500 curiosità della fede
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500 curiosità della fede

  1. 336 pagine
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500 curiosità della fede

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I "cherubini"? Sono originari della Mesopotamia e in principio avevano un aspetto assai poco angelico. Il "serpente"? Lo associamo abitualmente al diavolo, ma talora nelle Scritture incarna l'efficacia salvifica di Dio, fino a simboleggiare Cristo crocifisso. Il "numero"? Nella concezione biblica assume una serie di significati che vanno ben oltre la matematica. E il "cielo", così ricco di significati trascendenti, come era concepito nell'Antico e nel Nuovo Testamento dal punto di vista teologico e da quello scientifico?
La Bibbia è uno straordinario patrimonio di immagini che hanno alimentato per secoli il pensiero e l'arte dell'Occidente, anche se oggi si è persa in gran parte la familiarità con il suo universo simbolico.
Secondo Gianfranco Ravasi, biblista di fama internazionale, è però ancora possibile, nella nostra società, riaccendere la curiosità nei confronti del poliedrico mondo rappresentato nei testi sacri. E con questo intento accompagna i lettori, sia credenti sia atei, in quella terra "un po' misteriosa che è la teologia, inoltrandosi nei suoi viali principali, nelle sue strade, ma anche inerpicandosi sui suoi viottoli secondari". Le tappe di questo viaggio suggestivo sono una serie di voci tematiche, che si soffermano non solo sulle grandi questioni teologiche (dall'"anima" alla "risurrezione", dalla "grazia " alla "Trinità") ma anche su ambienti naturali, oggetti, riferimenti storici, usanze di cui è costellato il racconto biblico.
In questo itinerario di parole, destinate spesso a rivelare significati inattesi e sorprendenti rispetto alle normali accezioni ancora in uso, potremo esplorare le profondità del "mare", ossia la dimensione metafisica che esso assume nelle Scritture, o contemplare nel "monte", dal Sinai al Golgota, un luogo privilegiato dell'azione divina di salvezza. Potremo avventurarci tra i numerosi e variopinti "animali" che compaiono nei testi sacri. O scoprire che il legame tra Adamo e la terra da cui è stato tratto è rivelato dal suo stesso nome.
Coniugando come sempre il rigore dell'analisi con un linguaggio di rara chiarezza, monsignor Ravasi ci aiuta a cogliere anche nelle cose più piccole e umili i segni di un mistero che da millenni continua ad affascinare e interrogare l'uomo.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852012464
Pace
Cristo è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione.
EFESINI 2,14
«Il regno di Dio non è questione di cibo o di bevanda ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo»: così scriveva Paolo ai cristiani di Roma (Rm 14,17). Purtroppo, però, la storia umana è striata costantemente dal sangue di guerre e di violenze e la Bibbia, che è la rivelazione di Dio nella storia e sulla storia, non può non essere segnata dalle battaglie e dalle ingiustizie: ben 600 passi evocano guerre e uccisioni e 1000 descrivono l’ira divina giudicatrice sul male perpetrato dall’umanità. Eppure il progetto divino, descritto nel capitolo 2 della Genesi, comprendeva una triplice e perfetta armonia dell’uomo con Dio, con la natura e col proprio simile (la donna).
Anzi, la meta verso cui converge l’intero itinerario della storia è, per la Bibbia, la pace messianica, in ebraico shalôm (donde l’arabo salam), in greco eiréne. Nel Talmud, il testo delle tradizioni giudaiche, si legge che «la pace è per il mondo quello che è il lievito per la pasta». La concezione dello shalôm è poliedrica, perché il vocabolo nella sua radice suppone qualcosa di «compiuto, perfetto» e, allora, la pace biblica comprende non solo l’assenza della guerra ma anche benessere, prosperità, giustizia, gioia, pienezza di vita. Come diceva il Salmo 85, «giustizia e pace si baceranno» (v. 11), e il filosofo ebreo olandese Baruch Spinoza affermava giustamente che «la pace non è assenza di guerra soltanto, è una virtù, uno stato d’animo che dispone alla benevolenza, alla fiducia, alla giustizia».
Emblematica in questo senso è la proclamazione angelica del Natale di Gesù: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 2,14). Terra e cielo sono uniti in un’armonia d’amore, come aveva annunziato Isaia in quell’affresco in cui gli animali tra loro ostili si rappacificano con l’arrivo del re/Emmanuele messianico (11,6-8). Il volere della parola di Dio è, infatti, che tutti i popoli abbiano a «forgiare le loro spade in vomeri, le loro lance in falci e che un popolo non alzi più la spada contro un altro popolo e non si esercitino più nell’arte della guerra» (Is 2,4). Il re messianico per primo è colui che fa sparire carri e cavalleria, infrange l’arco di guerra e «annunzia pace a tutte le genti» (Zc 9,10).
Nasce, così, una visione di pace universale che il Nuovo Testamento esalta in Cristo, «nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia ... per creare in se stesso dei due un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo ... distruggendo in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini» (Ef 2,14-17). Cristo, dunque, è colui che abbatte le divisioni, sorgenti di odio e di conflitti. Egli, infatti, nel Discorso della montagna, non aveva esitato a invitare i suoi discepoli ad «amare i nemici e a pregare per i persecutori» (Mt 5,43-45).
È, così, che la Chiesa diventa segno di unità e di pace tra i popoli, come appare nella scena di Pentecoste allorché in tutte le lingue e culture si cancella la divisione babelica (At 2; Gn 11), e come si fa balenare per la meta ultima della storia umana, quando «una moltitudine immensa … di ogni nazione, razza, popolo e lingua» intonerà insieme l’inno della salvezza (Ap 7) e tutti finalmente ascolteranno «ciò che dice il Signore Dio: egli parla di pace» (Sal 85,9).
Padre
Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato.
GIOVANNI 6,44
II termine «padre» ha innanzitutto una valenza sociale e psicologica. Da un lato, infatti, incarna l’asse portante di una famiglia, soprattutto in una società di stampo patriarcale; d’altro lato, come ci ha insegnato la psicologia moderna, delinea una trama di rapporti complessi nei confronti del figlio, dando il via anche a conflitti e a tensioni e non solo a vincoli di profonda intimità. La nostra attenzione ora si rivolge, invece, al valore teologico che questo vocabolo acquista, certamente partendo dalla base «psicofisica» della generazione padre-figlio. È noto, infatti, che in tutte le culture il titolo di «padre» è assegnato anche a Dio.
Così fa anche l’Antico Testamento e, di conseguenza, è riconosciuto il titolo di «figlio» non solo al re davidico (Sal 2,7) ma a tutti gli Israeliti, «i figli del Dio altissimo» (Est 8,12q): «Come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di quanti lo temono»; «Il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto»; «Non è forse Israele un figlio caro per me, un fanciullo prediletto?»; «Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio» (Sal 103,13; Prv 3,12; Ger 31,20; Os 11,1). La preghiera dell’ebreo fedele è, allora, piena di intimità filiale: «Signore, tu sei nostro padre»; «Signore, padre e Dio della mia vita … Signore, tu sei mio padre»; «Non abbiamo forse tutti noi un solo padre?» (Is 64,7; Sir 23,4; 51,10; Ml 2,10).
Gesù non fa che allinearsi a questa tradizione, per altro molto diffusa nelle pagine bibliche, imprimendo a essa un impulso nuovo. Infatti, si configura innanzitutto un legame unico tra Cristo e il Padre suo celeste: «Dio nessuno l’ha mai visto; proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre lui lo ha rivelato» (Gv 1,18). Per questo, Gesù usa ripetutamente l’espressione «Padre mio» per indicare un rapporto speciale e specifico di paternità/figliazione intercorrente tra sé e Dio, tant’è vero che l’evangelista Giovanni ricorrerà a due vocaboli greci distinti per designare il Figlio Gesù, hyiós, e i «figli» di Dio che siamo noi, tékna. Anche san Paolo, che riconosce un nostro essere «figli», ricevuto nel battesimo, ricorre però per il cristiano all’idea giuridica di hyiothesía, «la filiazione adottiva» (Rm 8,15).
Anche i cristiani, quindi, hanno Dio come padre, che «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» non «per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3,16-17). Il Padre celeste è generoso nell’amore nei confronti della sua creatura, anche quando essa lo tradisce, gli si ribella e lo delude: la parabola del «padre prodigo» di misericordia verso il «figlio prodigo» nel peccato ne è la rappresentazione più alta (Lc 15,11-32). La missione del Figlio Gesù Cristo, unito intimamente al Padre divino – «Io e il Padre siamo una cosa sola ... Il Padre è in me e io nel Padre» (Gv 10,30.38) – è quella di rivelare e donare la parola e l’amore paterno di Dio a tutti i suoi figli. Perciò, «tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, egli ve lo concederà» (Gv 15,16; 16,23).
La preghiera che Gesù insegna ai suoi discepoli è appunto il Padre nostro, che ha sottesa quell’invocazione aramaica di intimità filiale cara a Gesù, abba’ ossia «papà, babbo». È «lo Spirito del Figlio Gesù che nei nostri cuori grida: Abba’, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per volontà divina» (Gal 4,4-7). Il fedele deve, allora, raccogliere l’appello del Figlio Gesù: «Siate perfetti/misericordiosi come perfetto/misericordioso è il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48; Lc 6,36).
Palestina
Questa denominazione geografica deriva dal termine «Filistea» e fu usata soprattutto durante il periodo dell’occupazione romana della Terra santa. La Bibbia privilegia, invece, le formule «Terra», «Terra d’Israele», «terra promessa», «Terra di Canaan» (dal nome degli antichi indigeni). Ora il vocabolo è applicato alla popolazione araba di Terra santa e in senso geografico lato.
Pali sacri
Attorno ai santuari degli indigeni della Terra santa, i Cananei, si levavano pali che venivano considerati sacri perché simboli fallici, segno della fecondità donata dalla divinità. Accanto a essi sorgevano anche boschetti sacri con la stessa funzione simbolica.
Pane
Nella Bibbia spesso con questo alimento fondamentale si vuole semplicemente designare il cibo. Ricordiamo che «Betlemme» significa «casa del pane» e che un pane dal valore simbolico spirituale è offerto dalla Sapienza (Prv 9,5) e da Cristo nell’eucaristia (Gv 6).
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Pani della presenza
Letteralmente erano detti in ebraico «i pani della faccia» perché nel tempio erano collocati su un tavolo davanti al Santo dei santi, considerato la sede della «presenza» di Dio. Si trattava di dodici pani azzimi ordinati in due file, sostituiti ogni settimana e consumati solo dai sacerdoti (si veda l’eccezione di 1 Sam 21,5-7). Erano il simbolo di Israele davanti alla «faccia» del Signore nel tempio.
Papiro
Pianta acquatica che cresce in abbondanza soprattutto nel delta del Nilo. Attraverso un particolare trattamento viene usata come foglio di scrittura piuttosto resistente. I testi più antichi (II secolo) dei Vangeli sono giunti a noi proprio su questo materiale: celebre è il cosiddetto P52, databile attorno al 125, che contiene Giovanni 18,31-33 e 37-38.
Parabola
Gesù non parlava alla folla se non in parabole, perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta: «Aprirò la mia bocca in parabole».
MATTEO 13,34-35
«Mai un uomo ha parlato come quest’uomo!» rispondono le guardie ai sacerdoti e ai farisei che le avevano inviate ad arrestare Gesù, rimaste sedotte dalla sua parola (Gv 7,44-46). A più riprese nei Vangeli si registra lo stupore che colpisce l’uditorio di fronte ai discorsi di Cristo che «insegnava come uno che ha autorità e non come i loro scribi» (Mt 7,29). La via privilegiata per comunicare, scelta da Gesù, è quella simbolica e ha come sua forma espressiva la parabola, un genere letterario già noto all’Antico Testamento: si legga, ad esempio, il delizioso ma severo apologo di Iotam sul potere, presente nel libro dei Giudici (9,8-15), oppure si seguano le parabole sceneggiate dal vivo dai profeti, in particolare da Ezechiele, vere e proprie rappresentazioni drammatiche di racconti esemplari.
Nei Vangeli sono narrate almeno 35 parabole in senso stretto, ma il linguaggio simbolico si allarga fino a raggiungere 72 o più brani segnati da immagini espanse e applicate al messaggio da comunicare. La parabola, che è uno dei tratti distintivi del Gesù storico e della sua comunicazione, punta spesso verso un tema fondamentale nella predicazione di Cristo, quello del regno di Dio («Il regno dei cieli è simile a…»). Con questo simbolo si vuole illustrare il progetto di Dio nei confronti del mondo e della storia, un disegno di verità, di giustizia e di amore. È per questo che le parabole tendono a esprimere una gamma variegata di soggetti che vanno dal comportamento di Dio all’impegno morale dell’uomo, dalla interpretazione della storia alla meta finale, dalla grazia divina alla scelta personale, dal peccato al perdono, dall’amore fraterno alle ingiustizie palesi e così via.
Due sono le osservazioni teologiche che vorremmo fare a livello generale. La prima riguarda il linguaggio simbolico. Esso è la via privilegiata per parlare di Dio che è trascendente. Da un lato, infatti, il simbolo rivela il limite umano, ancorandosi a una realtà concreta («è simile, è come…»); d’altro lato, però, si tende l’immagine fino all’estremo, spingendola simbolicamente a esprimere un significato ulteriore così da trasfigurare, ad esempio, l’amore di un padre nell’infinito amore divino. Come scriveva un esegeta, la parabola è una frontiera che manifesta da una parte il mondo degli uomini coi loro interrogativi, le loro storie, le loro passioni e vicende e, d’altra parte, rivela il mondo di Dio che si adatta alle sue creature per proporre il suo messaggio e rendere accessibile il suo mistero.
L’altra considerazione riguarda il fatto che successivamente la Chiesa delle origini supera il linguaggio narrativo di Gesù, pur non abbandonandolo mai del tutto (si pensi all’epistolario paolino). Ci sono, così, due modi nei Vangeli di presentare l’uso delle parabole. Il primo è positivo e si raccorda all’Antico Testamento: «Gesù non parlava alla folla se non in parabole, perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta: Aprirò la mia bocca in parabole» (Mt 13,34-35; si veda Sal 78,2). Il secondo è negativo. Le parabole sono un modo velato di parlare destinato a coloro che sono immaturi e ostinati: «A voi è stato confidato il mistero del regno di Dio; a quelli di fuori invece tutto viene esposto in parabole, perché guardino ma non vedano e non intendano, perché non si convertano e venga loro perdonato» (Mc 4,11-12). La frase forte è citata da Isaia e vuole solo esprimere – in modo semitico diretto – il rifiuto di molti alla rivelazione offerta da Gesù attraverso le sue parabole.
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Paraclito
Termine greco usato nel Vangelo di Giovanni per denominare lo Spirito Santo. Il significato primario è quello di «difensore, protettore» soprattutto in sede processuale, quando il cristiano sarà perseguitato e in crisi. Significato derivato è quello di «consolatore» perché lo Spirito Santo infonde fiducia nelle prove subite per il Vangelo.
Paradiso
È una parola di origine persiana che indicava un giardino recintato. È entrata nell’ebraico nella forma pardes ed è usata solo tre volte e sempre in senso realistico (Ct 4,13; Qo 2,5; Ne 2,8), mentre è assente nel racconto del «paradiso terrestre» (Gn 2-3) ove si usa il più generico «giardino» (in ebraico gan). Adottato anche dal greco nella forma parádeisos – donde il nostro «paradiso» – il vocabolo è presente solo tre volte nel Nuovo Testamento ove, però, indica l’orizzonte divino e trascendente (Lc 23,43; 2 Cor 12,4; Ap 2,7).
Parallelismo
È una tecnica stilistica fondamentale della poesia biblica: il tema viene sviluppato due volte secondo una duplice prospettiva. Ad esempio, «il Signore non ci tratta secondo i nostri peccati, / non ci ripaga secondo le nostre colpe» (Sal 103,10). Ci sono varie tipologie di parallelismo. Ecco, ad esempio, quello «antitetico»: «Cessate di fare il male, / imparate a fare il bene» (Is 1,16-17).
Parlare in lingue
È quel carisma (o dono particolare) che è indicato col termine greco glossolalía. Più che una pratica analoga a quella dell’interprete, si tratta in realtà della capacità di saper lodare e parlare di Dio in forme alte, intense e ineffabili (1 Cor 12,10 e cap. 14).
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Parola di Dio
La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio.
EBREI 4,12
Entrambi i Testamenti si aprono con la parola divina che squarcia il silenzio del nulla: «In principio ... Dio disse: Sia la luce! E la luce fu» (Gn 1,1.3); «In principio era il Verbo … tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste» (Gv 1,1.3). La parola di Dio è, quindi, innanzitutto alla sorgente dell’essere creato, come canterà anche il Salmista: «Dalla parola del Signore furono cr...

Indice dei contenuti

  1. A
  2. B
  3. C
  4. D
  5. E
  6. F
  7. G
  8. I
  9. K
  10. L
  11. M
  12. N
  13. O
  14. P
  15. Q
  16. R
  17. S
  18. T
  19. U
  20. V
  21. Z
  22. Indice delle voci