Li osservo uscire dal portone di un brutto palazzo di piazzale Greco. Prima un uomo anziano, forse suo padre. Lei si chiama Antonella, spunta subito dopo tenendo la mano al figlio più piccolo. Michele, dieci anni, alto per la sua età. La donna ha un cappotto nero con il bavero di pelliccetta e due scarpe troppo leggere per il freddo che fa. Il bambino ha una berretta di lana e una sciarpa che gli arriva fino agli occhiali. Lenti spesse, a scuola gli daranno del secchione. Si muove a rilento, la madre lo tira nervosa e nel farlo si gira verso di me. Il viso è livido per il gelo e il rossetto è sbavato. Ha gli occhiali scuri. Le labbra tremano leggermente. Si china ad aprire la portiera dell’auto mentre l’uomo anziano sale alla guida. La maniglia le spacca un’unghia, lei si porta il dito alla bocca, poi lo guarda con rabbia. Infila Michele sul sedile posteriore e si volta a fissare l’entrata del palazzo.
Dal portone escono gli altri due figli, Giovanna e Riccardo. Giovanna ha diciassette anni, i capelli neri spettinati, un piumino Monclaire sopra i jeans e gli stivaletti con il tacco. Il fratello, diciannove anni, indossa un piumino identico e un cappellino da baseball. Piangono. Il ragazzo si trattiene, la sorella invece è squassata dai singhiozzi. Arrivati all’auto, si bloccano. Giovanna non vuole salire, fa il gesto di tornare verso casa. La madre la afferra per le spalle e la scuote gridando qualcosa. Il vento porta via le sue parole oppure sono troppo stanco per capirle. Prima di loro ho visto parenti e amici far visita con mazzi di crisantemi e gli uomini delle pompe funebri appendere i drappeggi viola, anche se il corpo di Antonio Davico, marito e padre amorevole, è ancora all’istituto di medicina legale. I suoi familiari stanno andando a prenderlo per riportarlo a casa.
La donna dice ancora qualcosa, sempre con l’espressione tesa, poi imprevedibilmente abbraccia la figlia e affonda il viso tra i suoi capelli. Devono profumare di buono, di shampoo alla mela o al lampone. Ho l’impressione di sentirlo anch’io. Mi sono trovato sotto casa loro all’alba e sono rimasto a spiarli, a fare la mia penitenza. Forse è per questo che il mio Socio mi ci ha portato. Sarebbe da lui. La sua versione di senso dell’umorismo. Ma a me non viene tanta voglia di ridere. Penso invece a Davico che scende nella metropolitana e si getta sotto un convoglio di pendolari. Penso alla sua gamba tranciata di netto che si è incastrata sotto le ruote del vagone, ai pompieri che hanno pulito il sangue con le pompe ad alta pressione.
E penso che è stata colpa mia.
Sulla carta era un lavoro da poco. Di quelli che infili nel primo buco libero dell’agenda e te ne dimentichi appena finito. Io l’avevo incastrato a metà di una giornata di caccia alla casa.
«Alla signorina sembra che piaccia» aveva detto l’uomo dell’agenzia guardando mia moglie che correva lungo il corridoio a braccia distese, come una bambina. Una bambina alta un metro e settanta con i capelli a spazzola. L’appartamento era di novanta metri quadri con soffitti a volta e pavimenti di marmo.
«È mia moglie» avevo risposto.
«Ah, scusi.»
«Non fa niente. Lei sembra più giovane e io più vecchio. Ci sono abituato.» Però mi dà fastidio.
L’omino aveva cambiato argomento in fretta indicando un muro con i tubi dell’acqua che sporgevano aggrovigliati e arrugginiti. «Qui ci può venire una bella cucina. Magari potete buttare giù l’altra parete e allargare la stanza.»
«Magari possiamo buttare giù anche il soffitto e farci un planetario» avevo detto.
«Ha ha.» Aveva finto di ridere lui. «Purtroppo sopra ci abitano.»
«Che scocciatori.»
«C’è anche piccola cassaforte in camera da letto» aveva urlato mia moglie da lontano. Parla un italiano quasi perfetto, ma gli articoli li mette una volta su tre. «Puoi usarla per pistola.»
Il tizio dell’agenzia aveva fatto un sobbalzo, io avevo aperto la finestra per evitare di guardarlo in faccia. Sotto c’era un cortile con un albero semimorente al centro, e un cane che ci pisciava contro. Eravamo a poche centinaia di metri dalla Darsena dei Navigli, se ne sentiva l’odore umido portato dal vento. È l’aroma che associo a Milano, a questa città che mi ha adottato e non riesco più ad amare. In trent’anni ho cambiato case a raffica, vivendole come ripostigli dove pigiare dentro la roba, scopare e spostarmi quando mi stancavo dei vicini o loro si stancavano di me. Viaggiavo leggero, con le cose importanti che stavano tutte in una valigia piccola. Adesso cercavo di piantare radici, con lo stesso spirito con il quale ci si prenota il loculo al cimitero.
Il mio Socio fremeva, anche lui aveva voglia di scappare. Lo vedevo aleggiare attorno al mio corpo come un’ombra sfocata e nervosa. Fa’ il bravo, gli avevo detto. Ti piaccia o meno, avrai la tua parte di mutuo.
L’agente immobiliare continuava a saltellare ansioso. «Il prezzo naturalmente è trattabile. Però guardi che è già molto conveniente.»
«Seimila euro al metro quadro sono convenienti sul vostro pianeta?»
«Per la zona direi proprio di sì.» Aveva tirato fuori un blocchetto. «Posso farle un paio di domande per la scheda clienti?»
«Certo.»
Mia moglie era tornata, mostrando i palmi neri di polvere. Odia sporcarsi. «Hanno chiuso acqua, cazzo.»
«Dovrei avere un fazzolettino» aveva detto l’uomo dell’agenzia.
«Fa niente. Mi lavo a casa.» Mia moglie odia anche toccare la roba degli estranei.
«Quanti anni ha, signor Dazieri?» aveva chiesto l’omino.
«Quarantacinque.»
«E risiede a Milano?»
«Ho il domicilio. La residenza è a Cremona.»
«La sua professione, gentilmente?»
Avevo esitato. Ho sempre problemi a rispondere a questa domanda. «Consulente.»
«In che campo?»
«Assicurativo.»
«È un perito?»
Il cellulare mi aveva salvato. Era la mia assistente, Francesca. «Scusi» avevo detto, andando a sedermi sulle scale fuori dalla porta d’ingresso.
«Ti ricordi che hai un appuntamento, vero?»
«Non sono ancora rimbambito.» Mi ero acceso una sigaretta guardando mia moglie dentro che continuava a rispondere alle domande tenendo le mani ben staccate dal corpo.
«Ti aspetta il direttore del personale quando arrivi all’ABS. Simone ha dato conferma.»
«Posso darmi malato?» avevo chiesto.
«Ci parli tu con chi ti paga.»
«Allora no.»
Lei aveva grugnito. «Vigliacco. Ti mando un taxi lì dove sei.»
«Hai paura che scappi?»
«Mi paghi per farti lavorare. Un motivo ci sarà.»
Ero rientrato a salutare mia moglie che faceva il terzo grado all’omino. I russi non si fidano mai quando devono comprare qualcosa, e mia moglie non fa eccezione. Fosse per lei, farebbe carotare anche i pavimenti. Mi aveva schiacciato il naso con l’indice. «Torni a cena?» aveva chiesto.
«Non ti so dire.»
A bordo del taxi ero rimasto a guardare il palazzo rimpicciolire nel lunotto posteriore, il balcone che sarebbe potuto diventare il mio. Avrei potuto piantarci il basilico e la genziana, prendere il sole in canottiera… Mi ero infilato le cuffie dell’iPod per scacciare la malinconia, e Anthony & The Johnson avevano trasformato il panorama della tangenziale in un brutto film d’avanguardia.
Un’ora dopo, il magazzino dell’ABS era spuntato dalla bruma. Sembrava un tendone da circo di cemento, con i camion parcheggiati sul piazzale e i facchini che caricavano. È a Lainate, una cittadina dell’hinterland che nasconde ville borromee dietro una barriera di fabbriche e outlet. Simone mi aspettava davanti al cancello con una consunta valigetta metallica accanto ai piedi. Trent’anni, pelle scura e giubbotto da motociclista, una cicatrice a forma di stella sulla guancia. È un freelance. Fa sorveglianza elettronica per le agenzie investigative, si è divertito e si è fatto male. Ci eravamo abbracciati, ma senza baci, da duri che siamo.
«Ciao, sbirro» lo avevo salutato.
«Senti chi parla. Che cosa abbiamo qui?» aveva chiesto accendendosi una sigaretta.
«Non hai letto i memo?» avevo chiesto io di rimando.
«Solo l’ultima riga, con il prezzo.»
«Bravo, faccio anch’io così. Furto continuato dai magazzini.»
«Ladri di polli.»
«Però pagano.»
«L’unica cosa che conti.»
Avevo preso la cravatta dalla ventiquattrore e me l’ero infilata senza chiudere il colletto. Riesco ad annodarla alla cieca, una delle mie poche qualità. La cravatta era un regalo di mia moglie, presa in corso Como. Lei asseconda la mia fascinazione per gli abiti costosi, anche se per pudore io poi tolgo le etichette.
«Rock and roll» aveva detto Simone tirando su l’attrezzatura con la sinistra. Tiene sempre la destra libera in caso di necessità. Quando gli hanno fatto la stella sulla guancia se n’era dimenticato.