Un uomo purché sia
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Un uomo purché sia

  1. 192 pagine
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Un uomo purché sia

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"Una donna ha bisogno di un uomo come un pesce della bicicletta." Così negli anni Settanta gridavano le femministe che erano scese in piazza per cambiare il mondo. Sono passati quattro decenni da quella straordinaria stagione di mutamenti. Le donne di oggi - almeno alle nostre latitudini - sono più libere, più consapevoli, più autonome, più sicure di sé. Ma non sembra che siano più felici. Il passaggio culturale da "zitelle" tristi e inacidite a "single" dinamiche e capaci di godersi la vita sembra aver lasciato aperto un bisogno, una ferita. Le donne infatti - molto più spesso degli uomini - si affamano, si abbuffano, vomitano, desiderano irrefrenabilmente la "roba d'altri" (si tratti di oggetti, o di amanti), inseguono in modo compulsivo uomini riluttanti o fuggitivi. È proprio di quest'ultimo "sintomo"- la ricerca disperata di un uomo a qualsiasi costo - che si occupa questo libro. Il fenomeno è trasversale, colpisce le giovani o le cinquantenni, le belle o le brutte, le casalinghe o le manager. Si tratta di un disturbo che ricorda molto da vicino la bulimia: ciò che conta è mangiare, non importa cosa, non importa quanto. Nella bulimia sentimentale il meccanismo è identico: si vuole un uomo non per amore, per simpatia o per attrazione sessuale. Si vuole un uomo per convincersi di valere qualcosa, un uomo purché sia, per riempire antichi e profondissimi sensi di estraniazione e di vuoto.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852010484
Categoria
Sociology

L’assedio al timido

Chissà cosa pensano gli uomini quando si trovano soli con una donna in ascensore.
Guardo senza parere il giovanotto che sta salendo con me al settimo piano e mi domando se non sarebbe carino da parte sua darmi almeno un’occhiata.
È alto, magro, curvo. Ha un profilo tenue, un naso proporzionato, la pelle liscia e abbronzata. Visto di lato, fa vagamente pensare a un uccello.
Indossa un golf azzurro e un giubbotto blu aperto sul davanti. Deve avere circa quarant’anni.
Passa il casco da motociclista da una mano all’altra con un gesto automatico e guarda in alto, come se la parte superiore della cabina presentasse un notevole interesse.
Mi tengo pronta: se abbassa gli occhi verso di me, gli sorrido.
Potrei persino parlargli, trovare un pretesto per attaccare bottone. Ma lui continua a guardare in alto, come un turista in una cattedrale gotica. Fa come se proprio io non ci fossi.
L’ascensore si ferma al quinto, le porte scivolano silenziose ma non compare nessuno.
Forse hanno chiamato e poi si sono stancati di aspettare, io a quel punto decido di passare a salutare i miei colleghi del piano e scendo lanciando allo sconosciuto uno squillante “Buongiorno”.
Nessuna risposta… ma forse la voce del silenzioso giovanotto si è persa dietro le porte che si chiudevano.
Il quinto piano ospita l’archivio e l’ufficio legale della società in cui lavoro. Ci ho vissuto due anni. Poi mi hanno promossa dirigente dell’ufficio commerciale e sono salita anche di piano.
Dal quinto al settimo: un bel salto.
Ho lavorato bene con i colleghi del quinto e mantengo con loro rapporti di grande cordialità.
Alla reception incontro l’usciere, lo saluto con un allegro gesto della mano e lui, come al solito, avvampa.
Si chiama Augusto, è un ometto piccolo, pingue e quasi completamente calvo. Credo che sia abbastanza giovane, ma la calvizie lo fa sembrare più vecchio.
Quando lavoravo al quinto, facevo con lui lunghe chiacchierate sulle sue letture preferite. Parlando di libri perdeva un po’ della sua timidezza.
È un appassionato di Simenon e di tanto in tanto ci scambiavamo un parere o un Maigret.
I colleghi ci prendevano un po’ in giro. Dicevano che Augusto mi amava in segreto.
In effetti qualche larvato, goffo corteggiamento lo ha azzardato. Una volta, usando una formula ampia e contorta, mi ha persino invitato a cena: «Conosce il ristorante Toie drue? Fanno la migliore farinata della città. Io sono amico del proprietario. Se le dovesse interessare…».
Questo Augusto, se non ci fosse, lo dovrei inventare: è l’unica labile testimonianza che forse posso anche piacere a un uomo.
Resto a chiacchierare per un po’ e cerco di raccogliere qualche pettegolezzo, anche se, da quando sono dirigente, gli ex colleghi sono diventati più guardinghi nel fare critiche o nel rivelare indiscrezioni.
Quando li saluto per uscire, Augusto mi aspetta sulla porta.
«L’ha letto, dottoressa, il libro di Simenon appena uscito? È intitolato Il presidente. È bellissimo. Se vuole, glielo presto.»
Penso ai giorni di fuoco che mi aspettano in ufficio. Certo non avrò tempo per leggere… ma accetto l’offerta.
«Grazie Augusto, lo leggerò volentieri, anche se non posso garantire di farlo subito. Venga su al settimo a trovarmi.»
Lui si precipita a chiamare l’ascensore; forse lo fa per darmi le spalle e non mostrare che, al mio invito, gli si sono imporporate le guance.
«Lasci» gli dico, «faccio volentieri questi due piani a piedi.»
La mia segretaria si chiama Lucia.
Siamo amiche da molti anni, lei lavorava nella società prima che arrivassi io.
Quando c’è stato bisogno di scegliere una collaboratrice, ho chiesto che mi fosse assegnata. Tra noi c’è grande confidenza.
Lucia è attenta e discreta, ma conosce tutti ed è una specie di infallibile terminale cui arrivano, non si sa come, notizie, umori e maldicenze.
«L’hai incontrato?» mi domanda appena mi vede entrare.
«Chi?»
«Quello nuovo. Il successore del dottor Ruotolo.» Soltanto ieri Ruotolo, che è andato in pensione, ha offerto ai colleghi una piccola festa di commiato e già c’è un altro al suo posto. Non mi aspettavo un ricambio tanto rapido.
«Tu l’hai visto invece» le dico scherzando. «Dimmi com’è.»
«Un bell’uomo, ma al primo impatto non sembra molto sveglio. Nell’elenco non ce lo metterei.»
Si è messa in testa di trovarmi un fidanzato e stila bizzarri elenchi sui possibili aspiranti alla mia mano.
Lo fa con garbo e simpatia e per questo il suo gioco non mi disturba, anche se non avere un fidanzato a quasi quarant’anni comincia a pesarmi.
Non so che cosa sia. Non sono brutta o sgradevole. Quando mi guardo nello specchio sono un giudice severo, ma davvero non trovo niente in me che giustifichi la pervicace indifferenza maschile nei miei confronti.
Sono alta un metro e sessanta, ho lunghi capelli scuri che porto legati dietro la nuca, il viso tondo e vivace, occhi neri, piccoli ma luminosi… “due tizzoni”, diceva mio padre, le rarissime volte che si lasciava sfuggire un complimento.
Mi sforzo di essere e di apparire amabile, non sono aggressiva, vesto in modo sobrio, sorrido ogni volta che posso e mi pare proprio che non ci sia niente di sbagliato in me.
Eppure non succede mai che un uomo mostri interesse o manifesti attrazione nei miei confronti. Simpatia sì, gentilezza, cameratismo quanto ne voglio. Anche ammirazione. «Sei bravissima» mi dicono, «bella e brava.»
I complimenti si sprecano, ma più in là non si va.
Ho avuto qualche fidanzatino da adolescente, ma allora mi pareva di avere tanto tempo davanti e non mi preoccupava che i miei flirt durassero poco. Ogni volta soffrivo un po’, ma la spensieratezza dell’età aveva la meglio.
L’unico rapporto “lungo” l’ho avuto ai tempi dell’università. È durato quasi un anno, poi ho scoperto che lui, nella città da cui proveniva, aveva una fidanzata ufficiale. La sposò subito dopo la laurea. Con lui avevo perso la verginità e questo mi era sembrato un passaggio fondamentale.
Pensavo che dopo quella prova nulla sarebbe più stato come prima, e mi stupiva che le mie coetanee non fossero della stessa idea. “Ce n’est qu’un début”, è solo un inizio, pensavo, ripetendo dentro di me uno slogan di quegli anni.
Ero pronta a vivere pienamente le molte esperienze che senza dubbio mi sarebbe capitato di fare. Ma da allora non è accaduto più nulla.
Meglio tornare alla bizzarra lista di Lucia.
«Perché non possiamo mettere il nuovo arrivato nell’elenco?» le domando incuriosita.
«Perché non è partito col piede giusto. Olga, l’assistente del Personale, mi ha detto che è entrato in ufficio senza dire nemmeno buongiorno e ha chiesto di parlare con il capo. E anche uscendo dall’ufficio non ha salutato nessuno.»
«Sarà timido. Come fai a liquidare uno che è appena arrivato senza sapere niente di lui? Dammi retta, rimettiamolo in lista. Ce ne sono così pochi in giro!»
«Va bene, ma allora devo darmi da fare. Non so nemmeno come si chiama.»
Questo significa che nel giro di un paio d’ore lei riuscirà a sapere tutto del nuovo venuto… anche a quanti mesi gli è spuntato il primo dente da latte.
La storia dell’elenco è un po’ stupida, lo so, ma penso che mi faccia bene: serve a verbalizzare un problema e a controllare l’ansia.
Parlarne e scherzarci su impedisce che il mio problema si trasformi in acidità di stomaco e mal di pancia. Ci ho messo anni a capire che le coliti spastiche e l’ulcera gastrica della mamma erano la risposta fisica ai suoi segreti dolori per l’indifferenza e l’egoismo di mio padre. Non voglio mettermi su quella strada.
La notizia dell’arrivo di un nuovo collega non mi ha lasciata indifferente.
Sono curiosa di conoscerlo e a metà mattina vado a bere il caffè alla macchinetta dell’ufficio del Personale.
C’è un collega giovane e simpatico – sposato, come quasi tutti in questa azienda – che mi offre l’espresso e mi parla di un suo viaggio nello Yemen.
«È arrivato il sostituto di Ruotolo?» gli chiedo, con finta indifferenza.
«Ah, sì. Non l’hai ancora visto? Vieni che te lo presento.»
Lo seguo nel lungo corridoio su cui si affacciano gli uffici. Sul vetro opaco di ogni porta c’è la targhetta con il nome del dirigente. Quando arrivo alla porta che fu di Ruotolo resto un po’ stupita nel vedere che il nome è già stato sostituito. “Dr Marcello Alvarez” recita il nuovo cartellino.
Sic transit gloria mundi” avrebbe sentenziato mio padre. Ruotolo era uno degli uomini più potenti dell’azienda e dopo un solo giorno non c’è più traccia di lui nemmeno sulla porta.
Quando il nuovo arrivato apre, lo riconosco. È l’inibito giovanotto che ho incontrato in ascensore.
«Ma noi ci conosciamo!» gli dico con calore. «Ci siamo già visti stamattina in ascensore. Io sono Rita Belli e lavoro al reparto commerciale. Benvenuto fra noi.»
«Ah, sì» fa lui, «lei si è fermata al quinto.»
Dunque non era così distratto e indifferente.
Mi ha notato e si ricorda persino che sono scesa al quinto. Forse mi ha visto uscire con un po’ di rammarico.
Non so trattenermi e gli faccio domande a raffica. Dove ha lavorato, che tipo di studi ha fatto, quali sono le sue specializzazioni Lui risponde con frasi concise. Dice il meno possibile.
Lo avevo capito che era timido.
Quando lo saluto gli dico di contare su di me per qualsiasi cosa.
«Certo» mi risponde, «lei è la prima persona che ho conosciuto qui dentro.»
Quando torno da Lucia sono eccitatissima.
«Mi ha detto che sono la prima persona che ha conosciuto qui dentro» la informo, elettrizzata.
E lei: «Be’, è una cosa vera…».
«Sì» replico, «ma l’ha detta con il tono giusto, con grande gentilezza. Cerca di sapere se è sposato o fidanzato. Non porta la vera, ma questo non significa granché. Penso che le camicie se le stiri da solo perché il colletto è pieno di piegoline.»
Lucia ha saputo che una nostra collega, Olga, ha un’amica che lavora nella società da cui proviene Marcello.
Hanno telefonato a quest’amica, ma non l’hanno trovata. Va da Olga, per telefonare di nuovo.
Alla sera, dopo una giornata irta di problemi, facciamo il consuntivo delle notizie raccolte su Marcello. Sappiamo che la famiglia è di origine spagnola, ma lui è nato a Napoli; il padre veniva da Barcellona e si è stabilito in Italia dopo la guerra; Alvarez abita ad Acqui e fa il pendolare.
Viveva lì con la madre, morta sei mesi fa.
Ha un pièd-à-terre a Genova, ma lo usa pochissimo, perché la sera preferisce tornarsene a casa. È riservato e ha pochi amici. Ha avuto una fidanzata, che ogni tanto lo veniva a prendere in ufficio, poi è sparita.
Si presume che al momento sia libero.
Passano giorni di moderato ottimismo.
Marcello mi piace molto e in ufficio cerco di incontrarlo ogni volta che posso. A volte vado a bussare discretamente alla sua porta e lo invito a prendere un caffè. Lui in genere si sottrae, ma qualche volta ha accettato.
Penso che la sua riservatezza dipenda dal recente lutto che lo ha colpito. Anch’io, dopo la morte di mio padre, sono stata intrattabile per un tempo lunghissimo.
Una delle rare volte che è venuto alla macchina del caffè ho notato che aveva delle macchie sulla cravatta.
«Si vede che non c’è una donna nella tua vita» mi è scappato di dirgli.
Lui non ha risposto, ma mi è sembrato dispiaciuto.
Forse ho toccato un tasto dolente… forse, senza volere, gli ho ricordato la madre.
L’indomani, per farmi perdonare la gaffe, gli porto una cravatta di Finollo.2
È rimasto così sorpreso da sembrare contrariato.
«Non dovevi» mi ha detto asciutto. «Non sono tipo da cravatte tanto pregiate. Ti prego, non mettermi in imbarazzo.»
Il mio piccolo dono gli ha provocato disagio, ma che tipo di disagio? È possibile che nutra un sentimento nei miei confronti e che non riesca a manifestarlo?
Questo dubbio si è insinuato dentro di me da tempo, e non so come scioglierlo.
Vorrei aiutarlo a vincere la timidezza, ma ho paura di commettere errori che mi precludano definitivamente la possibilità di un rapporto con lui.
Penso che l’ambiente di lavoro non sia quello in cui potrebbe lasciarsi andare. Siamo sempre in mezzo alla gente, ci conoscono tutti; e lui è arrivato da poco. Certo non vorrà che i suoi nuovi capi lo giudichino il tipo che abborda le colleghe.
Dovrei trovare il modo di vederlo fuori ufficio… magari persino fuori città.
Chiedo a Lucia di informarsi sulle cure termali di Acqui.
«Ci sono fanghi, massaggi, acque sulfuree, bagni bollenti o freddi. Devi solo decidere che cosa vuoi mettere nel pacchetto e ne esci come nuova» dice lei, dopo essersi informata.
«Decidi tu» le dico. «Inizio delle cure sabato prossimo. Prenota subito.»
Non mi resta che parlarne a Marcello, ma all’ultimo momento mi manca il coraggio e decido di non dirgli niente. “Forse è meglio che lo chiami da Acqui” penso.
Chiedo a Lucia di procurarsi il suo numero di casa, nell’eventualità che abbia il cellulare spento.
Il sabato successivo, alle otto, sono già in macchina. Esco dall’autostrada e mi avvio per la provinciale costeggiando prati e frutteti. Qua e l...

Indice dei contenuti

  1. Indice
  2. Premessa
  3. L’attesa di “Megliosola”
  4. La pazienza delle brutte
  5. L’assedio al timido
  6. Un uomo usa e getta
  7. Le rose del grebano
  8. L’arto fantasma
  9. L’ultimo a saperlo
  10. Donne “girasole”
  11. Bibliografia