È domenica pomeriggio, e Kay Scarpetta è nel suo studio alla National Forensic Academy di Hollywood, in Florida. Il cielo è coperto, foriero di tempesta. Di solito, a febbraio, il tempo non è così caldo e piovoso.
Echeggiano colpi di arma da fuoco, qualcuno urla qualcosa che lei non capisce. Nei weekend spesso si tengono esercitazioni in cui gli agenti del reparto operazioni speciali corrono in tuta nera sparando a destra e a sinistra. Nessuno li sente, a parte Kay, che però non ci bada e prosegue nella lettura. Sta esaminando il certificato di salute mentale rilasciato da un coroner della Louisiana a una donna che in seguito ha ucciso cinque persone e dichiara di non ricordare nulla.
Sarebbe un caso interessante per il progetto PREDATOR, che sta per Prefrontal Determinants of Aggressive-Type Overt Responsivity e studia il ruolo dei lobi prefrontali nell’aggressività. Si sente il rombo di una moto che si avvicina.
Kay scrive un’e-mail a Benton Wesley, psicologo forense.
Ho un soggetto che potrebbe interessarti, ma è una donna. Non ricordo se PREDATOR è limitato ai soggetti di sesso maschile.
La moto è entrata nel parcheggio della National Forensic Academy e si ferma proprio sotto la finestra dello studio di Kay. “Pete Marino sta tornando all’attacco”, pensa irritata Kay. Nel frattempo, Benton le risponde.
Difficilmente la Louisiana ci concederebbe l’autorizzazione. Con la pena di morte non scherzano. Però hanno un’ottima cucina.
Kay guarda fuori dalla finestra e vede Marino che spegne il motore e scende dalla moto guardandosi intorno con l’aria da macho, per vedere se qualcuno lo osserva. Kay chiude i documenti relativi al progetto PREDATOR in un cassetto della scrivania. Marino entra senza bussare e si accomoda su una sedia.
«Che cosa sai del caso Swift?» le chiede. Indossa un giubbotto di jeans con il logo della Harley-Davidson sulla schiena, senza maniche, che lascia scoperte le sue braccia muscolose e tatuate.
Marino è il capo del reparto investigazioni della National Forensic Academy e lavora part-time anche per l’Istituto di medicina legale della contea di Broward. Ultimamente sembra la caricatura di un personaggio di Easy Rider. Posa sulla scrivania di Kay il casco nero, malconcio e pieno di decalcomanie di fori di proiettile.
«Non ricordo, rinfrescami la memoria» risponde lei, e poi aggiunge: «Dovresti usare il casco integrale. Questo è molto elegante, ma perfettamente inutile. Se hai un incidente, finisci dritto fra i donatori di organi».
Marino lascia cadere una cartellina sul tavolo. «Johnny Swift. Medico di San Francisco con studio a Miami e casa con il fratello a Hollywood, sul mare, vicino al Renaissance. Hai presente quei due condomini uguali vicino al John Lloyd State Park? Tre mesi fa, il giorno prima del Ringraziamento, il fratello lo trova lungo disteso sul divano, con un colpo di fucile al petto. Aveva appena subito un intervento al tunnel carpale che non era andato come sperava, per cui si è subito pensato a un suicidio.»
«Non lavoravo ancora per l’istituto, in quel periodo» gli ricorda Kay.
A quell’epoca Kay Scarpetta era già responsabile del reparto scienza e medicina forense della National Forensic Academy, ma era diventata consulente all’Istituto di medicina legale della contea di Broward solo in dicembre, quando il direttore, il dottor Bronson, aveva cominciato a diradare la sua attività, esprimendo il desiderio di andarsene in pensione.
«Ricordo vagamente di averne sentito parlare» dice Kay. È a disagio, in presenza di Marino. Ultimamente non lo incontra volentieri.
«L’autopsia l’ha fatta Bronson» precisa Marino, curiosando sulla scrivania e guardando tutto fuorché lei.
«Hai partecipato alle indagini?»
«No, non ero in città. Il caso è ancora aperto, perché il dipartimento di polizia di Hollywood teme che sia più complicato di quanto sembra a prima vista, e sospetta di Laurel.»
«E chi è Laurel?»
«Il fratello del morto. Sono gemelli monozigoti. Non essendoci prove, le indagini sono state sospese, ma poi io ho ricevuto questa strana telefonata a casa. Venerdì, verso le tre di notte. Da un telefono pubblico di Boston, sembra.»
«Dal Massachusetts?»
«Già.»
«Credevo che il tuo numero non fosse sull’elenco.»
«Infatti.»
Marino estrae dalla tasca posteriore dei jeans un pezzo di carta da pacchi e lo apre.
«Ti leggo che cosa mi ha detto, visto che me lo sono scritto parola per parola. Si è presentato come Hog.»
«Hog? Nel senso di porco?» Kay lo guarda, chiedendosi se la stia prendendo in giro. Negli ultimi tempi lo fa spesso.
«Mi ha detto: “Sono Hog. Hai mandato loro un castigo per derisione”. Non so che cosa intendesse, con questo. E poi: “Non è un caso che dall’appartamento di Johnny Swift siano state trafugate delle prove, e se avete anche solo un po’ di raziocinio vi converrebbe approfondire la morte di Christian Christian. Nulla è casuale. Chiedete a Kay Scarpetta, perché la mano di Dio distruggerà i pervertiti. Tutti, compresa quella lesbica di sua nipote”.»
Kay non lascia trasparire quello che prova, quando replica: «Ha detto proprio così? Sei sicuro?».
«Ti sembro uno che si inventa le cose?»
«Christian Christian?»
«Che ne so, non gli ho mica chiesto spiegazioni! Ha parlato solo lui, sottovoce e con tono calmo, senza tradire emozioni. Poi ha messo giù.»
«Ha fatto il nome di Lucy o…»
«Te l’ho appena letto, quello che mi ha detto» la interrompe lui. «Non hai altre nipoti, giusto? Quindi, evidentemente si riferiva a Lucy. E non so se te ne sei accorta, ma Hog potrebbe essere l’acronimo di “Hand of God”, la mano di Dio di cui ha parlato. Insomma, per fartela breve ho contattato quelli della polizia di Hollywood, che mi hanno chiesto se io e te potevamo esaminare il caso Swift prima possibile. Sembra che ci sia qualche problema anche con le prove. Alcune suggerivano che il colpo fosse stato sparato da breve distanza, altre il contrario. Ma o l’uno o l’altro, non ti sembra?»
«Se il colpo è uno soltanto, sì. A quanto pare non è facile accertarlo. Che cosa significa “Christian Christian”? Secondo te è una persona?»
«Ho provato a fare una ricerca al computer, ma non ho trovato niente.»
«Perché me lo racconti solo adesso? Sono stata qui tutto il weekend.»
«Ho avuto da fare.»
«Ti arriva una telefonata come questa e aspetti tre giorni per dirmelo?» Kay cerca di non perdere le staffe.
«Proprio tu mi rimproveri di non parlare?»
«In che senso, scusa?» ribatte lei, perplessa.
«Dovresti stare più attenta. Non ti dico altro.»
«Parlare per enigmi non serve a niente, Marino.»
«Ah, quasi mi dimenticavo. Quelli della polizia di Hollywood vorrebbero il parere professionale di Benton» butta lì Marino, come se gli fosse venuto in mente solo in quel momento e la cosa lo lasciasse indifferente. Ma, come al solito, non riesce a mascherare i propri sentimenti nei confronti di Benton Wesley.
«Glielo chiedano pure» replica Kay. «Non posso prendere impegni per lui.»
«Vogliono anche che valuti se la chiamata di Hog è attendibile. Non so se sia possibile, però, visto che non è stata registrata e che abbiamo solo quello che ho scritto io su un pezzo di carta.»
Marino si alza e incombe su di lei, facendola sentire più piccola del solito. Prende il suo casco perfettamente inutile e inforca gli occhiali da sole. Non l’ha guardata in faccia un attimo da quando è entrato, e adesso si copre anche gli occhi, impedendole di leggergli cosa c’è dietro.
«Me ne occupo subito» dice Kay accompagnandolo alla porta. «Se vuoi, ci vediamo dopo e ne parliamo.»
« Okay.»
«Ti va di venire a casa mia?»
«Okay» fa lui. «A che ora?»
«Alle sette.»
Nella sala riservata alla risonanza magnetica, Benton Wesley osserva il paziente da dietro un divisorio di plexiglas. L’illuminazione è attenuata e sulla grande console ci sono diversi schermi accesi. Il suo orologio è posato sopra la ventiquattrore. Benton ha i brividi, dopo alcune ore nel laboratorio di neuroimaging funzionale il freddo gli è entrato nelle ossa.
Il paziente di quella sera ha un numero di identificazione, ma anche un nome: Basil Jenrette. È un assassino compulsivo, intelligente e un po’ ansioso, di trentatré anni. Benton non ama il termine “serial killer”, trova che venga spesso usato in maniera impropria e che non significhi granché, a parte suggerire una successione, implicare che l’assassino ha ucciso più volte in un arco di tempo determinato. In realtà non dice nulla sulle motivazioni o sullo stato mentale dell’omicida. Basil Jenrette uccideva per un impulso irrefrenabile. E non riusciva a smettere.
La macchina da 3 Tesla con cui lo stanno esaminando ha un campo magnetico 60.000 volte più potente di quello terrestre ed è in grado di registrare se la sua materia grigia e bianca ha qualche particolarità, strutturale o funzionale, da cui si possa inferire il perché del suo comportamento. Del quale, peraltro, Benton gli ha chiesto ragione nei diversi colloqui avuti con lui.
“Appena la vedevo, capivo che dovevo farlo.”
“In quel preciso ...