Innocente
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Innocente

Una storia vera

  1. 336 pagine
  2. Italian
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Innocente

Una storia vera

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Informazioni sul libro

L'8 dicembre 1982, nella tranquilla cittadina di Ada, in Oklahoma, la giovane Debbie Carter viene violentata e uccisa barbaramente. Il suo corpo verrà ritrovato da un'amica nudo, coperto di sangue e di incomprensibili scritte. Dopo alcuni anni passati a brancolare nel buio, gli inquirenti incriminano Ron Williamson, già noto alle forze dell'ordine per i suoi comportamenti stravaganti: un'ex promessa del baseball rovinato da un infortunio, disturbato da problemi mentali e dalla dipendenza da alcol e droghe. Nonostante gridi la propria innocenza, Williamson verrà travolto in una spirale giudiziaria che lo porterà nel braccio della morte, e a un passo dall'esecuzione.
In Innocente John Grisham ricostruisce con la precisione del legale e l'empatia del grande romanziere la vicenda personale e giudiziaria di Williamson: una storia umana avvincente e scioccante, pervasa di una forte tensione morale, che arriva a mettere in discussione l'intero sistema legale americano.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852010149

1

Le dolci colline del Sudest dell’Oklahoma, da Norman fino al confine con l’Arkansas, un tempo erano ricche di petrolio. La campagna è punteggiata di vecchi impianti di trivellazione. I pochi ancora in funzione tirano su a fatica quantità così esigue di greggio che passandoci vicino è inevitabile chiedersi se ne valga la pena; molti sono dismessi, strutture di metallo corroso fra il verde a ricordare tempi più prosperi.
Intorno a Ada, una cittadina di sedicimila abitanti con un college e un tribunale di contea, gli impianti sono fermi ormai da tempo, perché i pozzi sono esauriti. Ormai a Ada l’economia ruota intorno alle fabbriche di mangimi e alle coltivazioni di pecan.
Il centro della città è vivo. Non ci sono palazzi abbandonati o botteghe chiuse da assi di legno: i commercianti sopravvivono, benché la maggior parte dei negozi si sia trasferita in periferia, e all’ora di pranzo bar e ristoranti sono pieni.
Il palazzo di giustizia è piccolo, vecchio e sempre pieno di gente. Vicino, ci sono uffici amministrativi, diversi studi legali e il carcere, un bunker privo di finestre, occupato prevalentemente da spacciatori e tossicomani.
In fondo alla via principale della città, Main Street, c’è il campus della East Central University, che ha quattromila iscritti, molti dei quali vanno e vengono dalle città vicine. L’università rende la cittadina più vitale, attira molti giovani e dà un tocco di multiculturalismo al Sudest dell’Oklahoma.
Il quotidiano locale si chiama «Ada Evening News», copre tutta la regione e cerca di competere con «The Oklahoman», la principale testata. In genere la prima pagina tratta notizie nazionali e internazionali, e all’interno ci sono fatti di cronaca statale e locale, politica, sport e necrologi.
Gli abitanti di Ada e della contea di Pontotoc sono un gradevole mix fra meridionali di provincia e occidentali indipendenti. Il loro accento non è molto diverso da quello del Texas orientale o dell’Arkansas, con le vocali allungate. È la terra dei Chickasaw. Nell’Oklahoma ci sono più nativi americani che in qualsiasi altro Stato del Nordamerica e quasi tutti i bianchi hanno un po’ di sangue pellerossa. Un tempo se ne vergognavano, adesso ne vanno fieri.
Ada è compresa nella cosiddetta Bible Belt, e vanta cinquanta chiese e una dozzina di confessioni cristiane diverse. Ci sono anche una chiesa cattolica e una episcopale, ma niente templi né sinagoghe. La maggioranza della popolazione è o si dichiara cristiana, in genere appartiene a una congregazione specifica, è attivamente praticante e non si limita ad andare in chiesa la domenica. Lo status sociale è spesso determinato dall’affiliazione religiosa.
Con i suoi sedicimila abitanti, Ada è considerata una città grande nell’Oklahoma rurale e ha parecchi stabilimenti industriali e centri commerciali che attirano gente dalle contee vicine. Si trova circa centotrenta chilometri a sud di Oklahoma City e tre ore a nord di Dallas. Tutti conoscono qualcuno che lavora o che abita in Texas.
Il suo vanto principale sono i cavalli da corsa. Alcuni dei più grandi campioni vengono infatti da allevatori locali. E quando gli Ada High Cougars vincono il campionato statale di football, la città festeggia per anni.
La gente è cordiale, tutti si parlano, sono cortesi con gli sconosciuti e sempre pronti a dare una mano a chi ne ha bisogno. I bambini giocano nei giardini davanti a casa, di giorno la gente lascia la porta aperta e la notte i ragazzi fanno le loro solite bravate, ma senza mai causare grossi problemi.
Se non fosse stata teatro di due omicidi all’inizio degli anni Ottanta, Ada sarebbe rimasta sconosciuta al mondo. E la gente della contea di Pontotoc sarebbe stata più contenta.
Come obbedendo a una legge non scritta, la maggior parte dei night e dei locali malfamati di Ada erano in periferia, relegati ai margini in maniera tale da tenere la marmaglia lontana dalla brava gente. Il Coachlight, una baracca di metallo male illuminata, con birra scadente, jukebox, pista da ballo e musica dal vivo il weekend, era fra questi. Nel suo ampio parcheggio di ghiaia si contavano sempre molti più pick-up che berline. Era frequentato perlopiù da operai che si fermavano per un bicchiere dopo il turno in fabbrica e da ragazzi di campagna in cerca di divertimento, specie quando c’era la musica dal vivo o si ballava. Vi si esibirono anche Vince Gill e Randy Travis, agli inizi della loro carriera.
Era un locale popolare e sempre pieno, con parecchio personale fra baristi, buttafuori e cameriere. Una di queste si chiamava Debbie Carter, aveva ventun anni, era nata e cresciuta lì, si era diplomata alla Ada High School e viveva da sola. Faceva altri due lavoretti part-time e ogni tanto faceva anche la baby-sitter. Aveva la macchina e abitava in un appartamento di tre locali sopra un garage in Eighth Street, vicino alla East Central University. Era graziosa, bruna, snella, con un bel fisico scattante, piaceva ai ragazzi ed era molto indipendente.
Sua madre, Peggy Stillwell, era preoccupata del fatto che la figlia passasse tanto tempo al Coachlight e in altri locali del genere. L’aveva educata a solidi principi cristiani e avrebbe preferito che facesse una vita diversa. Invece, dopo il liceo Debbie aveva cominciato a uscire sempre la sera e a tornare tardi. Sua madre protestava e spesso bisticciavano. Così Debbie si era cercata casa ed era andata a vivere da sola. Voleva la propria indipendenza, ma era comunque molto affezionata alla madre.
La sera del 7 dicembre 1982, Debbie era di turno al Coachlight. Serviva ai tavoli, ma c’era poco lavoro e lei era impaziente; a un certo punto chiese al suo capo se poteva smontare prima, visto che erano arrivati dei suoi amici. Lui acconsentì e Debbie andò a sedersi al tavolo con Gina Vietta, che conosceva dai tempi del liceo, e altra gente. A un certo punto un ex compagno di scuola, Glen Gore, la invitò a ballare. Debbie accettò, ma prima che il pezzo finisse si allontanò arrabbiata. In seguito, nella toilette, disse che si sarebbe sentita più sicura se una delle sue amiche fosse andata a dormire da lei, senza però specificare perché.
Il Coachlight cominciò a chiudere presto, intorno a mezzanotte e mezzo, e Gina Vietta invitò alcuni del gruppo a bere qualcosa a casa sua. Molti accettarono, ma Debbie disse di essere stanca e affamata, e preferì andare a casa. Si salutarono fuori del locale, senza particolare fretta.
Diverse persone videro Debbie parlare con Glen Gore nel parcheggio del Coachlight. Tommy Glover conosceva bene Debbie perché lavoravano tutti e due nella stessa vetreria. Conosceva anche Glen Gore. Mentre saliva sul pick-up, lo vide vicino alla macchina di Debbie. Parlarono qualche secondo, poi la ragazza lo spinse via.
Mike e Terri Carpenter lavoravano tutti e due al Coachlight, lui come buttafuori e lei come cameriera. Mentre andavano verso la loro macchina, passarono davanti a quella di Debbie. La ragazza era seduta al volante e parlava con Glen Gore, che era in piedi vicino alla portiera. I Carpenter li salutarono e proseguirono. Un mese prima, Debbie aveva confidato a Mike di aver paura di Glen Gore e del suo caratteraccio.
Toni Ramsey faceva la lustrascarpe al Coachlight. Nel 1982 i pozzi petroliferi fruttavano ancora molti quattrini e a Ada c’erano parecchi ricconi che si facevano lucidare gli stivali. Toni li accontentava. Conosceva bene Glen Gore. Uscendo dal Coachlight, quella sera, vide Debbie seduta al volante e Gore chino a parlarle dalla parte del passeggero, con la portiera aperta. Sembravano tranquilli e Toni non si preoccupò.
Gore non aveva l’automobile e si era fatto dare un passaggio da un amico che si chiamava Ron West. Erano arrivati al Coachlight verso le undici e mezzo; West aveva ordinato da bere e Gore era andato a salutare degli amici. Sembrava conoscere tutti. Quando i baristi annunciarono che il bar stava per chiudere, West andò da Gore per chiedergli se aveva bisogno di un passaggio anche per tornare a casa. Gore disse di sì. West cominciò a uscire. Dopo pochi minuti, Gore lo raggiunse di corsa.
Decisero di andare al Waffler, un caffè del centro, dove ordinarono uova e pancetta. A pagare il conto fu West, che aveva già offerto da bere al Coachlight. West aveva iniziato la serata all’Harold’s Club, dove sperava di trovare dei colleghi e dove invece aveva incontrato Gore, che ogni tanto lavorava lì come barista e disc jockey. Non erano amici, ma quando Gore gli aveva chiesto un passaggio fino al Coachlight, West non se l’era sentita di dirgli di no.
Felicemente sposato e padre di due bambine, in genere non faceva le ore piccole. Sarebbe rientrato prima anche quella sera, ma non riusciva a staccarsi di dosso Gore, che oltretutto si stava rivelando uno scroccone. Usciti dal Waffler, West gli chiese dove voleva che lo portasse. A casa di sua madre, rispose lui, in Oak Street. Oak Street era a pochi isolati dal Waffler e West vi si diresse. A metà strada, però, Gore cambiò improvvisamente idea. Voleva fare due passi, disse. Eppure faceva freddo e tirava un vento gelido, perché si stava avvicinando una perturbazione.
West accostò in Oak Avenue all’altezza della chiesa battista, non lontano da dove Gore aveva detto che abitava sua madre. Gore scese, ringraziò e si incamminò in direzione ovest.
La chiesa battista era a circa un chilometro e mezzo dall’appartamento di Debbie Carter.
La madre di Gore in realtà abitava da tutt’altra parte, molto distante da quella chiesa.
Gina Vietta era a casa con i suoi amici, quando verso le due e mezzo ricevette due strane telefonate, entrambe da Debbie Carter. Nella prima, Debbie le chiedeva di andarla a prendere con la macchina, perché a casa sua c’era una persona che la metteva in ansia. Gina le domandò chi era, ma la conversazione si interruppe. Gina sentì delle voci e dei rumori come di colluttazione, e pensò che qualcuno avesse strappato di mano il telefono a Debbie. Giustamente si preoccupò. Debbie aveva la propria auto, una Oldsmobile del 1975, ed era molto strano che le avesse chiesto di andarla a prendere. Gina stava già uscendo di casa per raggiungerla, quando il telefono squillò un’altra volta. Era di nuovo Debbie, la quale diceva di aver cambiato idea: era tutto a posto, non era il caso che Gina andasse da lei. Gina le chiese nuovamente chi fosse l’uomo a casa sua, ma Debbie non fece nomi e cambiò discorso. Chiese a Gina di chiamarla la mattina dopo per darle la sveglia, in maniera da non fare tardi al lavoro. Era una richiesta strana, che Debbie non aveva mai fatto prima.
Gina era indecisa: da una parte era preoccupata per l’amica, dall’altra sapeva che era una ragazza responsabile e indipendente, che era in grado di cavarsela da sola. Era tardi, aveva gente in casa e anche Debbie non era sola: forse era meglio non disturbare. Così andò a letto, e la mattina dopo si dimenticò di chiamare l’amica.
Verso le undici dell’8 dicembre, Donna Johnson andò a fare un salto da Debbie. Ai tempi del liceo, prima di trasferirsi a Shawnee, a un’ora di distanza da Ada, lei e Debbie erano inseparabili. Quel giorno era venuta in città per vedere i suoi genitori e alcuni amici. Appena ebbe preso la stretta scala che portava all’appartamento di Debbie, vide che sui gradini c’erano dei cocci e che il vetro della porta era rotto. Il suo primo pensiero fu che Debbie si fosse dimenticata le chiavi in casa e avesse spaccato il vetro per entrare. Bussò, ma nessuno le rispose. Sentiva che in casa c’era una radio accesa, che trasmetteva musica. Provò a girare la maniglia e si accorse che la porta non era chiusa a chiave. Entrò e subito capì che era successo qualcosa.
Il soggiorno era completamente a soqquadro: i cuscini del divano erano per terra, c’erano vestiti sparsi ovunque. Sul muro alla sua destra c’era una scritta in rosso: IL PROSIMO E JIM SMITH.
Donna chiamò Debbie, senza ottenere risposta. Essendo già stata lì, sapeva dov’era la camera da letto. Ci entrò, continuando a chiamare l’amica. Il letto era stato spostato e le lenzuola erano state tirate via. Donna vide un piede spuntare da dietro il letto. Debbie era lì, a faccia in giù, nuda, con una scritta sulla schiena.
Paralizzata dall’orrore, Donna restò a guardare l’amica, come aspettando che respirasse, incapace di fare un altro passo. Forse era solo un sogno, pensò.
Andò in cucina e vide che l’assassino aveva lasciato una scritta anche sul tavolino bianco. E se fosse stato ancora lì? Spaventata, corse fuori, prese la macchina e andò a cercare un telefono per chiamare la madre di Debbie.
Peggy Stillwell la ascoltò, incredula. Sua figlia era stesa per terra nuda, insanguinata, immobile? Se lo fece ripetere un’altra volta e poi uscì di corsa a prendere la macchina. Ma l’auto non partiva: aveva la batteria scarica. Peggy Stillwell allora tornò in casa in preda al panico e chiamò Charlie Carter, il padre di Debbie. I due avevano divorziato qualche anno prima, non erano in buoni rapporti e non si parlavano quasi.
A casa di Charlie Carter non rispondeva nessuno. A Peggy venne in mente che di fronte a Debbie abitava una sua amica, che si chiamava Carol Edwards. La chiamò e le chiese di andare a controllare a casa di sua figlia, perché temeva fosse successo qualcosa di molto brutto. Poi aspettò che la richiamasse. Nel frattempo, provò di nuovo a contattare Charlie, che finalmente le rispose.
Carol Edwards andò a casa di Debbie e notò i vetri per terra. Entrò e vide il cadavere.
Charlie Carter era un muratore grande e grosso, che occasionalmente lavorava come buttafuori al Coachlight. Salì sul pick-up e corse a casa della figlia, in preda ai pensieri più terribili che possa avere un padre. Ma la scena che gli si parò davanti era peggiore di quanto avesse immaginato.
Quando vide la figlia, la chiamò due volte. Poi si chinò e le sollevò dolcemente una spalla per guardarla in faccia. Aveva uno straccio insanguinato in bocca e sembrava morta. Aspettò che desse qualche segno di vita e, non vedendone, si rialzò in piedi e si guardò intorno. Il letto era stato spostato, spinto lontano dal muro, le lenzuola erano state strappate via, la stanza era nel caos più totale: era chiaro che c’era stata una colluttazione. Carter andò in salotto e vide la scritta sul muro. Poi andò a dare un’occhiata in cucina, si rese conto che quella casa ormai era la scena di un crimine, mise le mani in tasca e uscì.
Fuori della porta c’erano Donna Johnson e Carol Edwards, in lacrime. Sentirono Carter porgere l’estremo saluto alla figlia e dirle che gli dispiaceva che fosse finita così. Quando uscì, stava piangendo anche lui.
«Chiamo l’ambulanza?» chiese Donna.
«No» rispose lui. «Ormai l’ambulanza non serve più. Chiama la polizia.»
Arrivarono due paramedici, che salirono la scala ed entrarono nell’appartamento. Dopo pochi secondi, uno uscì di corsa e vomitò sul pianerottolo.
Quando arrivò l’ispettore Dennis Smith, fuori della casa c’erano agenti, paramedici, curiosi e persino due procuratori. Dato che presumibilmente era stato commesso un omicidio, Smith mise la casa sotto sequestro, fece uscire tutti e impedì l’accesso ai non addetti ai lavori.
Lavorava da diciassette anni in ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Innocente
  4. Capitolo 1
  5. Capitolo 2
  6. Capitolo 3
  7. Capitolo 4
  8. Capitolo 5
  9. Capitolo 6
  10. Capitolo 7
  11. Capitolo 8
  12. Capitolo 9
  13. Capitolo 10
  14. Capitolo 11
  15. Capitolo 12
  16. Capitolo 13
  17. Capitolo 14
  18. Capitolo 15
  19. Capitolo 16
  20. Capitolo 17
  21. Nota dell’autore
  22. Inserto fotografico
  23. Copyright