Slow Economy
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Rinascere con saggezza

  1. 204 pagine
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Rinascere con saggezza

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"A Manhattan i primi apparvero anni fa, ma all'inizio erano solo una curiosità, una stravaganza, un esotismo per turisti. I rickshaw o risciò, le carrozzine trainate da un uomo a piedi o che pedala su una bicicletta, sono da due secoli un elemento fisso nel paesaggio urbano in Estremo Oriente, da Hanoi a Pechino. In Asia furono a lungo un simbolo di sfruttamento e oppressione. Ma a New York il loro numero cresce a vista d'occhio e non evocano certo sofferenza fisica: i guidatori di risciò americani sono giovanotti - e spesso anche ragazze - muscolosi e abbronzati. È un impiego part-time che attira gli studenti in un mercato del lavoro stremato dalla recessione. Nella bella stagione all'aria aperta stanno meglio loro dei poveri tassisti intrappolati nella lamiera. Quando iniziano le piogge e il traffico impazzisce, il conducente di risciò indossa impermeabile giallo e galosce, allarga il tettuccio di plastica, e trasforma il suo veicolo in un mezzo ancora più competitivo per chi ha fretta. Nella giungla d'asfalto il risciò supera le auto, s'infila in mezzo alle corsie, prende le scorciatoie. Emissioni di CO2: zero. Inquinamento acustico: zero, i risciò hanno un campanello da bicicletta, il rumore massimo che producono è l'ansimare del conducente che pedala. È un esempio fra tanti di "consumo frugale" che ci viene dall'Asia."
Dopo la grande recessione che ha colpito il mondo intero, l'Occidente si trova a fare i conti con un modello di crescita rivelatosi fallimentare, centrato sulla corsa al consumo e sull'indebitamento, che ha precipitato i cittadini nel caos e nella paura. Ma se a vacillare è un intero modello di vita, l'Occidente può forse cogliere un'opportunità di salvezza guardando a Oriente: a Paesi tornati a essere interlocutori imprescindibili, in primo luogo Cina e India, ma non solo. È qui che entra in gioco la Slow Economy: la via a uno sviluppo diffuso e sostenibile. Volgendo sempre lo sguardo a una millenaria saggezza orientale fatta anche di risparmio e frugalità.
Federico Rampini ripercorre i luoghi e le storie in cui Occidente e Oriente si sono lasciati contagiare reciprocamente, in un avvincente viaggio nella memoria e nel futuro. Un cammino intrapreso per avvicinarci a popoli e luoghi tanto remoti e allo stesso tempo un tentativo di trarre da loro qualche suggerimento che ci aiuti a trasformare l'uscita dalla crisi in una autentica rinascita. Come la preziosa lezione del Bhutan, piccolo Stato appollaiato sulle cime dell'Himalaya, che sembra aver trovato un misuratore di benessere "alternativo" rispetto al PIL, il FIL: la Felicità interna lorda.

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Informazioni

IV

«Il nostro ottimismo vi contagerà»

Il modello orientale e il desiderio di futuro

I neonati di Natale in India

«Non c’è un momento migliore di questo per mettere al mondo un bambino. Viviamo in un’epoca felice e la sua lo sarà ancora di più.» Ci vuole un bel coraggio a parlare così, quando il figlio che ti sta per nascere dovrà farsi largo sgomitando in un Paese di un miliardo e cento milioni di persone. Di fiducia le mamme indiane ne hanno da vendere, e in India fanno più bambini che in ogni altra nazione al mondo. La notte di Natale del 2007 i reparti di maternità qui hanno lavorato a pieno ritmo. In nessun’altra zona del pianeta gli uffici dell’anagrafe sono stati così indaffarati a registrare un esercito di neonati. Devika Chugh, 27 anni, era una delle mamme di New Delhi che stavano facendo il conto alla rovescia. Mi ha accolto radiosa in casa sua poche ore prima di entrare in ospedale, eccitata all’idea di raccontare la sua esperienza. Col pancione si è messa in viaggio all’inizio del nono mese da Hyderabad, dove lavora nel marketing di un’azienda di software, perché è qui a New Delhi, nella città dei nonni, che voleva far nascere il suo bambino. O la bambina, chissà. «Non ho preferenze maschio-femmina e mio marito neppure, davvero, però mi sarebbe piaciuto saperlo prima. Ma la legge vieta al ginecologo di dirci il sesso per evitare gli aborti selettivi…» Serena e rilassata, avvolta nel suo sari decorato con cento colori, Devika si diverte quando chiedo se non ha mai pensato che la vita potrà essere dura per un piccolo che nasce con tanti concorrenti a cui contendere lo spazio vitale. «Ah, certo questo è un Paese competitivo e il futuro se lo dovrà conquistare come abbiamo fatto noi: studiando, perché è l’istruzione che ci ha salvati. Questa lezione non dovranno dimenticarla i nostri figli. Ma nascono in un periodo fantastico. Pensi che il sogno di tanti nostri anziani era andare all’estero: l’emigrazione era l’unica via d’uscita. Io sono certa che il mio bambino invece crescerà in India e riceverà qui un’istruzione tra le migliori del mondo. L’India di oggi è l’America di quarant’anni fa, il Paese delle opportunità.» Dalle finestre di casa sua filtra una luce giallastra, il cielo di New Delhi è velato da una nebbia di smog puzzolente, sono i gas di scarico di una baraonda di camion, auto e motofurgoni che si avvinghiano negli ingorghi clacsonando ossessivamente. Che aria respireranno questi giovani? «Ne parliamo spesso con mio marito, sa» dice Devika, «cerchiamo di capire cosa possiamo fare. Qualcosa sta cambiando: arriva il gas naturale che è meno peggio del carbone, la gente impara a usare meno plastica e più materiali riciclabili. Cosa sarà questa città fra vent’anni? Dipenderà da noi e dai nostri bambini, io sono certa che miglioreremo tutto, riusciremo a pulire anche il colore del cielo.»
Quando è il momento di fare figli le mamme indiane non guardano solo in avanti. Il peso della tradizione è formidabile. Balza agli occhi il ruolo centrale della famiglia «allargata». Smita Rattan, 29 anni, ha lasciato un posto ben pagato all’American Express sette anni fa per dedicarsi all’educazione della sua prima figlia. Tra poche ore nascerà il secondo e anche per lui (o lei) nei primi anni vuole fare la mamma a tempo pieno. «Ho smesso di lavorare per la gioia di godermi le prime tappe della loro infanzia e sono proprio felice così» dice, «con mia figlia passo più tempo possibile e non mi basta mai. Gioco, studio, faccio i compiti con lei, che sta diventando un piccolo genio del computer. I piccoli noi non li facciamo neanche dormire in un’altra stanza, perfino la siesta voglio farla insieme.» Come tante mamme, durante la gravidanza si è trasferita a casa dei suoi perché anche i nonni sono figure centrali, amorosi e autorevoli, invadenti e indispensabili. «Saranno presenti durante le mie doglie, gli anziani leggono testi religiosi e cantano per aiutarci a placare i dolori.» I nonni hanno addobbato la casa come un tempio per la loro Smita incinta. Nella camera da letto troneggiano la statua di Shiva e della moglie Parvati circondati da un pantheon di altre divinità indù: Rama, Krishna, Ganesh l’elefante, Lakshmi la dea dell’abbondanza, Sai Baba, Durga Mata. È un presepio napoletano all’orientale, nel cuore della più grande religione politeista che sopravvive tenacemente da tremila anni. La prima lettera del nome del figlio sarà scelta da un sacerdote. Al quarantesimo giorno dalla nascita in casa dei nonni si terrà una cerimonia religiosa, la puja, per dare il benvenuto al piccolo nella casa e benedire il suo futuro. Schiere di familiari affluiranno in pellegrinaggio portando regali come tanti re magi, in un tripudio di collane di fiori.
La fede è stata preziosa per Shaveta Sanjay, 30 anni, manager della Citibank a Bangalore. Anche lei è venuta a New Delhi per partorire a Natale vicina ai suoi genitori. «Ho avuto una gravidanza difficile, piena di rischi. Ho padroneggiato la paura seguendo i consigli della mia ginecologa: ho letto solo libri sereni, le leggende e i poemi epici dell’antica tradizione induista, i fumetti che mettono in scena le gesta degli dei. Questi nove mesi mi hanno avvicinato al divino, ho capito che il potere dei medici ha dei limiti, alla fine siamo nelle mani della provvidenza. Spero che il bimbo che nascerà dedichi la sua vita ad aiutare i nostri connazionali più poveri. Ce n’è tanto bisogno. Sogno che sia un medico umanitario, che scelga nella libertà ma che nella sua vocazione ci sia lo spirito di servizio, per restituire quello che avrà ricevuto.»
Le prime tre donne col pancione che ho incontrato alla vigilia di Natale appartengono alla nuova India che ce l’ha fatta, al ceto medio che ha studiato, dove si parla un inglese perfetto e ci si sente cittadini del mondo. Sanno di essere privilegiate. Sono anche la dimostrazione che la condizione della donna può cambiare a una velocità spettacolare. In altre regioni dell’India ci sono ancora vedove che si suicidano per sfuggire a un destino di miseria e di emarginazione, altre che alla morte del marito si rasano la testa e vivono come monache. E per decine di milioni di contadine il parto è un rischio mortale, la contraccezione un lusso sconosciuto. Basta poco però: un salto di generazione, l’accesso alla scuola e all’università, per fare la differenza. «Mio padre aveva nove fratelli, io arrivata a due figli ho deciso che mi fermo.» L’India continuerà a crescere, sarà la fabbrica dei bambini del pianeta per tutto il XXI secolo, ma la galoppata della natalità si sta moderando via via che sono le donne a deciderla.
Meenakshi Shrivastava, 31 anni, è meno benestante delle altre. Lavorava in un albergo, la sua casa è di gran lunga la più modesta. Suo padre si è fatto quindici ore di treno dal Bihar («la terra dell’imperatore Ashoka» precisa orgogliosa, «il fondatore dell’India tollerante nel III secolo avanti Cristo») per venire ad assistere al parto di Natale. «Mio figlio non sarà un bambino viziato» dice Meenakshi, «non avrà una vita facile. Eppure sono convinta che sia fortunato a nascere oggi. La vera ricchezza dell’India siamo noi, sono questi bambini che studieranno tanto e costruiranno un bellissimo Paese.» Scoppia a ridere quando le dico che nella vecchia Europa fa paura questo futuro sempre più affollato da «loro». «Ma che strana idea! Di cosa vi spaventate, che male c’è se sarà un mondo pieno di giovani indiani? Per decenni abbiamo fornito New York di tassisti, d’ora in avanti vi daremo i migliori chirurghi. Il nostro ottimismo finirà per contagiare anche voi.»

«Lussuria», e la mia parrucchiera

I cinesi più privilegiati si sono offerti il weekend a Hong Kong, dove Lust, Caution di Ang Lee non è censurato, per vederselo comodamente sul grande schermo. Ma i meno ricchi non si sono privati del piacere proibito. A Pechino, dov’era uscito brevemente nelle sale cinematografiche con le scene di sesso tagliate e poi è sparito del tutto su ordine del governo, il risultato della censura è stato soltanto di avere ingigantito il business dei DVD pirata. Lo hanno visto tutti, anzi tutti e tutte. Compresa la mia parrucchiera Donna Du, che lamenta la cattiva qualità della sua copia pirata. Troppo scure le immagini, dice, e ne soffrivano soprattutto le acrobazie erotiche dei protagonisti, le scene da kamasutra cinese girate in camera da letto. Donna Du pensa che non sia solo il sesso ad avere scatenato il censore. «La storia stessa, la protagonista, tutto è scabroso: è una donna che va a letto col traditore della patria. Qui si preferiscono le eroine positive.» La vicenda del film, Leone d’Oro a Venezia nel 2007, si svolge nella Shanghai del 1942 sotto l’occupazione giapponese. La resistenza clandestina incarica una giovane studentessa di sedurre il capo della polizia segreta, un cinese al servizio del governo collaborazionista filonipponico. Lei ci riesce, ma proprio quando attira il suo amante verso l’agguato dove i partigiani dovranno ucciderlo ha un improvviso ripensamento e gli salva la vita. «È sbagliato guardarlo come una storia politica» dice Donna Du mentre mi massaggia il cuoio capelluto con lo shampoo, «quello che interessa è il lato umano, i sentimenti.» Obietto che proprio lì ho trovato un punto debole nel film, rispetto alla celebre e conturbante novella di Eileen Chang da cui è tratto. L’evoluzione psicologica della protagonista arriva quasi inspiegata, in un lampo, durante la visita dal gioiellere dove il suo amante le regala uno splendido anello con diamante. Possibile che lei scopra di amarlo, o di essere amata, solo in quel momento? Provoco la mia parrucchiera. «Davvero» le chiedo «basta un regalo costoso per conquistare il cuore di una donna cinese?» Del resto il titolo originale, Se, jie, è pieno di ambiguità. Se indica la seduzione femminile e il desiderio sessuale; jie vuol dire astinenza, autocontrollo, prudenza (solo la distribuzione italiana naturalmente ha cancellato tutta l’ambiguità puntando su Lussuria e basta). Ma ci sono anche altri significati: «ruolo teatrale» per se; «anello» oppure «accerchiare, dare l’allarme» per jie. «Macché diamante» risponde seccamente Donna Du, «è molto prima della visita in gioielleria che lei comincia a provare un sentimento diverso, dall’odio è passata all’amore durante i loro accoppiamenti. La spiegazione del film è nella frase di un antico filosofo cinese: la strada che porta al cuore dell’uomo passa dal suo stomaco, la strada che porta al cuore della donna passa dal suo sesso. Ecco, l’eroina del film rappresenta la donna nella sua debolezza naturale, è schiava del piacere.» Donna Du sta lavorando di forbici sui miei capelli, è seria e concentrata, non riesco a leggere un’ombra di ironia nel suo sguardo. Ripenso a tutto quello che so di lei. La conobbi quando lavorava in un grande albergo internazionale di Pechino. Si lamentava di essere una dipendente, soggetta ai capricci autoritari della sua capa, sognava di mettersi in proprio e aprire il suo salone estetico. Non aveva un fidanzato e raccontava le rampogne di sua madre: «Hai già trent’anni, se aspetti ancora resterai una zitella a vita». Due anni dopo il fidanzato se lo è trovato, con un profilo perfetto: è un giovane imprenditore con una ditta edile specializzata nel ristrutturare e arredare negozi… e saloni estetici. Lui le ha prestato un capitale iniziale, lei si è messa in proprio affittando un locale al pianterreno di un grattacielo, in un condominio residenziale di lusso in pieno centro. Lui le ha fatto tutti i lavori per l’inaugurazione del salone estetico. Da quando è la padrona lei si ammazza di lavoro fino a tarda sera, col fidanzato ormai si vedono poco. Di recente hanno litigato, per una questione di soldi. Come accade abbastanza spesso quando osservo delle coppie a Pechino, mi sembra di vedere delle joint venture, delle società per azioni. Fisso la parrucchiera nello specchio mentre mi asciuga e mi pettina, rimane imperscrutabile. Mi ha ripetuto quella frase del filosofo cinese sulla «strada che porta al cuore di una donna» come un pezzo di saggezza ereditata, un dogma antico che non si discute, una convenzione che va rispettata per non turbare l’ordine delle cose: e dietro quella verità che viene dall’alto, il mistero dei suoi pensieri è impenetrabile. Il suo massaggio finale è più freddo e meccanico del solito.

La supercasta delle nuove donne indiane

Nella nazione che ancora non è riuscita a liberarsi dal sistema delle caste, una nuova barriera di classe sta nascendo tra le donne: il peso. Lo psicanalista Sudhir Kakar, acuto osservatore dell’evoluzione dei costumi in India, è convinto che nel suo Paese la moda della magrezza tra le donne abbia un significato più profondo che altrove. Diete dimagranti e palestre di fitness si concentrano in modo esclusivo in una élite di donne ricche e colte: «È il loro modo di distinguersi dalla massa delle altre donne indiane» sostiene Kakar. «Stiamo assistendo quasi alla nascita di una nuova casta.» Una casta basata non più sulle antiche distinzioni di mestiere sancite dai testi sacri dell’induismo, ma dalla silhouette. Anju Jospeh, che a Bangalore dirige una società specializzata in ricerche di marketing, la Quantum Market Research, è dello stesso parere: «Di colpo c’è una élite femminile che ha deciso di distinguersi dalle altre adottando un aspetto globale, e globale qui è sinonimo di magro». È una rottura radicale rispetto ai tradizionali canoni estetici che definivano la bellezza e l’erotismo nella donna indiana. I poeti classici della letteratura sanscrita hanno cantato le lodi di donne dai fianchi generosi, hanno definito voluttuose quelle figure femminili che sfoggiavano (o lasciavano intuire sotto i veli) tanta abbondanza. E questi ideali di bellezza non sono rimasti validi solo nell’antichità, quando la loro spiegazione socio-economica era fin troppo evidente: la donna florida era quella a cui non mancava il cibo, le belle curve evocavano ricchezza, aristocrazia, potere. Ma anche in tempi molto più recenti l’erotismo indiano ha mantenuto una sua orgogliosa differenza. Mentre gli occidentali già da diverse generazioni hanno adorato dee sottili come Audrey Hepburn e Jacqueline Kennedy, per arrivare fino a Julia Roberts e Kate Moss, fino a poco tempo fa le star femminili di Bollywood esibivano inconfondibili rotondità. Questo del resto è stato uno dei segreti della irresistibile penetrazione commerciale dei film di Bollywood in tutto il mondo arabo, in America Latina, in Africa e nel Sudest asiatico, cioè in altre civiltà dove ancora la Venere callipigia è uno dei miti ricorrenti nelle fantasie erotiche maschili. Di colpo Bollywood ha voltato pagina. Basta guardare i film di alcuni anni fa che passano alla TV indiana, e confrontarli con gli ultimi successi proiettati in prima visione nelle sale multiplex a Mumbai e Kolkata (Calcutta) in questi giorni. C’è un «prima» e un «dopo», in termini di chili e di fianchi delle star. Perfino Aishwarya Rai, la diva più universale e più esportabile del cinema indiano, pur non essendo mai stata sovrappeso ha subito un’ulteriore evoluzione verso la sottigliezza: se si confrontano le sue immagini di oggi con quelle del concorso di Miss Universo e dei primissimi film che la lanciarono, si scopre che perfino lei si è alleggerita.
Margot Cohen, che lavora per il «Wall Street Journal» in India, ha seguito a New Delhi la crescita del colosso VLCC Health Care: in pochi anni questo gruppo ha inaugurato 110 cliniche-spa di lusso specializzate in terapie dimagranti, e ne ha aperte altre 200 in tutte le maggiori città indiane. Le sole palestre di fitness sono un business da 750 milioni di euro all’anno. Anche il revival potente dello yoga fra le teenager ha questa motivazione: l’antica disciplina induista viene riscoperta dalle adolescenti come un efficace metodo per raggiungere la forma ottimale. Una parte di questo cambiamento repentino è legata all’evoluzione del mercato del lavoro. Almeno un terzo dei dipendenti delle multinazionali informatiche indiane sono donne. Anche se molte brillanti specialiste di software vanno in ufficio in sari, la concorrenza di Armani e Chanel si fa sentire. E se il tradizionale salwar kamiz avvolgeva e nascondeva tutti i chili di troppo, il lusso occidentale è meno indulgente. Un altro fattore che conta è la nuova consapevolezza salutista che fa breccia tra le donne più istruite. L’alimentazione indiana è meno sana di quel che si credeva. O meglio: questa cucina era sana quando la povertà costringeva a razionare gli ingredienti. Ora che il tenore di vita è migliorato, l’uso smodato di olio, burro e zucchero sta provocando un’emergenza sanitaria. Secondo le indagini dell’Organizzazione mondiale della sanità, oltre il 50 per cento delle donne indiane tra i 35 e i 65 anni è seriamente sovrappeso. Quaranta milioni di indiani (di ambo i sessi) sono affetti da diabete legato all’obesità. La nuova «casta superiore» delle indiane magre non è motivata solo dalla vanità.

La donna indiana a scuola di matrimonio

«Il maschio indiano non nasce volgare» scrive Mukul Kesavan, che appartiene alla categoria. «Conquista la sua volgarità grazie a un preciso allenamento. Bisogna acquistare certe abitudini, trasformarle in routine: la mancanza d’igiene, la capigliatura orrenda e altri tic disgustosi (lo sputo, le dita nel naso e molto peggio). Essere volgari è un diritto sacrosanto che il piccolo maschio si vede riconosciuto fin dall’infanzia. E naturalmente lo esercitiamo perché sappiamo che non ci impedirà di sposare una bella donna.»
L’ironia pervade tutto il libro di Kesavan, The Ugliness of the Indian Male and Other Propositions (2007). È una divertente satira sociale e di costume. In realtà, parlando del maschio rivela soprattutto la condizione della donna indiana. Per quanto moderna, colta, emancipata, a differenza dell’uomo deve sopportare un carico di aspettative esorbitanti sul suo ruolo nella sfera privata. La sua famiglia, e poi quella del marito, s’incaricano di ricordarle attraverso una formidabile pressione sociale tutto ciò che dev’essere: brava in cucina e a letto, servizievole con i suoceri e ospitale con gli amici del marito, madre amorevole che conduce i figli verso brillanti risultati scolastici, buona amministratrice del patrimonio familiare e capa autorevole del personale di servizio. Tutto questo vale anche se, nella sua vita professionale, è una donna di successo al punto da poter guadagnare più del marito. Può avere studiato a Harvard o fare la pilota d’aereo, ma la giovane indiana non sarà considerata «realizzata» finché non si è adattata anche al ruolo di moglie e nuora esemplare.
L’importanza del matrimonio «giusto» per la donna spiega il fiorire di un nuovo business molto indiano: le scuole di addestramento per future spose. Come la celebre Lifelong Learning Academy, o la Finishing School di New Delhi. Ci sono istituti di lusso dove un corso di poche settimane costa più di mille euro, una fortuna per la famiglia media indiana. Le ragazze imparano molto più delle buone maniere. Per impressionare i futuri suoceri e conquistare un marito dallo status sociale interessante, si richiede un savoir-faire di alto livello. In queste scuole si aggirano ex reginette di bellezza che insegnano a ballare il rock in discoteca ma anche a selezionare un vino francese o un piatto italiano dal menu di un ristorante di lusso. S’impara anche l’abbiccì della finanza, perché la moglie sappia dare consigli oculati su come investire i risparmi. La candidata sposa deve sfoggiare il giusto grado di cosmopolitismo ed eleganza per non fare sfigurare il futuro coniuge. Al tempo stesso, guai se dimentica i suoi doveri ancestrali nei confronti della famiglia del marito. In una cena, per esempio, la giovane donna dovrà essere sempre l’ultima a servirsi e l’ultima a mangiare, sorvegliando attentamente che la suocera abbia la precedenza su di lei. Cucina, cucito e preghiera sono tre ingredienti indispensabili nel curriculum delle scuole per ragazze da maritare. Se poi la giovane coppia dovrà coabitare con i genitori di lui – come accade – la moglie deve essere preparata a dominare i propri desideri sessuali per non infastidire i suoceri nei momenti inopportuni. Quando nasce un figlio, i nonni avranno spesso l’ultima parola sulla sua educazione.
La direttrice di uno di questi istituti, Anjali Bhalla, riconosce che il ruolo della donna è sottoposto a pressioni notevoli: «La vita è più complicata di prima. Le donne devono lavorare ma al tempo stesso l’amministrazione della casa resta tutta sulle loro spalle. Guai se non sono buone mogli e buone madri. Noi cerchiamo di aiutarle con un’iniezione di fiducia in se stesse». Altri istruttori esprimono in modo più esplicito il tradizionalismo che li ispira. Aildas Hemnani, fondatore della scuola Manju Sanskar Kendra, osserva che «in India cresce a vista d’occhio il numero dei divorzi, la colpa è delle ragazze moderne, oggi hanno un ego smisurato, pensano di dover dire la loro opinione su tutto». Per una giovane imprenditrice come Balwinder Hothi, 38 anni, il peso di queste consuetudini è semplicemente insopportabile: «Chiamiamolo come vogliamo, la verità è che ancora si cerca di soggiogare la donna. Questi riti di preparazione al matrimonio sono fatti per addestrarci a essere dei tappetini».

I detective nuziali in India

La passione degli indiani per l’oro non è più quella di una volta. La crisi economica costringe a qualche sacrificio: nel Paese che da anni è il primo importatore mondiale di oreficeria, soprattutto per le doti matrimoniali, le importazioni di metallo giallo sono lievemente calate negli ultimi mesi. Qualche risparmio viene fatto anche sui costi dei sontuosi banchetti di nozz...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Slow economy
  4. Introduzione
  5. Il consumo frugale
  6. Il prossimo shock energetico
  7. Orizzonte perduto
  8. «Il nostro ottimismo vi contagerà»
  9. Copyright