Centro di igiene mentale
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Centro di igiene mentale

Un cantastorie tra i matti

  1. 252 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Centro di igiene mentale

Un cantastorie tra i matti

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Il Centro di Igiene Mentale di Roma è il luogo in cui Cristicchi ha trascorso alcuni mesi come volontario; ma è anche un luogo immaginario che gli permette di esprimere al meglio il proprio talento di cantastorie contemporaneo. Mariella a metà, Angelo il custode, la Morlacca, Pendolino, Suor Cecilia sono alcuni dei tanti personaggi che abitano la "nave dei folli". Che siano invenzioni o persone in carne e ossa poco importa. In questo libro ci sono le loro storie che tratteggiano un mondo pieno di tenerezza, colpi di genio, sofferenze, ma anche di inaspettata allegria. Un mondo oscurato alla vista dei "normali", ma pieno di piccole luci. Un mondo sedato ma pulsante, un mondo immobile eppure in continua altalena fra follia e normalità. Insinuando il dubbio sulla nettezza del confine fra chi è sano di mente e chi no, Cristicchi ci fa conoscere la misteriosa bellezza di coloro che chiama i "Santi silenziosi".

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852011931
Parte seconda
VIAGGIO NEI MANICOMI

Il laboratorio artistico “Il Mattone”

Paolo e il Laboratorio
A Genzano di Roma, nell’Ospedale San Giovanni di Dio incontro Paolo Iavarone, che lavora da dieci anni all’interno del laboratorio artistico “Il Mattone”, dove ci si sente avvolti in un’atmosfera di amicizia e serenità.
Le pareti delle stanze sono coperte di dipinti di ogni genere: sono le opere degli “ospiti” dell’ex Manicomio. I colori accesi che vedono i miei occhi, cancellano la sensazione di malinconia che ho provato entrando.
La passione di Paolo per ciò che fa e la risposta positiva degli “ospiti” che realizzano le loro opere hanno permesso di allestire numerosi spettacoli teatrali, mostre di pittura in Germania, in Francia, e in molte città d’Italia.
Paolo racconta:
«Il mio lavoro mi ha dato grandi soddisfazioni, perché penso che i Matti siano i soli portatori della “vera” arte. Lo scopo del mio lavoro, per anni, è stato quello di trovare delle tecniche artistiche che permettessero agli ospiti di manifestare un’espressività autentica, valorizzando ciò che percepiscono del mondo.
Ognuno ha trovato un proprio stile. E già questo sembra un grandissimo passo.
Qui non ci interessa fare psicanalisi, ma dare spazio al simbolo, all’ambiguità e alla polivalenza dei significati che ognuno di noi può cogliere in queste opere.
Quando siamo di fronte a produzioni autentiche, veniamo a scoprire un mondo in cui la soggettività diventa un canale, attraverso il quale si manifesta l’indicibile, il mistero.
L’artista ha il compito di dare spazio e vita all’“oltre”. Diventa un tramite.
Franco, per esempio, aveva delle crisi di autolesionismo ed era solito graffiare il proprio corpo.
Nel laboratorio non ha fatto altro che riversare sulla tela i suoi graffi, che forse sono l’espressione della sua profonda rabbia.
Quando arrivai al San Giovanni di Dio mi spaventai: le persone sembravano zombie, vagavano nei giardini, senza una meta.
La maggior parte degli “ospiti”, superati i cinquant’anni, ha il problema della solitudine: i genitori non ci sono più, i fratelli o le sorelle prendono le distanze perché ognuno è immerso nella propria vita, i propri problemi, il lavoro...
Altri sono “Figli di Nessuno”, come Franco.
Anche io mi sento un disadattato.
Ci sono cose considerate “normali” dalla maggioranza, ma che per me non sono interessanti. Posso dire che la vicinanza con queste persone, considerate “diverse”, mi riporta a una vita più semplice, una vita fatta di piccole cose, basata più su un rapporto umano che su nevrosi mascherate e invidie. Infatti, per me, molti di loro sono “amici”, persone con cui scelgo di condividere le mie giornate.»
Mentre parlo con Paolo, all’improvviso sento una mano appoggiarsi alla mia spalla con delicatezza. È Sergio, un “ospite” dell’Istituto, che non parla mai.
Le cose che pensa, le scrive sul quaderno che ora mi sta porgendo con gentilezza, con un tenero sorriso di bambino. Sergio avrà cinquant’anni, e fin da giovanissimo ha avuto problemi mentali. È molto geloso del suo quaderno e, mi dicono, lo ha fatto leggere a pochissime persone, quelle a cui è affezionato da molto tempo.
L’unica cosa che Sergio dice, quando gli si chiede il motivo per cui non proferisce una parola, è: “Sto zitto perché non riesco a dire quello che penso...”.
Sento la strana sensazione di aver ricevuto un regalo inaspettato, qualcosa di prezioso che non è dato a tutti ricevere. Vorrei aprirlo e leggere i suoi scritti tutto d’un fiato, ma trattengo l’entusiasmo per non metterlo in imbarazzo di fronte agli altri. Lo ringrazio sinceramente per il privilegio che mi concede, e infilo il quaderno nella mia borsa.
La sera me ne torno a casa, e lungo il tragitto comincio la lettura delle parole e dei pensieri di Sergio. Tutti i pensieri che non è capace di dire ad alta voce.
Diario di Sergio C.
“Quando guardo negli occhi degli altri mi sento subito un altro.
Non c’ho inizio e fine, direi.
Le cose che scrivo io, sembra che non ci do importanza.
È un discorso a sbalzi. Senza capo né coda. Non c’è ordine nel discorso...
Ho sospeso di chiudere queste tre parole.
Io vorrei dire una verità che invade me: sono un vagabondo!
Ringraziare la vita che ancora permane in me; da ora in poi sono in cerca di lavoro, per arrivare a fine vita. Quello che mi strapazza di più è imparare a lavorare da ora in poi ma anticipatamente, mi vedo una più che dura vita, soprattutto prima disperatamente di morire. La vita è un userpilo ed è anche un dovere per me duro.
Chi fa da sé fa per tre, chi troppo vuole nulla intrinseca.
La prima volta che ho voluto bene, è avvenuta in casa mia quando improvvisamente per sorpresa, bussando, è entrata mia cugina Antonella V.
Mi piace stare sotto il comando degli altri... potrei andare più su se mi metto a lavorare sodo. L’incontentabilità è caffè orzo e sigarette, a Genzano chiedo i soldi ai negozi.
Disse mio padre: ‘Ma quand’è che rompi il ghiaccio con noi che siamo di famiglia? E poi perché non vai giù a vedi le ragazze, è un diversivo’.
Un giorno me so’ sdraiato, geloso come so’ di me stesso... dobbiamo da obbedire per essere sani.
Mi sono sentito felice quando sono venuto in questo Istituto. La clinica.
Non sono stato mai contento perché mi tenevano in casa come servitore.
Vorrei dimenticare un terreno con una casa abbandonata dove mi hanno fatto un elettroshock, dove io ho provato paura. Mi hanno fatto uscire una goccia di sangue, nel mio braccio che mi ha colpito un giornalaio che aveva un problema che era muto.
Siamo al 19 settembre 2005. Stavo dentro al gabinetto, quando mi sono masturbato e sentito appossiscellato dal diavolo.
Ho fatto la quinta elementare. E la Cresima. L’ho fatta rubando un breviario.
Il mio paese.
Nel mio paese ci sono vari viali, nei quali ci sono i miei paesani che vanno a passeggio. Poi vi sono parecchie trattorie, e una di queste è di mio padre (e pregiato), poco più indietro, v’è una parrocchia, dove andavo a trascorrere le ore, tranne i pasti, una piccola fase della giornata a giocare a pallone.
La mia vita è un cammino di insoddisfazioni; fra le tante cose che ci sono, non vedo separazioni o disgiunzioni come tappe, o allontanazioni separazioni una dall’altra.
Tutto questo è il non essere socievoli con le persone.
Siamo giunti a Mercoledì, con la voglia che mi è passata da mezz’ora per poter andare al mare. La giornata l’ho iniziata dalla levata del sole, cioè mi sono alzato alle sei e un quarto, cioè oppure alle sei e quindici minuti.
Poi ho fatto due colazioni, e una terza con il caffè.
Tutto questo è a base di pulizie, di attività, e di due giorni a due giorni il lavaggio con acqua in viso, e ai capelli; a scanzo di altri lavori pesanti.
Il dolore membrana.
Questa mattina di buon’ora mi sono alzato e mi hanno fatto il prelievo, con un po’ di dolore lieve e leggero. L’infermiera mi ha aiutato, mi è simpatica; io penso di voler morire con il ricordo di lei, cioè questa infermiera che si chiama Giulia.
La vita è sofferenza perché comporta diritti e doveri, lavoro materiale e intellettuale.
Io odio la vita difficile allacciata alla maniera anche psichiatrica.
Io amo le educatrici, però mi distraggo e non ascolto semplicemente, e quindi con tutta attenzione i discorsi, anche reciproci anche dei miei compagni.
La smania sarebbe di sapere troppe cose tutte in una volta sola.
La fretta senza fare più di una sola cosa, cioè di rimanere.
Io mi sconvinco sempre.”
Angelo, il Custode
«Ti è mai capitato di visitare un museo, quando è chiuso per il pubblico?»
Angelo, un altro degli “ospiti”, ha i capelli bianchi ed è un tipo solitario.
Se ne sta sempre nella sala della televisione, in silenzio.
Forse è muto. O forse non parla perché non riesce a dire quello che pensa.
La sua è una storia assurda e me l’ha raccontata Flavio, uno degli infermieri.
«Fino a quarant’anni, Angelo stava bene. Non era sposato e non aveva figli, era solo.
Tutto quello che aveva, era il suo lavoro: faceva il custode in un museo di arte antica.
Al contrario di tanta gente che si lamenta per la propria occupazione, per lo stipendio basso e per le troppe ore, Angelo amava il suo lavoro: era la sua vita.
E il museo di Ostia, lui se lo puliva e se lo lucidava come uno specchio. Niente era fuori posto!
Angelo era appassionato a quello che faceva, e a volte accompagnava i ricercatori dell’Università, e faceva loro anche da guida. Illustrava agli studenti le opere d’arte del “suo” museo, dimostrando di avere anche una certa cultura.
Nessuno avrebbe detto che Angelo un giorno sarebbe impazzito.
Il pomeriggio chiudeva le porte, i cancelli e, prima di recarsi nella sua piccola abitazione all’interno del museo, si faceva un’ultima passeggiata solitaria in quei corridoi. Era affascinato dalla bellezza!
Dipinti, vasi etruschi, sarcofagi, gioielli, statue.
Angelo cominciava a fantasticare: faceva lunghe discussioni con il busto di Platone: “Allora, Maestro... ieri dove eravamo rimasti?”. Camminando, chiedeva a tutte le opere d’arte esposte il loro stato di salute: “Come si sente oggi, signor Augusto? E lei, Dottor Seneca?”.
E le opere d’arte prendevano vita, parlavano con lui.
O meglio, Angelo sentiva le loro voci.
Invece di leggere storie a fumetti, Angelo era solito rivolgere il suo sguardo al di là delle vetrine dove era custodita una grande collezione di vasi etruschi a figure nere e a figure rosse.
Avendo le chiavi, avrebbe potuto benissimo aprire le vetrine per vedere meglio.
Non lo faceva, perché era rispettoso, e amava il suo lavoro.
Se, per caso, uno di quei vasi si fosse rotto?
“No” pensava. “Meglio di no. Preferisco guardare da fuori. Come se fossi un visitatore!”
Ma Angelo non era un visitatore qualunque. Era il custode del museo.
E di quel museo conosceva tutto, anche gli angoli più nascosti, pure la polvere.
Il museo era il suo mondo.
Negli anni aveva maturato una specie di gelosia per gli “ospiti silenziosi” di quelle sale, lungo le quali amava passeggiare. “La bellezza risiede negli occhi di chi la sa riconoscere” diceva sempre ai giovani che incontrava per le sale. Non sopportava le scolaresche e il loro chiasso incessante, che andava a distruggere l’atmosfera di magia e di intimità. Angelo vigilava con occhi attenti su quelle scalmanate comitive con gli zainetti in spalla.
Era geloso soprattutto di una statua. La più bella di tutte: Venere.
Sempre nuda, lì, davanti agli occhi di tutti i visitatori.
Quando nelle sere d’inverno la andava a trovare, era solito coprirle le spalle con un panno rosso.
Era la “sua” signora, e non doveva prendere freddo!
Poi la stava a guardare per lunghi e silenziosi minuti, e i suoi occhi si illuminavano di un amore profondo, viscerale. Avrebbe dato qualsiasi cosa, perché quella Venere di marmo, in un momento, prendesse vita, gli rivolgesse una parola. Anche una sola volta. Gli sarebbe bastato.
Ma non accadde mai.
Accadde invece che alcuni ragazzi maleducati e insolenti, in uno dei pochi momenti in cui Angelo non era presente, presero dei pennarelli rossi e si divertirono a scrivere sul marmo bianco di quella statua tanto preziosa.
Angelo se ne accorse la sera stessa, durante la sua solita solitaria passeggiata.
Quando vide lo scempio che era stato fatto, non disse niente.
Ma guardando la Venere, sentì scendere una piccola lacrima di compassione e rabbia.
Forse fu solo una suggestione, ma quella sera Venere aveva uno sguardo più triste del solito. Sembrava offesa per la violenza subita. Le avevano messo le mani addosso e l’avevano coperta con scritte volgari. Erano persone che non meritavano neanche di ammirarla.
Fu in quel momento che Angelo impazzì.
La avvolse con il solito panno per coprirla, ma questa volta non diede a Venere il bacio della buona notte. È vero che la abbracciò stretta stretta per alcuni minuti.
Poi, con un improvviso colpo di reni, la sollevò dal piedistallo dove era stata immobile per lunghi anni. Venere pesava molto, e fu un lavoro faticosissimo riuscire a portarla in strada.
Angelo, sudando e sbuffando, fece le scale portando la Venere in braccio, come se fosse una sposa. Arrivò a stento nel cortile antistante l’ingresso del museo e poggiò a terra con estrema cautela e dolcezza la “sua” signora. Era notte fonda e intorno non c’era neanche un rumore.
Solo il mare che, a poche centinaia di metri, mandava l’eco di grandi onde.
In quel momento pensò: “Nessun altro potrà più vedere la tua bellezza!”.
Non immaginava che l’atto che stava per compiere avrebbe compromesso la sua stabilità per il resto della sua esistenza. Non poteva di certo immaginare la forza del suo amore.
Angelo riprese fiato e si sincerò che nessuno passasse per il lungomare.
I due si salutarono sul pontile con un bacio lunghissimo.
Dal mare si sentiva come un canto di sirene.
Era il loro Addio. Addio, per sempre.
Angelo poggiò le sue labbra sul freddo marmo bianco, che ormai sapeva di salsedine.
Poi sollevò ancora la sua Venere, che ora, con lo sguardo tenero dei suoi occhi bianchi, sembrava osservasse i cavalloni che ritmicamente andavano a infrangersi sugli scogli.
Angelo prese un grande respiro, fece l’ultimo sforzo.
Non era tanto la fatica, quanto un dolore forte in mezzo al petto che gli stava spezzando il cuore.
Aveva le lacrime agli occhi.
Da quell’istante in poi, non l’avrebbe più rivista.
Era l’amore della sua vita.
La g...

Indice dei contenuti

  1. Parte prima - CENTRO DI IGIENE MENTALE
  2. Parte seconda - VIAGGIO NEI MANICOMI
  3. APPENDICE
  4. Bibliografia
  5. Ringraziamenti
  6. CARA MARGHERITA
  7. VIETATO AI MAGGIORI
  8. INSERTO FOTOGRAFICO
  9. Indice