Con gli occhi del nemico
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Con gli occhi del nemico

Raccontare la pace in un paese in guerra

  1. 112 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Con gli occhi del nemico

Raccontare la pace in un paese in guerra

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Informazioni sul libro

Cosa può fare uno scrittore per aiutare il proprio paese a ritrovare la pace? Semplicemente il proprio mestiere: scrivere. Creare storie in grado di far entrare i lettori nella pelle altrui, di far loro guardare il mondo con gli occhi di un altro. Anche se l'altro è un nemico.
Nei quattro brevi saggi che formano questo libro David Grossman ci offre una testimonianza di lancinante bellezza sul valore della letteratura e, insieme, un'amara e acuta riflessione sulla cupa realtà odierna del Medio Oriente e del mondo.

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Informazioni

Meditazioni su una pace che sfugge

Intervento al simposio del Circolo Lévinas, Parigi, 5/12/2004.
Traduzione di Elena Loewenthal.
La pace tra Israele e i palestinesi, tra Israele e l’intero mondo arabo, è ancora, purtroppo per noi, soltanto una questione di speranze, ipotesi e intuizioni. In questi ultimi anni sembra anzi sempre più lontana. Ma anche adesso – forse adesso più che mai – dobbiamo pensare continuamente a questa figura della pace che si allontana, al modo in cui l’immaginiamo, e farne un costante «stimolo» per il pensiero.
Dopo il fallimento del processo di Oslo, circa una quindicina di anni fa, solo pochi hanno avuto ancora la forza d’animo di sottrarsi all’inferno della quotidianità per le strade di Israele e Palestina, e di ricordare che esiste la possibilità di una vita diversa, una vita di pace fra questi acerrimi nemici. Se non trattenessimo nella mente le potenziali fattezze della pace, se non ci impegnassimo senza tregua a immaginarle come un’opzione realistica, come un’alternativa alla situazione esistente, resteremmo solo e soltanto con quella disperazione che la guerra e l’occupazione e il terrorismo creano, quella disperazione responsabile del fatto che la guerra e l’occupazione e il terrorismo non passeranno presto.
Qui vorrei trattare di un particolare aspetto dei possibili effetti della pace tra Israele e i suoi vicini, e cioè di come la pace potrebbe aiutare Israele a guarire da quei mali e dalle deformazioni che attualmente minano la sua salute e il suo regolare sviluppo, come Stato e come società.
Per non dilungarmi troppo, non tratterò qui altre questioni ugualmente rilevanti, come l’effetto dell’eventuale pace sul Medio Oriente in generale, sugli Stati arabi, sui palestinesi; e non potrò sfiorare nemmeno un altro tema a me molto caro: il futuro dei rapporti fra la maggioranza ebraica e la minoranza araba all’interno dello Stato di Israele. Tenterò invece di concentrarmi su cose sulle quali di solito ci si sofferma poco quando si prova a descrivere e immaginare la pace che verrà.
Innanzitutto, così sento io, la possibilità e la disponibilità a immaginare uno stato di pace significa, prima di ogni altra cosa, essere convinti che noi, gli israeliani, abbiamo un futuro. Non sto parlando di un futuro buono o cattivo, ma soltanto della possibilità che esista un futuro. Della salda fiducia nell’eventualità che Israele esista effettivamente ancora per molti anni. Una prospettiva, questa, che per molti israeliani non è affatto sicura.
Forse alla radice del nesso quasi inconsapevole che esiste fra le parole «pace» e «futuro» nella lingua ebraica sta il fatto che sia la breve storia dello Stato di Israele sia l’assai lunga storia del popolo ebraico non hanno praticamente mai conosciuto periodi prolungati di pace completa, di esistenza serena e sicura, non minacciata. Pertanto, nella coscienza ebraica e israeliana, la parola «pace» è sempre, nel suo intimo, connessa a un’aspirazione, a una speranza, e non precisamente a una situazione esistente, concreta. È come se, nella grammatica, la parola «pace» avesse una natura tutta particolare, unica: un sostantivo dentro il quale si nasconde, come un passeggero clandestino, un verbo sempre coniugato al futuro.
La speranza di pace è, come è noto, uno fra gli ingredienti principali della preghiera ebraica e della profezia consolatoria dell’antico Israele. Solo in futuro e, per dire tutta la verità, solo «in fondo ai giorni», «non più popolo contro popolo alzerà la spada, né più s’addestreranno alla guerra» come dice il profeta Isaia (2,4); e solo per il futuro, in fondo ai giorni, re Davide promette a Gerusalemme che «sarà pace fra le tue mura, sicurezza nei tuoi palazzi» (Salmi 122,7).
«Esulterò di Gerusalemme» prosegue Isaia (65,19). «Non si udrà in essa più grida di pianto, grido di lamento. Non vi sarà più un bimbo dai giorni contati, né vecchio che non compia i suoi giorni: giovane morirà chi muore a cent’anni» (65,20) (potete certamente immaginare quale eco produca questa frase nell’attuale realtà israeliana, dove così tanti genitori seppelliscono i propri ragazzi). C’è speranza, c’è bellezza, nella connessione fra la pace e il «fondo dei giorni»; d’altro canto, siccome tale «scadenza» viene di solito, nella coscienza ebraico-israeliana, concepita come una meta astratta, utopica e fors’anche impossibile, la pace stessa viene colta così come qualcosa di astratto, utopico e impossibile. Una sorta di orizzonte che più ti avvicini, più si allontana.
In effetti, quando ci concediamo di riflettere seriamente sulla speranza che venga una pace, ne consegue che possiamo pensare di avere anche un futuro. Un futuro in quanto popolo, in quanto Stato. Non crediate che sia una cosa tanto ovvia: per la maggioranza degli israeliani, infatti, questa eventualità non è affatto scontata. E non mi pare esistano molti altri popoli con un rapporto così scettico e diffidente verso la possibilità di disporre di un futuro, di durata, di esistenza costante nel luogo in cui vivono. Quando, per esempio, leggiamo su un giornale americano che gli Stati Uniti fanno proiezioni sul raccolto di grano dell’anno 2025, ci suona perfettamente logico e naturale. Ma quale israeliano oserebbe mai parlare con tanta disinvoltura della resa delle vacche da latte nel nostro Paese fra ventun anni?
Parlerò per me stesso: se provo a pensare in termini futuri analoghi a questi a riguardo di Israele, sento subito una fitta al cuore. È come se avessi infranto un tabù, come se mi fossi permesso una quantità eccessiva di futuro.
È strano il fatto che nonostante il popolo ebraico sia così antico, e così costante nel profilo della sua consapevolezza storica e della propria identità, una parte essenziale della sua autodefinizione sembra essere il presentimento di una fine imminente, la spada di Damocle di una catastrofe. È precisamente quel sentimento che ogni ebreo esprime la sera di Pasqua, quando legge nell’Haggadah: «Che in ogni generazione si pongono contro di noi per sterminarci». È, ovviamente, un sentimento che si è cristallizzato non intorno a farneticazioni paranoiche, ma come conseguenza di ben note circostanze storiche. Però, oggi la questione che ci interessa è la seguente: la vita in una stabile condizione di pace e sicurezza esistenziale potrà mai cambiare questa percezione, questa amara visione del mondo impressa così profondamente nell’animo ebraico-israeliano? Questa consapevolezza che, in fondo, definisce l’esistenza come qualcosa di condizionato, di fragile, di problematico, e di eccezione fra le altre nazioni?
Un’altra domanda sorge dalla precedente, di cui è la conseguenza: che cosa significa vivere senza un nemico?
Immagino che a una parte dei presenti questa possa sembrare una domanda bizzarra. Soprattutto per coloro che sono nati dopo la Seconda guerra mondiale. Ma io, come ogni israeliano, non so che cosa sia una vita senza un nemico. Non so che cosa significhi vivere la mia vita senza la stabile presenza di un nemico. Senza l’impulso ad arroccarsi, difendersi, senza l’aggressività verso colui che minaccia la tua casa e non di rado anche la tua vita.
Immagino che quand’anche si arrivasse presto a un accordo di pace, esso sarebbe – quantomeno nei primi anni – fragile e assai traballante, fitto di atti terroristici e di violenze bilaterali tali da non metterci tanto presto di fronte al «problema» di come vivere senza un nemico. Ma alle generazioni future, a loro sì, auguro di trovarsi costrette a confrontarsi con questo problema.
Sarà una sfida non da poco: imparare a vivere una vita non più limitata dall’ostilità, dalla paura e dalle violenze. Vivere dentro una sensazione di continuità e di futuro durevole. Educare i propri figli sulla base di opinioni e convinzioni che non sono inevitabilmente foggiate dalla paura della morte. Crescere i tuoi figli senza il quotidiano terrore che in ogni momento ti possano essere strappati via. Forse pian piano scopriremo che, insieme alle paure, si potrà cominciare a rinunciare anche a certe parti dell’ethos israeliano, concepito in larga misura per contesti di lotta armata: il rapporto di forza come valore in sé. L’esercizio della forza come alternativa pressoché automatica in ogni situazione di confronto, o anche per paura del confronto. La sopravvalutazione della forza e dei suoi agenti: esercito e ufficiali; stima in conseguenza della quale a guidare il Paese vengono scelti dei militari, che fors’anche per questo lo condannano ad agire secondo un’angusta logica militare: in fondo, dentro una guerra incessante.
(In effetti, ciò ha una logica: un popolo che si trova da sempre in guerra, in genere sceglie dei combattenti per farsi guidare. Ma, capovolgendo la questione, il fatto che siano dei combattenti a guidare il popolo non lo condanna a trovarsi continuamente in una situazione bellica, in un conflitto permanente?)
Il senso d’assedio e la paura di ciò che si sta tramando contro di noi al di là del confine creano inevitabilmente un’ansia di consenso interno a qualunque costo, un consenso che a volte assomiglia al concitato istinto di assembramento di un gregge quando avverte una minaccia. Ma quando verrà il giorno in cui non saremo più costretti a definirci costantemente in termini di guerra e assedio, quando ci sarà permesso di liberarci pian piano dalla rigida, meschina e univoca distinzione fra chi è «con noi» e chi è «contro di noi», fra chi appartiene al «noi» e chi è un perfetto estraneo (e, in quanto tale, sospetto nemico), forse potremo imparare, a poco a poco, a essere più tolleranti verso altri punti di vista e altre voci, in ogni contesto: in politica, nella religione, nelle definizioni di genere, nei rapporti fra uomini e donne e, a maggior ragione, nei rapporti sempre tesi, spaventati, fra arabi ed ebrei dentro lo Stato di Israele.
Se arriveremo, un giorno o l’altro, a non avere più nemici, potremo forse liberarci anche di quella ben nota propensione israeliana a rapportarsi alla realtà con l’atteggiamento del sopravvissuto, il quale si ritrova «programmato» – o condannato – a definire la situazione che gli si prospetta essenzialmente in termini di minaccia, pericolo, imboscata, o, per contro, di coraggiosa e miracolosa fuga. Il sopravvissuto non di rado ignora quel che potrebbe rendere più complesso il quadro del suo mondo, che potrebbe sospendere le sue reazioni istintive, e per questo tende a cancellare anche le sfumature intermedie, le sottigliezze: in sostanza non è in grado di sostenere la complessità della realtà con tutti i suoi chiaroscuri, le sue contraddizioni, le eventualità e le aspettative che essa contiene. In altre parole, si condanna quasi a continuare a esistere dentro il suo contesto parziale, approssimativo, diffidente e spaventato; e con ciò si condanna anche, per sua disgrazia, a tornare continuamente alle proprie paure, ai propri incubi.
Riusciremo mai a liberarci da questo paralizzante paradosso esistenziale del popolo ebraico, un popolo che lungo tutta la sua storia è sopravvissuto per vivere e che oggi si ritrova, perlomeno in Israele, a vivere per sopravvivere?
Perché le tendenze combattive, l’istinto di sopravvivenza, esercitano oggi un’influenza negativa anche all’interno della società israeliana. Perché, dopo più di cent’anni di incessante conflitto militare e nazionale, di guerre e operazioni belliche, di allerta e cicli inesausti di vendetta e rappresaglia, la diffidenza e l’astio che gli israeliani si sono abituati a riversare verso l’altro, verso il nemico, sono diventati un atteggiamento, un comportamento quasi automatico nei confronti di ogni altro, anche se questi è «uno di famiglia», anche se è un fratello.
Guardate quanta poca comprensione e simpatia abbiamo noi israeliani verso altri israeliani che non appartengono al nostro «gruppo» o «tribù». Con quale animosità o sarcasmo trattiamo le sofferenze vere, autentiche, di quegli israeliani che non sono «noi». Come se il nostro ostinato e ormai automatico rifiuto di ammettere persino l’esistenza del dolore dei palestinesi, perché potrebbe minare la giustezza delle nostre ragioni, avesse finito per guastare anche il nostro buon senso e l’istinto affettivo naturale; e così si sono gradualmente affievoliti il senso di comunanza, la solidarietà che molti israeliani provano per altri gruppi sociali del Paese. Si va insomma sviluppando una profonda ostilità fra destra e sinistra, fra laici e religiosi, fra mondi nuovi e vecchi, fra ricchi e poveri, fra ebrei-israeliani e arabi-israeliani. Ne vanno di mezzo la coesione sociale e civile, quel senso di identificazione che è il minimo indispensabile dentro uno Stato con degli obiettivi. Ne va di mezzo, ancora, il valore primario ebraico di un’appartenenza comune e una responsabilità reciproca. Dunque, Israele sta perdendo uno dei beni più preziosi che un popolo possa avere: il senso di identificazione nazionale.
Dirò ora qualche parola sulla sicurezza. Non sono un esperto di sicurezza, e può darsi che i «sicurezzologi» professionisti liquidino le mie parole come fantasie di un perfetto dilettante. E tuttavia proverò a dire cose che anche un ignorante come me comprende.
Sicurezza non significa soltanto un esercito forte. Sicurezza, nella sua accezione più ampia, significa anche un’economia forte e stabile, una riduzione del divario sociale e una crescita della coesione interna, un buon si...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Con gli occhi del nemico
  3. Conoscere l’altro dall’interno, ovvero la voglia di essere Gisele
  4. L’arte di scrivere nelle tenebre della guerra
  5. Meditazioni su una pace che sfugge
  6. Il dovere di Israele è scegliere la pace In ricordo di Yitzhak Rabin
  7. Copyright