L’intera faccenda della guerra di Cortina cominciò a Brownsville, Texas: un abitato che il Río Grande separava dalla porzione sud, il porto di Matamoros, rimasto in mani messicane. Polverose l’una parte e l’altra, malgrado l’intensa attività fluviale, e cotte quasi perennemente dal sole. Ma a Brownsville gli anglos li tenevano a bada, i messicani, li facevano lavorare. Cosa che, secondo William R. Henry (fiero di discendere da Patrick Henry, il grande patriota e oratore della Virginia), non era precisamente nella loro natura. Ogni messicano non solo era pigro, ma anche potenzialmente ladro; e ciò per istinto, educazione, storia. Questione di razza, insomma.
William Robertson Henry, detto “Big Bill”, alle quattro del mattino del 16 settembre 1859 si trovava nella casa di una signora niente affatto messicana. Marion Saltstreet Gillespie, vedova quarantenne di un sottufficiale di Fort Brown caduto due anni prima in un agguato dei Comanches, faticava a convivere con i quattro schiavi negri che la servivano. Eppure trovava ancora più repellenti i messicani che si ostinavano a vivere a Brownsville, per lo più impiantati lì prima dell’indipendenza del Texas – Tejas, lo chiamavano loro – e dell’annessione agli Stati Uniti.
Fu Marion la prima a udire gli spari. Si sottrasse alle mani di Henry e scattò in piedi, facendo cigolare il divano. «Bill, avete sentito? Cosa saranno questi colpi? Vengono da qui sotto, da Elizabeth Street!»
Henry tese le braccia. «Sarà qualche ubriaco! Suvvia, Marion, tornate da me!»
«No, no! Non udite i cavalli?» La vedova stava facendo del suo meglio per far rientrare nelle coppe del busto i seni esuberanti, arrossati dove Henry li aveva baciati con troppa energia. «Devono essere in parecchi! Mio Dio, non saranno gli indiani?»
«Ma no! Non attaccherebbero mai una città!»
Henry si alzò di malavoglia. Dopo una cena iniziata la sera e protrattasi fino a quell’ora, finalmente era riuscito ad accendere i sensi della signora Gillespie. Se non fosse stato quel gentiluomo che fingeva di essere avrebbe imprecato contro l’interruzione, ma si sentiva anche lui un po’ inquieto. Adesso gli spari si udivano distintamente, e anche i tonfi degli zoccoli che percuotevano la terra battuta. Si accostò alle tendine dell’unica finestra, mentre aggiustava i pantaloni che, un minuto prima, era sul punto di sfilare.
Da Elizabeth Street giungevano grida in spagnolo, che presto si fecero nitide: «¡Viva la República méxicana!», «¡Mueran los gringos!», «¡Viva el Chino Cortina!».
«Cheno Cortina!» ripeté Henry, arrangiando a suo modo la pronuncia. «Chi sarebbe?»
Marion si stava riallacciando la camicetta. Malgrado lo chablis bevuto in abbondanza, sia pure a piccoli sorsi, sembrava vergognarsi un poco dell’accesso di lussuria da cui si era lasciata travolgere. «È un possidente messicano dei paraggi, piuttosto noto. Juan Nepomuceno Cortina, detto “Cheno”. Due mesi fa ha litigato col nostro marshal e lo ha ferito. Si credeva che la cosa fosse finita lì.»
«Ma quelli inneggiano alla Repubblica del Messico!»
«Non fatevi caso, Bill. Cortina non si è mai occupato di politica. C’è invece da temere che, ubriachi come sono, quei messicani diano fuoco a qualche abitazione!»
«Questa casa è di pietra e non brucia facilmente. Dunque potremmo continuare quello che…»
Lo sguardo che saettò dagli occhi azzurri di Marion, divenuti di colpo durissimi, frenò le speranze di Henry. «Non ci pensate nemmeno, Bill! C’è da spegnere le luci e da svegliare quei poltroni di negri perché sbarrino le porte.»
Henry si rassegnò. Girò uno dopo l’altro i perni delle lampade a petrolio, facendo cadere la stanza nella semioscurità. Rintracciò su un tavolino di marmo il cinturone con la massiccia Walther, che non abbandonava da quando era stato sceriffo di Bexar County, e lo allacciò alla vita. Infine raccolse la giacca, posata sull’orlo di una poltrona. Mentre la indossava, toccò casualmente la stella di latta racchiusa in un cerchio dei Rangers del Texas. Meglio toglierla. La ripose nella tasca dei calzoni, dove aveva già nascosto la foto di sua moglie Consolación, e finì di vestirsi.
Non ci fu bisogno di svegliare i negri. Erano tutti quanti in piedi alla base delle scale, al piano di sotto: un uomo anziano, due donne grasse e una ragazza sui diciott’anni. C’era stato un tempo in cui la vedova Gillespie aveva posseduto una quindicina di schiavi, tutti in buone condizioni fisiche e con i denti sani. Ma allora suo marito era in vita, e a quei tempi anche un piccolo appezzamento rendeva bene. Non come adesso.
«Cosa fate, qua impalati?» sbottò Marion, rivolta ai negri. «Non sentite che fuori c’è il finimondo? Bisogna barricare porte e finestre!»
«Già fatto, padrona» rispose lo schiavo con i capelli bianchi. «Con l’aiuto di Dio, qui non entrerà nessuno.»
«Ne sei proprio sicuro, Eliah? Hai chiuso anche l’uscio che dà sulla legnaia?»
«Sbarrato pure quello, con una trave a fare da puntello.»
Henry scese gli ultimi gradini. «Allora bisognerà toglierla, la trave. Intendo uscire da quella parte.»
«Ma Bill!» esclamò Marion. Subito si corresse: «Ma sergente Henry! Non vorrete uscire in strada mentre si spara!».
Il ranger abbozzò un inchino. Era sicuro che, per via del buio, la vedova non avrebbe colto il sorriso ironico con cui accompagnava il gesto. «Signora, stare dove si spara fa un poco parte del mio mestiere. E poi, sia detto tra noi, avete fatto mancare alla mia cena il dessert su cui contavo. Esco anche per placare un poco il mio appetito.»
L’ironia era di superficie. I testicoli non svuotati gli facevano un male del diavolo.
Se non ci fossero stati i negri presenti, Marion avrebbe di sicuro dato a Henry dell’insolente. Invece preferì tacere. Dopo un nuovo inchino, più profondo, il ranger afferrò Eliah per una spalla e si fece condurre alla legnaia.
A Brownsville mancava ancora l’illuminazione pubblica; per fortuna, però, l’alba incipiente stava già schiarendo la sabbia delle vie, i profili delle case e le alberature delle imbarcazioni alla fonda nel molo. La polvere nell’aria era densa, perché i messicani continuavano a cavalcare lungo Elizabeth Street e le altre arterie. Adesso sparavano anche colpi di revolver, tanto che il frastuono copriva le grida.
La confusione, pensò Henry, era apparente. Quando dalla legnaia corse al riparo del porticato di una vicina bottega di ferramenta, si accorse che alcuni degli uomini impegnati nella scorribanda erano scesi da cavallo e, come se obbedissero a un piano, si stavano raggruppando agli incroci delle vie principali. Poiché molti altri seguitavano a correre al galoppo, gli invasori di Brownsville dovevano essere numerosi. Una cinquantina, se non di più.
«¡Mueran los gringos! ¡Libertad para el Tejas!»
Henry conosceva poco lo spagnolo, malgrado il servizio prestato prima nella guerra contro il Messico, poi a Goliad, nel nascente esercito della Repubblica del Texas, quale comandante di plotone. Tuttavia colse il significato di quelle parole, e un brivido gli scese lungo la schiena. Quella non pareva un’incursione di banditi o uno schiamazzo di ubriachi. Aveva tutta l’aria di essere un atto politico.
Ne ebbe conferma quando, di colpo, i cavalieri frenarono la loro corsa e presero a radunarsi, al passo, di fronte all’edificio di stile coloniale che ospitava l’ufficio del marshal, in Market Plaza. Fu allora che venne avanti un uomo robusto, ben ritto in sella, dalla folta barba rossa e dagli occhi infossati, di taglio strano.
Henry non ebbe dubbi: non poteva trattarsi che di Juan Nepomuceno Cortina. A parte il portamento fiero e l’arretrare degli altri cavalli al suo passaggio, lo si capiva dal completo elegante che indossava, dalla sciabola che gli pendeva dal fianco, dalle argentature degli stivali, scintillanti alla luce fioca. Il tipico hacendado messicano, altero e bellicoso.
La conferma dell’appartenenza a una classe superiore venne dall’inglese, per quanto approssimativo, con cui parlò, rivolto alla facciata dell’edificio che aveva davanti. «Marshal Robert Shears, sono certo che mi udite! Ricordate cosa avvenne in luglio al bar di Catsel? Dovetti intervenire per salvare un innocente vaquero che avevate percosso a sangue. Fui costretto a spararvi, e voi mi deste la caccia. Mi costringeste ad abbandonare le mie proprietà e a darmi alla macchia. Rispondete! Ve ne ricordate? Scommetto di sì!»
Il discorso pareva rivolto, più che all’invisibile interlocutore, che quelle cose le sapeva, alla gente del paese, come se Cortina volesse ricapitolare i propri moventi. Lo confermava il tono retorico, del resto tipico dei messicani in armi.
Dagli uffici del marshal nessuno replicò. Adesso il silenzio era totale, a parte qualche nitrito isolato. Henry pensò che tutti i cittadini di Brownsville, in quel momento, erano dietro le finestre e trattenevano il fiato. Pensò anche che aveva sbagliato le proprie valutazioni: i messicani a cavallo radunati in Market Plaza non erano meno di settanta. Il fatto che non producessero alcun rumore, conoscendo quella gente chiassosa di natura (a partire da quella chiacchierona di sua moglie), aveva del miracoloso.
Dopo una breve attesa, Cortina continuò: «Marshal Shears, non è per consumare una vendetta personale che sono qua. Da oggi un lembo della terra strappata al Messico torna nelle mani dei legittimi possessori. Voi vi trovate, pertanto, entro i confini della nostra Repubblica, e sotto il governo del presidente Benito Juárez. Consegnatevi senza reagire: sarete trattato con umanità e giudicato. Se dovremo fucilarvi, ciò avverrà nel rispetto dell’onore militare. In caso contrario, farò passare per le armi i gringos che si sono macchiati di gravi prepotenze nei confronti del mio popolo. Senza alcun giudizio, ma con un disonorevole colpo alla nuca».
Di nuovo regnò il silenzio. Lo ruppe una voce maschia, proveniente dal lato est della piazza. Sebbene conoscesse poco Brownsville, Henry vi era capitato di tanto in tanto, anche prima di imbattersi nella vedova Gillespie. Riconobbe dunque la voce. Era quella di Gabriel Catsel, il proprietario del caffè che Cortina aveva appena evocato.
Tra i due doveva esserci confidenza, perché nel tono di Catsel non c’era ombra di timore. «Don Cortina, sono Gabriel! A quanto ne so io, state sprecando fiato. Il marshal è fuori città. Quell’edificio è deserto.»
«Non c’è nemmeno il sindaco Powers? O lo sceriffo Browne?» chiese Cortina, perplesso.
«Nemmeno loro. Sono a casa a dormire, suppongo.»
Henry, che per via della luce aumentata si teneva rattrappito dietro una colonna di legno, si attese un nuovo sfogo di collera messicana, seguito da frasi magniloquenti e da un ordine di ritirata.
Niente affatto. Dopo essersi carezzato la barba rossa in un gesto riflessivo, Cortina ordinò, con timbro aspro: «E va bene. Chi ha l’elenco degli oppressori da eliminare? Tu, Ramón García? Fatti avanti e leggilo a voce alta. I nostri ragazzi, poi, sanno cosa fare».
Il giovane designato spinse avanti il cavallo, però restò poco visibile. Non per via della luce dell’alba, che si stava rafforzando, ma per la pelle scura del viso. Era di sicuro un messicano, pensò Henry, e se sembrava un negro, forse lo si doveva a una genealogia cubana o caribica e a una discendenza da schiavi. Ciò che lo stupì di più fu che il piccolo uomo bruno parlasse un inglese più corretto di quello biascicato da Cortina.
«Ecco gli uomini che meritano la morte. Anzitutto il marshal Shears, è ovvio. Poi i padroni che tengono come schiavi i loro peones: Red Thomas, Peter Collins. Quindi coloro che hanno ucciso dei messicani e sono rimasti impuniti: William Peter Neale, George Morris. Infine chi ha rubato con l’astuzia terre messicane: Henry Khan, Adolphus Glavecke. Non vedo altri nomi nella lista, comandante Chino.»
«Infatti non ve ne sono.» Cortina alzò la voce. «Noi non ce l’abbiamo con gli americani onesti, per quanto complici di fatto della nostra oppressione, ma solo con quelli cattivi, responsabili di atti crudeli. Gli altri cittadini di Brownsville possono stare tranquilli. Sobre todo los hermanos mexicanos, que van a recordar ese día como el comienzo del rescate de los pobres… Vicecomandante Cabrera!»
Un secondo cavaliere si avvicinò al capo. Era un uomo molto giovane, molto magro e molto baffuto, con un fucile Enfield a tracolla. Indossava la classica casacca bianca dei contadini, e sulla schiena gli pendeva il cappello ampio e tondo fatto di fibre di foglie di palma.
«Estoy aquí, Chino.»
«Tu, Tomás, ora prenderai gli uomini che ti occorrono e procederai alle esecuzioni. Più tardi mi verrai a riferire lì, all’hotel Miller.» Cortina indicò un edificio a due piani, l’albergo più decoroso della cittadina, frequentato da mercanti di cotone. «Finché non prenderemo Fort Brown, sarà il mio quartier generale.»
«Agli ordini, Chino!» Cabrera abbozzò un saluto militare e girò il cavallo. Henry lo vide designare a dito gli uomini che intendeva portare con sé.
Cortina non aggiunse altro e mosse in direzione dell’hotel Miller, seguito da Ramón García e da altri luogotenenti. Una voce tenorile intonò, da un lato della piazza ormai il...