Buddha significa il risvegliato.
Fino di recente la maggior parte delle persone pensava a Buddha come a un’immagine un po’ rococò, un sorridente signore, grosso e grasso, seduto e con la pancia all’aria, vale a dire alla maniera in cui è raffigurato in milioni di ninnoli per turisti e in quelle statuette che si trovano in vendita qui in Occidente nei negozi di paccottiglia. La gente non sa che il vero Buddha era un giovane e avvenente principe che di punto in bianco, all’età di ventinove anni, cominciò a rimuginare nel palazzo di suo padre, mentre fissava con occhi assenti le fanciulle danzare, finché, con fare risoluto, sollevò le braccia e in sella al suo destriero si diresse nella foresta e si tagliò i lunghi capelli dorati con la spada e si sedette assieme ai sacri uomini dell’India del suo tempo e morì all’età di ottant’anni, venerato e senza un filo di grasso, dopo aver errato per antiche strade e giungle d’elefanti. Quest’uomo non era l’immagine indolente dell’allegria, ma un serio e tragico profeta, il Gesù Cristo dell’India e di quasi tutta l’Asia.
I seguaci della religione da lui fondata, il buddhismo, la religione del Grande Risveglio dal sogno dell’esistenza, si contano oggi a centinaia di milioni. Poche persone in America e nell’Occidente si rendevano conto della dimensione e dell’importanza dell’istituzione religiosa in Oriente. Poche persone sapevano che la Corea, la Birmania, il Siam, il Tibet, il Giappone e la Cina precomunista sono paesi in prevalenza buddhisti così come gli Stati Uniti, l’Inghilterra, la Francia, lItalia, il Messico possono essere definiti paesi in prevalenza cristiani.
Questo giovane uomo, che la saggezza scaturita dalla sua grande afflizione aveva reso immune alle tentazioni di un harem ricolmo di stupende ragazze, si chiamava Gotama, nato Siddartha nel 563 a.C., principe del clan Sakya del distretto di Gorakpur, in India. Sua madre, il cui nome, curiosamente, era “Maya”, che in sanscrito significa “magia”, morì nel darlo alla luce. Fu allevato da sua zia Prajapati Gotami. Da giovane era un grande atleta e un cavaliere, come si addiceva a un membro degli Kshatriya, la Casta dei Guerrieri. Leggenda vuole che in una sensazionale contesa vinse tutti gli altri principi conquistando la mano di Yasodhara.
Si sposò a sedici anni con la principessa Yasodhara che gli diede un figlio, Rahula. Suo padre, il maharaja Suddhodhana, stravedeva per lui e gli tenne la mente lontana dalla profonda tristezza che crebbe senza posa non appena si approssimò ai trent’anni. Un giorno, attraversando in carrozza i giardini reali, il principe notò un vecchio che procedeva con passo incerto lungo strada. “Che specie d’uomo è mai questo? La testa bianca e le spalle curve, gli occhi arrossati e stanchi e la carne avvizzita, porta un bastone per sostenersi lungo il cammino. Il suo corpo è stato rinsecchito dal calore o è nato a questa maniera?... Gira subito il cocchio e torna indietro. Quali piaceri possono ormai offrire questi giardini al pensiero della tarda età che avanza? Gli anni della mia vita sono come il vento che vola veloce; gira il cocchio e riconducimi di gran lena al palazzo.” Dopodiché, nei pressi, scorse un morto trasportato nel suo catafalco. “Le persone che lo seguono sono oppresse dal dolore, si strappano i capelli e gemono pietosamente... è forse costui il solo uomo morto al mondo o ve ne sono di simili? O uomini caduchi!” pianse il giovane principe infelice. “Ovunque si volga lo sguardo il corpo si riduce in polvere e ciò nonostante ovunque si vive con spensieratezza; il cuore non è legno inanimato e nemmeno pietra, eppure non pensa che TUTTO SVANISCE...”
Quella notte, per ordine del sovrano che era stato informato, Udayi, ministro del re, comandò alle fanciulle di sedurre coi loro richiami amorosi il principe Siddartha. Fecero molte mosse accattivanti, lasciarono scivolare come per caso dalle spalle la veste di seta, agitarono sinuose le braccia, inarcarono le sopracciglia, danzarono in maniera allusiva, gli carezzarono i polsi, alcune finsero persino di arrossire per l’imbarazzo e si levarono le rose dal seno gemendo “Oh, è vostro o mio questo fiore, giovane principe?”, ma nella consapevolezza scaturita dall’afflizione, il principe restava impassibile. A mezzanotte le ragazze erano tutte sfinite e si addormentarono sui tanti divani e cuscini. Soltanto il principe rimase sveglio. “Non è che sia indifferente alla bellezza,” disse al dubbioso ministro “e neppure ignoro la forza delle umane gioie, ma soltanto ora vedo su tutto il segno del mutamento; pertanto il cuore è triste e pesante; se queste cose fossero certe di durare, al riparo dei mali della vecchiaia, della malattia e della morte, allora anch’io mi sazierei d’amore; e alla fine non vi troverei disgusto o tristezza. Se impedirai che in futuro la bellezza di queste donne si alteri o appassisca, allora, forse, le gioie dell’amore potranno tenere lo spirito in schiavitù a dispetto della loro parte di male. Sapere che gli altri uomini invecchiano, si ammalano e muoiono, sarebbe sufficiente a spogliare tali gioie di soddisfazione: ma quanta più scontentezza dovrebbe riempire la mente di costoro sapendo quel che li attende; sapere che simili piaceri sono destinati in breve tempo a corrompersi, e che lo stesso sarà del loro corpo; se pur sapendo ciò gli uomini cedono al potere dell’amore, il loro caso non è dissimile da quello delle bestie. Tali gioie altro non sono che la seduzione di una vuota menzogna. Ahimè! Ahimè! Udayi! Queste, alla resa dei conti, sono le grandi preoccupazioni; il dolore della nascita, della vecchiaia, della malattia e della morte; questo dolore è ciò che dobbiamo temere; gli occhi vedono che tutte le cose precipitano nella corruzione, e tuttavia il cuore trova gioia nell’inseguirle. Che disgrazia per il mondo! Che cieca ignoranza, quale mancanza di comprensione!”
Al che fece un voto: “Ora io cercherò una nobile legge, diversa dai metodi terreni conosciuti dagli uomini. Mi opporrò a malattia, vecchiaia e morte, e combatterò i danni che queste causano agli uomini”. Per fare questo si risolse a lasciare il palazzo per sempre, andando a meditare nella solitudine della foresta, com’era costume in quei tempi di genuina religione.
Quindi indicò a Udayi le ragazze addormentate, perché ora, senza i loro deplorevoli trucchi, distese dappertutto, ronfando in pose sgraziate, non erano più belle ma soltanto misere sorelle in un mondo che brucia di dolore.
Quando il re venne a sapere che suo figlio aveva deciso di lasciare la casa per abbracciare la vita religiosa protestò tra mille lacrime. Ma il giovane monarca disse: “Vi prego, non ponete ostacoli al mio cammino; vostro figlio abita in una casa in fiamme e vorreste impedirgli di lasciarla! Trovare risposta ai dubbi è soltanto ragionevole, chi mai potrebbe proibire a un uomo di cercare le sue spiegazioni?”. E mise in chiaro che si sarebbe tolto la vita piuttosto che proseguire nell’ignoranza per ottemperare ai doveri filiali.
Vedendo il padre piangere, il principe decise di partire di notte. Non soltanto il maharaja, anche la bella principessa Yasodhara lo supplicava di non rinnegare i doveri e le responsabilità della sovranità e della vita matrimoniale. Con la testa nel grembo di Yasodhara, lui si affliggeva nell’intimo, sapendo la sofferenza che la sua piena rinuncia le avrebbe causato. E rifletté: “La mia amata madre, quando era in mia attesa, mi portò dentro di sé con grande e penoso affetto, e non appena nacqui lei morì, non le fu concesso di nutrirmi. Uno vive, l’altro muore, procedendo per diverse strade, dove mai si troverà ora mia madre? In natura, allo stato selvaggio, nell’alto degli alberi, gli uccelli vivono assieme ai loro compagni, e alla sera si riuniscono e all’alba si disperdono, così sono le separazioni del mondo”. Guardando suo figlio Rahula di tre anni, fu attraversato da pensieri che così lo fecero parlare: “Il nome con cui debbo chiamare Rahula è vincolo, giacché è un altro vincolo che io devo spezzare”.
Al servitore Kandaka, nel mezzo della guardia notturna, quando tutto era pronto disse: “Sella il mio cavallo e portalo subito qui. Desidero raggiungere la città immortale; il mio cuore è oltremodo determinato, risoluto io sono e vincolato da un sacro giuramento”.
Uscirono in silenzio dal cancello regale. Nel voltarsi indietro una sola volta, il principe, tremante, gemette: “Se non mi sottraggo per sempre a nascita, vecchiaia e morte non andrò avanti”.
Padrone e servitore cavalcarono nella foresta della notte. All’alba, giunti a un determinato luogo, smontarono da cavallo e riposarono. “Sei stato un valente destriero!” disse il principe dando pacche affettuose all’animale. E al suo servitore: “Sempre mi hai seguito mentre io cavalcavo, e tanto è profondo il mio senso di gratitudine per la tua devozione che non posso esprimerlo a parole, per cui lascia che ti dica in breve che ora siamo giunti al termine del nostro rapporto. Prendi dunque il cavallo e torna indietro, giacché dopo aver tanto viaggiato nella notte quel posto che cercavo di raggiungere l’ho ora raggiunto!”.
Nel vedere che il servitore era pieno di riluttanza e rammarico, il principe gli porse un prezioso gioiello: “O Kandaka, prendi questa gemma e torna da mio padre, prendi il gioiello e deponilo con reverenza al suo cospetto quale simbolo del nostro amorevole vincolo: e quindi, da parte mia, chiedi al re di reprimere ogni mutevole sentimento d’affetto e digli che io, per sottrarmi a nascita, vecchiaia e morte, sono entrato nella foresta selvaggia della disciplina dolorosa; non perché io conti di ottenere una nascita divina né, peggio, perché non sia tenero di cuore o abbia caro quel che è fonte di amarezza, ma soltanto perché cerco la via della definitiva sottrazione.
“I miei molti antenati, sovrani vittoriosi, convinti che il loro trono fosse fisso e incrollabile, mi hanno consegnato le loro regali ricchezze; io, pensando soltanto alla religione, le pongo da parte; io mi rallegro di avere conseguito la ricchezza religiosa.
“E qualora pensassi che sono giovane e che il momento di cercare non è per me ancora giunto, sappi che per cercare la vera religione non v’è mai un momento che sia inappropriato; impermanenza e incostanza, l’odio della morte, ci inseguono sempre, e pertanto abbraccio il giorno presente, nella convinzione che il momento di cercare sia adesso.”
Il povero Kandaka pianse.
“Smetti di struggerti a questa maniera, spetta a te farti animo; quelle stesse creature che oggi, ciascuna a suo modo, nella insensata convinzione che le cose siano perenni, mi esortano a non abbandonare i parenti e gli affetti più cari, come potrebbero trattenermi una volta che saranno morte e diventate fantasmi?”
Queste parole di sfolgorante e pura saggezza non giungevano dalle labbra di un vecchio sapiente, bensì da quelle di un giovane e gentile principe ed erano oggetto di grande afflizione per coloro che lo amavano e desideravano le sue continue attenzioni. Ma non c’era altro modo; le sue relazioni con il mondo dovevano essere recise.
“È dalla notte dei tempi che le genti perseverano nell’errore,” disse “si uniscono in società e coi vincoli dell’amore e poi, come dopo un sogno, tutto finisce per disperdersi. Che tu possa divulgare le mie parole: ‘Solo quando avrò trovato scampo dal triste oceano della nascita e della morte, soltanto allora farò di nuovo ritorno; ma sono risoluto, se la mia ricerca non avrà successo le mie spoglie periranno nelle montagne selvagge’.”
Quindi afferrò la spada scintillante e si tagliò i bellissimi capelli biondi, e attaccò la spada insieme con preziosi gioielli alla sella del suo veloce e ardimentoso destriero: “Segui dappresso Kandaka. Non lasciare che il dolore cresca dentro di te, mi rattrista davvero perderti, mio prode destriero. È giunto il momento di venire compensato per i tuoi meriti: godrai a lungo del sollievo da una perversa nascita”. Al che li carezzò, cavallo e servitore, e si erse solitario nella foresta, la testa rasata, le mani nude, come un dio-Vajra, pronto e in attesa e tuttavia già vittorioso.
“Ora i miei ornamenti sono andati per sempre, rimangono soltanto questi indumenti di seta, che non si attagliano alla vita di un eremita.”
Passò un uomo in abiti cenciosi. Gotama gridò: “Mi piace molto quel tuo vestito sebbene così sudicio, e questo è l’abito che ti offro in cambio”. L’uomo, che Gotama prese per un cacciatore, era in effetti un religioso eremita ovvero un Rishi, un Saggio, un Muni. Il principe se ne avvide non appena lo scambio di vestiti fu effettuato. “Questo non è un indumento qualunque! Non è stato indossato da un uomo mondano.”
Si rimise in cammino, immerso in serie meditazioni. Più tardi, nel corso della giornata, gli venne una gran fame. Secondo le antiche usanze di chi si è consacrato alla povertà, mendicò il suo primo pasto di porta in porta fra le capanne di paglia del villaggio. Il suo passato di principe lo aveva abituato alle migliori pietanze preparate dallo chef reale, e così adesso quando queste offerte di umile cibo incontrarono il suo palato raffinato, cominciò d’istinto a sputarle. D’un trat...