Solo per giustizia
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Solo per giustizia

Vita di un magistrato contro la camorra

  1. 364 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Solo per giustizia

Vita di un magistrato contro la camorra

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Informazioni sul libro

Raffaele Cantone, magistrato napoletano dell'antimafia, ripercorre in queste pagine la propria esperienza e ci mostra come un bravo studente di Giurisprudenza che voleva fare l'avvocato sia finito per diventare il nemico numero uno dei boss di Mondragone e Casal di Principe. Non per una sorta di vocazione missionaria, ma tramite un percorso graduale e, talvolta, persino casuale, dove però rimane sempre salda un'originaria passione per il diritto.
Come vive una normale famiglia da anni sotto scorta in un territorio ad alta densità camorristica? Come è fatto il lavoro quotidiano di un pubblico ministero? Tutto questo Cantone ce lo racconta con l'autorevolezza del magistrato, ma con totale assenza di retorica e limpida sincerità.
Libro profondamente personale e proprio per questo di altissimo valore civile, Solo per giustizia è una lettura obbligatoria per chiunque voglia capire lo sconcertante potere delle mafie, ma anche apprezzare meglio l'impegno dei molti uomini che per senso di dovere e con grandi sacrifici continuano a far funzionare nel nostro difficile Paese lo stato di diritto.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852012532
RAFFAELE CANTONE

SOLO PER GIUSTIZIA

Vita di un magistrato contro la camorra
Mondadori

Solo per giustizia

A Rosanna, Claudia ed Enrico.
A mia madre, e a mio padre
che certamente mi guarda da lassù

1

Sulla mia scrivania c’è uno scatolone. Devo riempirlo di tutte le mie cose che ancora si trovano in quest’ufficio. Al momento ci sto riponendo i calendari e i crest, gli scudetti decorativi che i vari comandi di carabinieri, polizia e finanza mi hanno donato nel corso degli anni. Sono come trofei, che servono a mostrare a chiunque capiti nell’ufficio di un Pm come la collaborazione con le forze dell’ordine crei quei rapporti di stima e spesso anche di amicizia indispensabili per questo lavoro e capaci di renderlo meno disumano. Sono molto affezionato ad alcuni di questi crest, e a uno in particolare, che raffigura quasi sovrapposti i volti sorridenti di Falcone e Borsellino, regalo dei carabinieri di Mondragone. Troverò un bel posto dove appenderlo nel mio nuovo ufficio a Roma, anche se lì non ci saranno persone da ricevere e lo vedrò soltanto io e qualche collega di passaggio.
«Dottore» sento una voce dalla porta, «se vuole posso restare ancora un po’ per aiutarla.»
«La ringrazio, maresciallo Iacono; non c’è bisogno.»
Mentre pronuncio quella frase mi fermo un attimo. Per cinque anni questo carabiniere siciliano, originario di Vittoria, ha lavorato letteralmente al mio fianco e io mi accorgo solo ora che continuo a chiamarlo col suo grado militare e non col suo nome, ossia Giancarlo.
Era arrivato in sostituzione di un altro sottufficiale con il quale non c’era stata grande sintonia, per completare la squadra di polizia giudiziaria. Ne faceva già parte anche Luigi Ventriglia, un appuntato della Guardia di finanza che ha collaborato con me per quasi dieci anni ed è diventato molto bravo nell’analisi dei dati informatici.
Iacono lo conoscevo già di vista, prima che mi fosse assegnato. Lo avevo incontrato spesso nell’anticamera di un procuratore aggiunto, ma l’avevo preso per un dipendente amministrativo, non pensavo che fosse un uomo dell’Arma.
Lavorandoci, si è dimostrato non solo un investigatore molto capace, ma una di quelle presenze a cui ti abitui tanto da non poterne più fare a meno. Era disponibile senza alcun limite di orario, lo trovavo in ufficio anche la domenica quando per turno dovevo andarci io.
Sono uomini come Iacono – ne ho conosciuti tanti altri nel corso della mia esperienza di magistrato – che rappresentano la spina dorsale invisibile ma tenace su cui si regge questo paese.
«Torni a casa presto, almeno oggi, maresciallo. Fra un po’ me ne andrò via anch’io.»
Iacono mi si avvicina e mi abbraccia per salutarmi. Entrambi tratteniamo l’emozione, ma ci conosciamo da troppo tempo per non coglierla ugualmente nelle parole e nei gesti un po’ formali che ci scambiamo. Ieri abbiamo festeggiato il mio commiato dalla Dda con il procuratore, gli aggiunti, gran parte dei sostituti, il personale amministrativo e quello di polizia. Era venuto persino il procuratore generale. Mi hanno regalato un bellissimo quadro del golfo di Napoli. Eppure in quel momento l’emozione si è fatta sentire solo in parte, forse per una sorta di pudore suscitato dalla presenza di persone con cui non avevo troppa confidenza.
Un vero groppo in gola mi è invece salito quando ho salutato le mie collaboratrici amministrative che, per un caso buffo, si chiamano entrambe Rosaria. Impossibile immaginarmi questi anni di lavoro senza il loro contributo quotidiano.
Da domani tutto lo staff sarà assegnato a un altro magistrato e io non avrò più il mio ufficio all’undicesimo piano nel palazzo della procura al Centro direzionale. Un ufficio molto confortevole, ben al di sopra della media di quelli messi normalmente a disposizione dei pubblici ministeri.
Questa stanza insolitamente ampia mi resta dunque solo per alcune ore ancora. C’è una lunga scrivania di legno classica, un divanetto e due poltrone, purtroppo quasi sempre ingombri di carte e fascicoli. Dalle due grandi finestre, apribili soltanto per uno spicchio inferiore, si vedono il Vesuvio in lontananza e, più vicino, alcuni depositi di materiali ferrosi tenuti in gran disordine, le case popolari di Poggioreale e una costruzione di cemento mai finita che forse doveva diventare una palestra o un centro polivalente e ora invece è un rifugio per tossici ed extracomunitari.
Tutte le mattine, prima di mettermi sulle carte, mi soffermavo qualche minuto a guardare fuori per scoprire nuovi piccoli particolari. E ho spesso avuto l’impressione che il paesaggio che mi si presentava fosse un po’ specchio di questa città strana, insieme immagine da cartolina con il celebre vulcano sullo sfondo, e del degrado, qua sotto, in primo piano.
Iacono se n’è andato ripetendo frasi come “sarà difficile che ci troveremo come con lei, dottore”, e so che non le ha pronunciate per cortesia. Ma non era vero che pensavo di andarmene anch’io di lì a poco. Ora che sono solo, interrompo il lavoro di sistemazione che si annuncia ancora lungo. Dovrò ancora riempirne molti, di scatoloni, con le cose che voglio portarmi a casa.
Ho chiamato mia moglie, che da giorni mi vede in uno stato d’animo di grande subbuglio, e le ho detto che mi sarei trattenuto in ufficio a lungo, forse tutta la notte.
Rosanna lì per lì è rimasta un po’ sconcertata. Poi, come sempre, ha capito. Ha capito che avevo bisogno di restare da solo a riflettere e fare i conti con questo momento di passaggio. Il treno della mia vita ha corso tantissimo nell’ultimo periodo e non c’è stato tempo per fermarsi e capire dove stava andando.
«Resto a dormire in ufficio» le ho detto in tono scherzoso, in risposta alle tante volte in cui, esasperata o ironica, mi aveva invitato lei a farlo, quando ero tornato a casa troppo tardi e soprattutto quando appariva chiaro che ci fossi rientrato con tutto salvo che con la testa.
Ho aggiunto che più tardi avrei chiamato anche i bambini per la buonanotte.
A Claudia ed Enrico avrei giustificato la mia assenza con impegni di lavoro. Si sarebbero dispiaciuti ma non stupiti più di tanto. Era già capitato, seppure non troppo di frequente, che dovessi trattenermi la notte fuori casa.
Sono loro – Claudia, Enrico e Rosanna – una delle ragioni che mi hanno spinto a lasciare il mio incarico con un leggero anticipo sugli otto anni di presenza in antimafia che sono il massimo consentito a un magistrato. Li vedevo troppo poco, e soprattutto troppo spesso li vedevo male: col telefono che minacciava sempre di squillare e con la mente ingombra delle mie inchieste. A questo poi si deve aggiungere la condizione particolare che ormai da tempo pesava sulla mia famiglia. Quella di una vita sotto scorta.
Sono così tanti gli anni che ci convivo che non ricordo più immediatamente quando tutto questo è cominciato. Per di più non si è trattato di un cambiamento radicale perché già prima di entrare in antimafia mi furono accordate delle misure di protezione, seppur molto più blande. L’inizio della mia vita sotto tutela risale al 1999 e ora che mi rendo conto di dover fare uno sforzo per fissare quel momento, capisco fino a che punto con l’abitudine tutto possa trasformarsi in normalità. Quasi dieci anni. Sei anni con la scorta vera e propria. Dal 2003, da quando cominciai a prendere in mano le indagini sui clan del litorale domizio e a gestire alcuni importanti “pentimenti” come quello di Augusto La Torre, il boss di Mondragone. Prima i Mondragonesi e poi i Casalesi, il cartello più potente della zona che mi era stata assegnata. Li chiamano “mafia casertana” per sottolineare il surplus di gerarchia rigidissima e di dominio su un territorio molto esteso che li distingue soprattutto dalla camorra storica napoletana. E i livelli di protezione per me e per la mia famiglia continuavano ad aumentare, fino a quando divenni il magistrato più sorvegliato della provincia di Napoli. Dal 2006, dopo che venni a conoscenza dell’ipotesi di un attentato contro di me per cui si ventilava persino l’uso di tritolo, viaggiavo con due auto blindate e cinque uomini armati. Era una conseguenza del mio lavoro e il peso psicologico ero sempre riuscito a sostenerlo senza troppe difficoltà. Ma c’erano ormai da tempo anche la vigilanza sotto casa ventiquattr’ore su ventiquattro e gli agenti in borghese davanti all’ingresso delle scuole di Claudia ed Enrico. E allora sempre più spesso mi chiedevo: un bambino di nove anni e una ragazza che dovrà presto frequentare una scuola superiore come fanno a crescere come si deve senza la prospettiva di potersi muovere liberamente, incontrare amici per giocare o per studiare, vivere un quotidiano che sia il più possibile simile a quello degli altri ragazzini della loro età? Per quanto tempo ancora mia moglie, che mi era stata sempre vicina, poteva sopportare quell’esistenza fatta di un crescendo d’ansie e limitazioni? E io, pur con tutto il senso del dovere e la passione per il mio lavoro, che diritto avevo di far pesare le mie scelte su di loro? Proprio loro che in tutti questi anni mi hanno dato il calore di una famiglia con quella dimensione di affetti, gioie e preoccupazioni senza le quali non avrei più avuto una vita mia?
Poi ho avvertito anche la scorta che sarei rimasto in ufficio. Il capo scorta, un maresciallo della Finanza di origine sarda, Franco, mi è sembrato un po’ perplesso, ma gli ho spiegato che volevo definire e mettere a posto alcuni fascicoli prima di consegnarli al mio successore. Sarei rientrato a casa col turno del giorno dopo, e quindi lui e gli altri tre finanzieri erano liberi di andar via. Però prima gli ho chiesto quel favore che spesso mi avevano fatto quando dovevo trattenermi in ufficio: comprarmi al bar un panino con mozzarella e prosciutto e una bottiglia di acqua minerale.
Dopo aver sistemato ancora un po’ di cose, decido di prendermi un caffè alla macchinetta che sta sullo stesso piano del mio ufficio. Non è un granché, specie per Napoli, ma a quest’ora del pomeriggio non c’è alternativa e mi accontento.
Come al solito, ci trovo un po’ di agenti della polizia giudiziaria che lavorano nell’ufficio intercettazioni e che stanno facendo una breve pausa. Ne conosco solo alcuni e intervengo nella loro chiacchierata mentre aspettiamo il caffè. Uno di loro, un ispettore di polizia, sa che sto per lasciare l’ufficio e si ricorda di aver avuto a che fare con me per un’indagine su una ricettazione di ciclomotori quando ero alla procurina, quasi quindici anni fa. Mi fa gli auguri per il nuovo incarico e commenta che nella vita è bene ogni tanto cambiar lavoro, e poi che i ritmi della procura non sono sostenibili per sempre.
Allora anche gli altri che non conosco mi fanno gli auguri, li ringrazio, finisco di bere e rientro nella mia stanza, mentre le parole dell’ispettore mi accompagnano.
E penso che quelle frasi, che equiparano l’impegno nella Dda a un qualsiasi altro lavoro molto stressante, possono suonare strane a chi non ha mai conosciuto questo mondo. Ho spesso constatato che chi ne è fuori tende a immaginare colui che intraprende una carriera tipo la mia come sospinto da una sorta di fuoco sacro o perlomeno da una forte vocazione covata sin da tempi lontani, magari ancora prima di iscriversi all’università. Eppure la realtà è assai più complessa e variegata e l’antimafia talvolta può essere anche una scelta di carriera: poi dipende dalla capacità e dal rigore del singolo magistrato il modo in cui saprà interpretarla. E devo ammettere che nel mio caso, per quanto in questo momento mi sia difficile il distacco da questo ufficio e da tutto quello che vi ho passato, non si è trattato di una vocazione originaria. Io sono arrivato qui per una serie di scelte compiute di volta in volta, e, perché no, anche un po’ per casualità. Quindi se ora cerco di tornare all’inizio per raccontare come ci si ritrova, passo dopo passo, a svolgere un lavoro come il mio, lo faccio sia per rendere a me stesso più facile questo congedo, sia per mostrare come certi compiti non siano affatto svolti da paladini della giustizia che si vedono impegnati in una lotta manichea contro il male. Ma sono affidati alla perizia, alla responsabilità e alla capacità di collaborare di persone che per la maggior parte non hanno nulla di fuori dal normale e non aspirano a essere eroi: persone come Iacono, Ventriglia, i ragazzi della scorta e tanti giudici, magistrati, finanzieri, poliziotti e carabinieri che compongono l’antimafia italiana. Persone oneste ma comuni come credo di essere anch’io.

2

Negli ultimi tempi ho lavorato tantissimo per cercare di chiudere i procedimenti a me assegnati o di portarli almeno a una fase il più possibile avanzata, di modo che chiunque riceva in eredità i miei fascicoli non incontri troppe difficoltà nel gestirli. Questo perché è sempre bene limitare i tempi morti della giustizia che sono un danno in sé, ma anche per un desiderio di lasciarmi dietro il minimo possibile di inconcluso, desiderio, mi rendo conto, in parte irrealizzabile. In ogni caso, tuffarmi nel lavoro è stato come al solito un buon antidoto per non avvertire troppo il peso del cambiamento cui stavo andando incontro.
Proprio oggi pomeriggio, poco prima di andare a casa, la signora Rosaria, che soprattutto in quest’ultimo periodo è stata più di una segretaria, una vera amica e un aiuto indispensabile, ha fatto un’ultima corsa per depositare una richiesta di custodia cautelare che era una sorta di appendice a un processo il cui troncone principale si è concluso da pochi mesi.
Il triplice omicidio da cui aveva avuto origine risaliva a un anno prima che entrassi in magistratura. Era avvenuto a Villaricca, comune che confina con quello di Giugliano dove sono cresciuto e dove all’epoca vivevo ancora.
Villaricca, a dire il vero, della sua autonomia di paese conservava soprattutto un curioso soprannome – Panecuocolo – dovuto forse a una sua antica tradizione legata al pane. Nel corso della selvaggia espansione edilizia di Giugliano era divenuta una sorta di enclave dai contorni incerti. Talvolta, lungo una stessa strada, un marciapiede rientrava nel comune di Giugliano e l’altro nel comune di Villaricca, cosa che autorizzava noi giuglianesi a considerare ques’ultima tutt’uno col nostro paese. Molti dei miei compagni e amici abitavano in zone che facevano parte del territorio di Villaricca, ma davano per scontato di essere di Giugliano.
Probabilmente non ne sarebbe rimasta traccia nella mia memoria, se il delitto non fosse avvenuto praticamente al mio paese e se non fosse stato più feroce e clamoroso dei moltissimi omicidi di camorra che ieri come oggi insanguinano la provincia di Napoli. Delle tre vittime, quella più in vista era tal Domenico Tambaro detto “Mimmuccio”. Alcuni degli amici con cui mi trovavo abitualmente in piazza mi dissero che era un personaggio importante, da poco tornato a Villaricca dalla Toscana. Aveva cercato di assumere un ruolo da leader per partecipare soprattutto allo sconcertante sviluppo edilizio, cosa che i suoi rivali non dovevano aver affatto gradito. Si era continuato a parlare per alcuni giorni dell’eccidio, ma poi tutti, me compreso, l’avevano rubricato mentalmente tra gli episodi di quelle guerre per il controllo del territorio alle quali eravamo tristemente abituati.
Eppure quella vicenda, a ben guardare, era diversa dagli altri agguati. Era avvenuta un giorno di novembre del 1990 verso l’ora di pranzo e in pieno centro. Qualche giornale aveva definito il volume di fuoco “devastante” e aveva scritto che chi aveva scaricato quella pioggia letale doveva essere stato un vero e proprio commando di almeno cinque o sei killer.
Mi imbattei per la seconda volta nel triplice omicidio di Villaricca a distanza di molti anni, quando ero già da tempo entrato in Dda col compito di occuparmi della criminalità nel casertano. Un giorno mi capitò per caso di parlarne con Luigi Gay, un veterano dell’antimafia napoletana che si era occupato dei più importanti processi di camorra scaturiti dalle dichiarazioni dei boss pentiti Carmine Alfieri e Pasquale Galasso. All’interno della Direzione distrettuale antimafia, Luigi era assegnato alla sezione che si occupava della criminalità organizzata a Napoli e provincia, l’ambiente nel quale in un primo momento si pensava fosse maturato anche quel delitto, di cui aveva seguito le indagini sin dall’inizio.
Quel giorno Luigi mi chiese alcune informazioni su uno dei collaboratori che gli stavano consentendo di aprire un nuovo procedimento, visto che, come mi spiegò con amarezza, due precedenti processi fondati soprattutto sull’apporto di un pentito napoletano che poi aveva ritrattato si erano conclusi con varie assoluzioni.
Quel pentito – Raffaele Ferrara – in effetti lo conoscevo benissimo: proveniva da un clan che operava sotto l’egida dei Casalesi. Era stato il capo zona di Parete, comune vicino a Giugliano e Villaricca, ma già in provincia di Caserta, e aveva dichiarato di essere stato uno dei membri del commando. Dario de Simone, l’altro collaboratore sulle cui dichiarazioni Luigi stava basando la sua azione giudiziaria, ma che non aveva partecipato all’omicidio, era stato addirittura uno dei fedelissimi dei boss di Casal di Principe. Devo dire che lì per lì scoprire che l’eccidio portasse il marchio dei Casalesi mi aveva un po’ stupito, non tanto perché sulla base dell’esperienza accumulata questo non mi sembrasse plausibile, ma perché mi riportava al passato, quando ne avevamo parlato con gli amici di Giugliano e tutti, magistrati inclusi, l’avevamo sottovalutato e mal interpretato, ignari di quanto fossero progredite le mire espansionistiche dei Casalesi. Perso...

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