La paura e la speranza
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La paura e la speranza

Europa: la crisi globale che si avvicina e la via per superarla

  1. 140 pagine
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Europa: la crisi globale che si avvicina e la via per superarla

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Abbiamo i cellulari ma non abbiamo più i bambini. Il superfluo costa meno del necessario: puoi andare a Londra con 20 euro, ma per fare la spesa al supermercato te ne servono almeno 40. Doveva essere l'età dell'oro: non è così. Sale il costo della vita, dal pane alle bollette, i mutui si mangiano i bilanci delle famiglie, stiamo consumando le risorse del pianeta e i segnali che vengono dal mondo non sono segnali di pace. Giulio Tremonti ha da tempo compreso ciò che sta lentamente emergendo nella consapevolezza comune: la globalizzazione, tanto celebrata, ha un lato oscuro fatto di disoccupazione e salari bassi, crisi finanziaria, rischi ambientali, pericolose tensioni internazionali. E, per l'Europa in cui viviamo, un doppio declino: cadono i numeri della popolazione e anche quelli della produzione. Con un'analisi sferzante e autorevole, questo libro ci racconta le cause della situazione attuale, i passi falsi della politica e le spietate dinamiche della finanza internazionale. Ma cerca anche di indicare una strada percorribile per superare questo momento, per vincere la paura e tornare alla speranza.

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Informazioni

Parte prima
La paura

I

I costi della globalizzazione

È finita in Europa l’«età dell’oro». È finita la fiaba del progresso continuo e gratuito. La fiaba della globalizzazione, la «cornucopia» del XXI secolo. Una fiaba che pure ci era stata così ben raccontata. Il tempo che sta arrivando è un tempo di ferro.
I prezzi – il prezzo delle merci e del petrolio, il prezzo del denaro e degli alimentari – invece di scendere, salgono. Low cost può ancora essere un viaggio di piacere, ma non la spesa di tutti i giorni. Un viaggio a Londra può ancora costare meno di 20 euro, ma una spesa media al supermercato può costare ben più di 40 euro. Come in un mondo rovesciato, il superfluo viene dunque a costare assurdamente meno del necessario.
Cosa è successo? È successo che in un soffio di tempo, in poco più di dieci anni, sono cambiate la struttura e la velocità del mondo.
Meccanismi che normalmente avrebbero occupato una storia di lunga durata, fatta da decenni e decenni, sono stati prima concentrati e poi fatti esplodere di colpo.
Come si è già visto in tante altre rivoluzioni, quella della globalizzazione è stata preparata da illuminati, messa in atto da fanatici, da predicatori partiti con fede teologica alla ricerca del paradiso terrestre.
Il corso della storia non poteva certo essere fermato, ma qualcuno e qualcosa – vedremo chi e che cosa – ne ha follemente voluto e causato l’accelerazione aprendo come nel mito il «vaso di Pandora», liberando e scatenando forze che ora sono difficili da controllare.
È così che una massa di circa un miliardo di uomini, concentrata prevalentemente in Asia, è passata di colpo dall’autoconsumo al consumo, dal circuito chiuso dell’economia agricola al circuito aperto dell’economia di «mercato». È una massa che prima faceva vita a sé: coltivava i suoi campi e allevava i suoi animali per nutrirsi; raccoglieva la sua legna per scaldarsi; non aveva industrie. Ora è una massa che non è più isolata, che comincia a vivere, a lavorare, a consumare più o meno come noi e insieme a noi, attingendo a quella che una volta era la nostra esclusiva riserva alimentare, mineraria, energetica.
È una massa che non ha ancora il denaro necessario per comprare un’automobile, ma ha già il denaro sufficiente per comprare una moto, un litro di benzina o di latte, un chilo di carne. I cinesi, per esempio, nel 1985 consumavano mediamente 20 chilogrammi di carne all’anno, oggi ne consumano 50.
Se il numero dei bovini da latte o da carne che ci sono nel mondo resta fisso, ma sale la domanda di latte o di carne, allora i prezzi non restano uguali, ma salgono anche loro. E lo stesso vale per i mangimi vegetali con cui si allevano gli animali e, via via salendo nella scala della rilevanza economica, per quasi tutti i prodotti di base tipici del consumo durevole e poi per tutte le materie prime necessarie per la nascente e crescente produzione industriale: l’acciaio, il carbone, il petrolio, il gas, il cotone, le fibre, la plastica per far funzionare le industrie.
La squadratura che si sta così determinando, tra offerta che resta fissa e domanda che cresce, ha avuto e avrà nel mondo un effetto strutturale sostanziale: la salita globale dei prezzi. E dunque del costo della vita.
Non solo per quelli che nel mondo sono relativamente più ricchi, negli USA o in Europa, ma anche per quelli che sono relativamente più poveri, in Africa.
Può essere che recessioni economiche o nuove scoperte minerarie o invenzioni rallentino questa salita, ma sarà solo nel breve periodo, solo per un po’ di tempo. Poi, se il funzionamento del meccanismo non sarà rallentato, la forza crescente della domanda tornerà a prevalere sulla quantità limitata dell’offerta.
Procedendo per inevitabili linee di rottura, la globalizzazione ci ha dunque già presentato il suo primo conto con lo shock sui prezzi e con il carovita. Ma questo è solo l’inizio. Perché la globalizzazione sta cominciando a presentare anche altri conti: il conto della crisi finanziaria; il conto del disastro ambientale; il conto delle tensioni geopolitiche che, pronte a scatenarsi, si stanno accumulando nel mondo.
È infatti già cominciata la lotta per la conservazione o per il dominio delle risorse naturali e delle aree di influenza. Nuove tensioni si sviluppano lungo linee di forza che vanno oltre i vecchi luoghi della storia, oltre i vecchi passaggi strategici. Dalla superficie terrestre fino all’atmosfera, dal fondo del mare fino alle calotte polari, le «nuove» esplorazioni strategiche, fatte sul fondo marino o ai poli, le conseguenti pretese di riserva di proprietà «nazionale», non sono già segni sufficienti per capirlo?
Quando la storia compie una delle sue grandi svolte, quasi sempre ci troviamo davanti l’imprevedibile, l’irrazionale, l’oscuro, il violento e non sempre il bene. Già altre volte il mondo è stato governato anche dai demoni.
In Europa, per la massa della popolazione – non per i pochi che stanno al vertice, ma per i tanti che stanno alla base della piramide – il paradiso terrestre, l’incremento di benessere portato dalla globalizzazione è comunque durato poco, soltanto un pugno di anni.
Quello che doveva essere un paradiso salariale, sociale, ambientale si sta infatti trasformando nel suo opposto. Va a stare ancora peggio chi stava già peggio. Sta meglio so­lo chi stava già meglio.
E non è solo questione di soldi. Perché la garantita sicurezza nel benessere che sarebbe stato portato dalla globalizzazione si sta trasformando in insicurezza personale, sociale, generale, ambientale.
È così che ci si presentano insieme la paura e la speranza.
La paura. Il fantasma della povertà sta bussando alle nostre porte. Il fantasma della povertà materiale, ma soprattutto il fantasma della povertà spirituale, la madre di tutte le povertà. Dopo l’estasi prodotta dalla droga «mercatista», ora viene infatti la depressione.
Come se l’universo fosse un supermercato, stiamo consumando il futuro dei nostri figli, con il rischio di farlo tanto in fretta da vedere noi stessi gli effetti delle nostre azioni.
Rispetto a qualche anno fa, rispetto al vecchio mondo come era prima della globalizzazione, abbiamo certo un po’ più di cose materiali, ma stiamo perdendo una cosa fondamentale. Stiamo perdendo la speranza. Abbiamo i telefonini, ma non abbiamo più i bambini.
La speranza. Perché il fantasma della povertà è un fantasma che in Europa possiamo respingere, dato che soprattutto noi siamo gli autori delle idee che lo hanno generato.
Nella grande famiglia delle idee il «mercatismo», la fanatica forzatura del mondo nel liberismo economico, la fede illusoria in cui tantissimi hanno creduto negli ultimi anni, ha un antenato molto illustre: l’«illuminismo».
Un antenato lontano più di due secoli e certo molto più prestigioso e famoso. Ma il mercatismo ne è comunque l’ultimo discendente, un discendente astuto e calcolatore, commerciale, terminale.
Come due secoli fa l’illuminismo poneva l’individuo al centro dell’universo e della storia, e con la leva della ragione lo sollevava dal buio immettendolo nella prospettiva di un continuo progresso materiale capace di garantire il diritto alla felicità, così la nuova modernità mercatista nata con la globalizzazione e dalla globalizzazione si è candidata a costituire per i decenni a venire una nuova fede razionale e secolare.
Una fede diversa da quella dell’illuminismo e tuttavia, alla fine, su questa prevalente. Prevalente perché basata sulla nuova concretezza del «mercato» invece che sulla vecchia e ormai superata astrazione della «società» ideale; prevalente perché basata sugli «interessi» anziché sulle «idee», non più capaci di attrarre e dunque non più di moda; soprattutto prevalente perché basata su «desideri» proiettabili senza limiti in nuove dimensioni di sogno piuttosto che sui vecchi «bisogni» materiali ormai, in Occidente, già quasi tutti più o meno soddisfatti.
In questi termini, per il combinato disposto tra una nuova ingegneria sociale e un’illusione demenziale, il mondo a venire avrebbe dovuto essere felice e sempre più felice.
Un tipo di felicità che sarebbe stata appunto portata dalla globalizzazione e con la globalizzazione, nella forma di un «colonialismo» di seconda generazione, di tipo nuovo, benevolo e perciò politicamente corretto, un colonialismo all’incontrario: il colonialismo del XXI secolo.
Con i nostri negozi pieni di merci generosamente prodotte in Asia a basso costo; con la produzione industriale delocalizzata in Asia, così da preservare il nostro ambiente naturale; con gli immigrati chiamati a fare al nostro posto i lavori più duri o più sporchi o tutti e due insieme, naturalmente sempre a basso costo; con il vecchio posto di lavoro «fisso» sostituito dal più competitivo e perciò più stimolante posto di lavoro «rotativo»; con il denaro reso disponibile su scala quasi illimitata e quasi gratuita dalla nuova «tecno-finanza»; con le nostre tradizioni civili non solo esportate – ragione, questa, di un nostro legittimo orgoglio, come del resto era già ai tempi del vecchio colonialismo –, ma anche virtuosamente ibridate e contaminate con quelle straniere, considerate uguali o superiori, spesso solo per effetto della loro esotica novità, in un misto tra fusion e new age; da ultimo, con la pace perpetua che sarebbe stata finalmente possibile in un mondo livellato sulla geografia piana del grande mercato.
Non è andata esattamente così, se non per poco. Come per un prodotto che è tutto tranne che senza prezzo e senza scadenza. Infatti, tanto il prezzo quanto la scadenza del mercatismo, la nuova ideologia razionale e universale, li abbiamo già sotto gli occhi.
Prima ancora della paura e dell’insicurezza che ora sono portate dalla globalizzazione, i segnali, i presagi della crisi erano comunque già immanenti, erano già tra di noi.
Cosa è successo in questi anni in Europa, cosa ha cambiato la nostra vita? Cosa ci ha portato via la speranza? Cosa ci consegna a un futuro senza futuro? Perché abbiamo buttato via la civiltà contadina, ma non sappiamo più gestire la modernità? Perché abbiamo scambiato gli interessi con i valori, l’avere con l’essere, il consumismo con l’u­ma­nesimo? Perché, barattando il piccolo con il grande, abbiamo firmato una cambiale mefistofelica con il «dio mercato»? Perché, passando disinvoltamente from Marx to market, dall’utopia comunista all’utopia mercatista, abbiamo fatto del mercato unico il nostro nuovo habitat? Un territorio nuovo popolato da nuovi simboli, da nuove i­cone, da nuovi totem: pop, rap, jeans, reality, ecstasy, pc, online, e-commerce, e-bay, i-Pod, dvd, facebook, r’n’b, disco, techno, tom tom, ecc. Simboli, icone e totem capaci tutti insieme di avvolgerci nella forza virtuale propria di una nuova dialettica esistenziale. Nella forma dinamica continua di un nuovo materialismo storico, la fabbrica illusoria del nuovo uomo post-moderno.
Perché siamo passati da un eccesso all’eccesso opposto, dall’impulso del bisogno alla frenesia compulsiva dello spreco? Cosa ha piegato le curve un tempo piene del nostro progresso? Cosa ci ha portato in questa situazione? Perché la crisi della nostra società, prima ancora che dall’arrivo prossimo della nuova paura portata dalla globalizzazione, è già segnata dallo straniamento, dalla solitudine nella moltitudine, dal «nichilismo», da esplosioni irrazionali di violenza individuale e collettiva, dai delitti «inspiegabili», dalla diffusione su scala di massa della droga, dallo squadrismo calcistico, dal principio di tanti piccoli pogrom? Perché c’è tanta alienazione dalla politica, come se dopo il comunismo esistessero solo le privatizzazioni? Perché stiamo perdendo il nostro tessuto connettivo? Perché ci sono più turisti fuori che fedeli dentro le nostre cattedrali, lo splendore pietrificato della nostra storia? Perché si fa fatica a credere, ma c’è anche totale smarrimento per il fatto di non credere? Perché tante periferie cingono le nostre città in una morsa ostile? Perché il Belgio si sta dissolvendo come Stato? Che origini, che intensità hanno le forze che tra loro combinate ci lavorano contro? Perché l’Europa ci si presenta così simile all’Angelus novus di Klee, con la testa rivolta all’indietro, mentre il vento del progresso la trascina oltre? Perché l’Europa non è più la signora della storia e rischia anzi di essere spiazzata dalla storia, restandovi solo come un mero agglomerato geografico? Perché gli altri nel mondo hanno una politica, mentre noi in Europa abbiamo per politica la «non politica»? Cosa possiamo fare per invertire questa tendenza, per sottrarci a questa non ineluttabile fatalità?
Il mito del XXI secolo, il mito dell’economia che è tutto, che sa tutto, che fa tutto; il mito dell’economia dominatrice assoluta della nostra esistenza, matrice esclusiva di tutti i saperi e di tutti i valori; il mito a cui soprattutto in Europa tantissimi hanno creduto in questi ultimi anni, ci ha in realtà prima rubato un pezzo di vita e di storia – come eravamo prima, con il nostro vecchio ordine e con le nostre vecchie leggi, con le nostre tradizioni e con valori che pensavamo immutabili, immersi nella nostra «cultura» – e poi ha fallito nel suo piano innovativo e progressivo di ingegneria sociale globale mosso dal motore primo della finanza.
Il secondo conto che ci presenta la globalizzazione, dopo lo shock sui prezzi e sul carovita, è appunto quello della «crisi finanziaria». Un conto che, per la verità, la globalizzazione ha presentato per prima a se stessa.
Sotto la pressione della crisi che arriva stanno infatti e per primi dichiarando fallimento proprio gli alchimisti che, appena ieri (solo alla fine del Novecento), hanno inventato il mercatismo, l’utopia-madre della globalizzazione, il suo strapotente motore ideologico: i liberali drogati dal successo appena ottenuto nella lotta contro il comunismo; i post-comunisti divenuti liberisti per salvarsi; i banchieri travestiti da statisti; gli speculatori-benefattori; e i più capaci pensatori di questo tempo, gli economisti, sacerdoti e falsi profeti del nuovo credo.
Spinta insieme dall’ideologia mercatista e dalla nuova tecno-finanza, che ne ha finanziato il miracolo quasi i­stantaneo, la magia della globalizzazione si sta in specie risolvendo nel suo contrario. Lubrificata all’inizio dal magico fluido del denaro, la nuova macchina miracolosa si sta inceppando e, non per caso, si sta inceppando proprio a partire dalla finanza. Dove è stato il principio, lì ora è la fine del processo. Ed è così che entriamo nel secondo shock. Uno shock che per la verità era prevedibile già due anni fa (Giulio Tremonti, L’America ora rischia una crisi stile ’29, in «Corriere della Sera», 12 novembre 2006).
Come nel 1929 l’Harvard Economic Society rassicurava l’opinione pubblica sostenendo che «una severa depressione è fuori dall’arco delle probabilità», così quello che ancora nell’agosto 2007 veniva definito da autorità ed esperti, da governatori ed economisti un semplice turbamento, si sta ora e invece rivelando per quello che è nella realtà. Una crisi con la C maiuscola. Una crisi non congiunturale ma strutturale, non limitata alla finanza ma estesa all’economia, non limitata all’America ma estesa all’Europa.
Possiamo infatti chiamarla come vogliamo: turbamento, crisi, tempesta, collapse, storm, turmoil, distress, crunch. Possiamo – o no – paragonarla a quella del 1929, pur sapendo che la storia non si ripete comunque mai per identità perfette. Possiamo chiamarla o vederla come vogliamo. Ma è certo che, a partire dall’«agosto 2007», dalle profondità misteriose del capitalismo finanziario salgono in superficie scosse fortissime, che spezzano certezze fino a ieri assolute.
Lo stiamo verificando in concreto. Dopo una lunghissima catena di interventi operati subito dopo l’«agosto 2007», tanto negli USA quanto in Europa, segno che la crisi non è solo americana ma globale, il 15 novembre 2007, per esempio, la Federal Reserve americana ha pompato nel sistema liquidità per 47 miliardi di dollari, una somma più alta di quella pompata in emergenza il giorno seguente l’11 settembre 2001.
Per suo conto, appena una settimana dopo, il 26 novembre, la Banca centrale europea ha pompato nel sistema liquidità per 178 miliardi di euro. Altri successivi interventi sono stati sempre più complessi e sempre più consistenti. E tuttavia non c’è stato il minimo stop al corso della crisi. Anzi. È bastato, per esempio, che il 12 dicembre fosse dato l’annuncio di una nuova immissione di liquidità «coordinata» tra le principali Banche centrali (Fed, BCE, Banca d’Inghilterra, Banca del Canada, Banca centrale svizzera) per produrre l’effetto opposto a quello voluto. Per trasmettere un segnale di paura che ha fatto cadere i corsi di borsa. Il 18 dicembre 2007 la BCE ha immesso nel sistema la cifra monstre di 349 miliardi di euro: l’effetto sui tassi è stato dello zero virgola.
Le scosse già registrate sono sufficienti per far tramontare l’idea fiabesca che il progresso economico possa essere continuo e gratuito, e con ciò segnano il nostro improvviso ritorno dal futurismo finanziario alla durezza della realtà materiale; impongono il passaggio dall’irresponsabilità alla responsabilità; portano con sé la fine dell’illusione che grazie al nuovo capitalismo il profitto possa essere estratto con istantanea rapacità da titoli di debito di cui non si conoscono origine e fondamento o da titoli di proprietà che non esistono in concreto, come nella realtà virtuale di un videogame; mettono infine in crisi il meccanismo di sviluppo della globalizzazione.
Globalizzazione e finanza sono state infatti le due facce di una stessa medaglia. Globalizzazione e finanza hanno fatto coppia fin dal principio, hanno subito cominciato a vivere in simbiosi.
La globalizzazione, con l’apertura su vasti spazi dei mercati e con la caduta dei vecchi confini e dei vecchi controlli, ha forgiato la sua nuova finanza. La nuova finanza, consentendo la divisione del mondo tra Asia produttrice di merci a basso costo e America consumatrice a debito, ha spinto a sua volta e «dopato» la globalizzazione, superando di gran lunga, con i suoi grandi numeri fantastici, i numeri più piccoli e concreti dell’economia reale.
Da circa dieci anni a questa parte, con un’accelerazione marcata negli ultimi cinque anni, dentro l’industria bancaria, e dunque nel cuore del nuovo capitalismo mercatista, si è in specie manifestata una fortissima doppia mutazione, tanto dimensionale quanto funzionale. Mutazione dimensionale: le grandi banche internazionali, passando attraverso un intensissimo processo di concentrazione globale, hanno alla fine preso la forma dominatrice della «megabanca». Mutazione funzionale: le «megabanche» hanno applicato in forma radicale e su scala globale la forma...

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  1. Parte prima: La paura
  2. Parte seconda: La speranza
  3. Poscritto