) La solitudine dei numeri primi. [edition unavailable]. Mondadori. Available at: https://www.perlego.com/book/3299890/la-solitudine-dei-numeri-primi-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Giordano, Paolo. La Solitudine Dei Numeri Primi. [edition unavailable]. Mondadori, 2010. Web. 15 Oct. 2022.