Fimmini
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Fimmini

  1. 160 pagine
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Informazioni sul libro

È vero che tutte le belle donne sono occupate e bisogna sempre sottrarle a qualcun altro? Qual è il segreto della virtuosa che a Catania ammicca per le strade in un gioco continuo di seduzione? Per sedurre una donna di sinistra bisogna davvero, come vuole una legge non scritta, liberarla dall'essere di sinistra? E lei, Carla Bruni, è la malafemmina che trasforma gli uomini in porci o è la conquistatrice di fascino che ha saputo stregare anche quella canaglia di Sarkò?
Pietrangelo Buttafuoco mette in scena un omaggio irriverente, impudico e appassionato alla donna, dando vita a un teatro dove si intersecano trame seducenti e dove le fimmine giocano il ruolo di protagoniste. Si parla di Brigitte Bardot, la bionda belva di Saint-Tropez, e Leni Riefenstahl, che trionfò sui palcoscenici con bellezza ambigua e maledetta, ma anche di Franca Florio, che della sua vita fece un mirabile romanzo di appendice, e di tutte le donne che con gli stratagemmi più antichi sanno rendere prigioniero il cuore di un maschio.
A fare da comprimari non mancano però i grandi seduttori dell'epoca, Porfirio Rubirosa, immortalato negli anni del suo trionfo di amateur, Walter Chiari con il suo turbinoso amore per Ava Gardner, Tomaso Staiti "il terrore dei mariti". E sullo sfondo del palcoscenico brillano le luci mondane e sensuali delle feste scatenate del secolo scorso, i flash postmoderni delle feste ai Parioli e il brio luccicante delle passerelle di Parigi, fino al chiarore meridiano dell'orizzonte in un caldo pomeriggio del Sud, in cui è facile smarrirsi negli equivoci dell'amore.
Con la grazia e l'ironia dello scrittore sagace, Pietrangelo Buttafuoco compone un vero e proprio prontuario che insegna come conquistare una fimmina con divertita leggerezza, savoir-faire e un briciolo di "galanteria talebana".
Tenendo a mente che la prima regola per sedurre una donna è quella di farsi sedurre.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852012471

Fimmini

Ad Agata, a Lucia
e a Rosalia
Alcune pagine di questo libro sono nate da idee e dal lavoro redazionale di “Panorama” con Pietro Calabrese, cui va un bacio.
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Il Sud inonda di colori il giorno,
per me, che amo quello che non è.
L’incantesimo di perdute esistenze
che non saranno mai.
Le speranze di presenze intorno a noi.
L’incantesimo che ama quello che non è.
FRANCO BATTIATO, L’incantesimo
Quando, Venexia mia,
sora i tetti de le tue case
una gloria de sol xe sparpagnada
lassime dir, se il paragon te piase,
che ti me par una bela tosa spenserada.
EUGENIO GENERO, in Hugo Pratt,
Corte Sconta detta Arcana
Fu con una certa severità che la natura stabilì la regola: un uomo maturo deve abitare presso il corpo di una femmina più giovane. E uomo maturo sta per maschio forte, predatore alfa. È la natura che insegna all’uomo come rastrellare un forziere di beni primari per sé, per lei e per la prole. Quella derivata dall’utero di lei, proprio il luogo in cui il signore s’è accasato. Quando un uomo penetra una donna, infatti, l’amante avverte il richiamo ancestrale della ciccia. Per dirla con un ammonimento rabbioso: mangiare carne, comandare carne, fottere carne.
Sotto la crosta soffusa di sentimento si nasconde la fisiologia. Tutti vogliono dimenticarlo in virtù della civiltà aggraziante dei diritti civili e dell’emancipazione dallo stato di natura, ma quando un uomo guarda una donna, questo stesso maschio è già stato scelto da questa stessa dama affinché lui, il signore maschio, cavaliere nella ventura dell’esistenza, costruisca il blasone della sopravvivenza per entrambi. E per la semina scaturita da ambedue.
La natura ha un suo misterioso calcolo. La bellezza, facciamo ad esempio, è solo uno stratagemma. I fianchi morbidi, e con questi i seni dell’orgoglio mammifero, sono esche esibite per la raccolta di sperma; e la tanto celebrata superiorità femminile si radica nel vantaggio biologico del mettere a frutto la generazione. Nel frattempo che la donna porta a compimento nove mesi di gestazione per un solo seme, il maschio può fecondare un indefinito numero di altre donne e la violenza che mette a segno è computo dovuto alla memoria della specie umana.
Neppure il più complesso degli elaboratori d’informatica saprà decifrarla, la natura, impresa improba perfino per Hegel, che ne ravvisò un fastidio da occultare nella sovrana indifferenza della Fenomenologia. E ancora peggio si rivelerà la fatica di spiegarla, la natura, con la premeditazione dell’amore. Di questo si tratta: di dolcezza chiamata a sottofondo dello svolgersi dei giorni, del rumore del mondo, della verità che, infine, stilla gioia nell’intimo dello Spirito. E l’immagine di una madre con un infante al seno è la definizione stessa di questa verità. Ed è per questo che terre remote, catalogate nell’esotico, oggi si preparano a scalzare i mondi carichi di storia e di sfinimenti: dall’Oriente arriva quella pienezza che colma il nostro vuoto.
Esiste il lampo detto dell’innamoramento, ossia il colpo di fulmine. Ma non ne indovina una la predilezione di bipede per la gentil bipede, specie se un’anima feroce e lupa fatta di sangue e carattere, ossia la femmina, per legge di natura impone con l’arbitrio la propria volontà. Ancora meglio: per istinto di sopravvivenza.
La donna con le gambe, lo stile, le belle braccia, gli occhi e il calcagno prepotente è la macchina più che compiuta dello Spirito e non vuole essere compresa, bensì presa. Proserpina vaga per sentieri di grano e di fiori nell’incendio della primavera, Plutone la ghermisce per condurla tra i fuochi eterni nel buio di Etna. Il suo pianto è una ferita aperta nella corazza del dio ma la potenza ctonia è lei. Lei, infatti, con la furia del terremoto, mastica il suolo nelle cui viscere è schiava. Rassettando faglia sopra faglia, lascia traboccare la lava dalla crosta dei campi. La bella dea, così ragazza, lesta e spietata come una lama, recide l’innocente grazia della vegetazione e così decreta la distruzione in luogo dell’equilibrio tra maschile e femminile. Tutto comincia e mai finisce, ogni cosa procede da gesto e da sguardo: le dita sempre più prossime alle dita, il passo tutto a rallentare, per guardare e guardare. E ancora guardare.
Tutto passa attraverso le braccia delle donne e solo nei territori scampati alle comodità dell’emancipazione, fra le tribù della natura selvaggia dove la vera regola che determina l’attrazione dell’amore è quella del sangue, i figli generati in letti di puro desiderio si guadagnano la garanzia di oltrepassare la linea di confine del secolo prossimo venturo. Solo le moltitudini miserabili sono prolifiche. Solo loro possono accudire l’istinto primario: l’uomo che si prende la donna e così mette in moto la fisiologia, quella che un eufemismo culturale definisce “volontà di potenza”. Solo loro si guadagnano l’immensità dei territori.
La femmina che fa sangue ad un maschio è quella che sa accendere in lui la provocazione, quella di farsi sfasciare nella pantomima dell’accoppiamento. Se solo gli uomini e le donne avessero contezza della ripetizione saprebbero – al pari dei popoli remoti, erroneamente definiti esotici – come riprodurre l’archetipo. Quando un uomo guarda una donna perché da questa stessa è stato scelto, divinità ferine si scagliano l’una verso l’altra per sbranarsi reciprocamente e così rigenerare la brace del desiderio. Ad osservare gli amanti nell’istante dell’amore appena appiccato, e perciò neppure svelato, nel muto cercarsi degli sguardi, un occhio allenato al mistero scorge giganteschi animali selvaggi zannuti e forti d’artigli che si fanno avanti dal cuore di lui come dal petto di lei per banchettare con il sangue in forma di baci e respiri. Ci si guarda negli occhi ed è un magnete messo apposta nel progetto dell’amore per far fronte al combattimento che sovrasta l’uomo e la donna, che altrimenti attirerebbe tutta la loro attenzione: una montagna di neve che galleggia sugli oceani azzurri del cielo – questa è la fissità di lui, reso ebete dal colpo di fulmine – rovina sulle punte incendiate delle frecce scoccate, le dita con cui lei si attraversa i capelli.
E sono il segnale del fuoco le mani che con noncuranza acconciano la chioma. Le femmine sono il motivo fondamentale della smania, sono il curioso del cuore, appartengono al sangue e dello spirito a volte fanno strame quando un torbido singulto, il sesso, invece che vita, urta la morte. Come quando una donna sta indossando il casco dello scooter – e mai più seducente suggerimento può aversi di una caviglia ben calzata su tacco, messa in mostra da un motorino fermo al semaforo. Come quando una donna si sta avvolgendo nello chador – e mai più struggente invito può scaturire da una ciocca sfuggita dal velo per sfiorare in un istante le ciglia. Come quando una donna chiude per sempre il balcone da dove, affacciandosi per un momento, ha dato acqua alle proprie piante – e mai più malinconia si può trarre che dalle tende tirate delle magnifiche case delle donne, in quelle strade del barocco dove i pomeriggi durano il tempo di chiudersi nello sfiorire delle rose, con i petali caduti di Dino Campana.
E poi c’è quell’antica ballata agreste:
“Il demonio... non mi dire che sono stata anch’io con il demonio... ti voglio toccare che te lo voglio levare.”
Il demonio, dunque. Capro espiatorio di mutandine e toccamenti.
Il demonio, quindi, fatto compagno alla donna. Ma il demonio, fine intenditore di noia assolata in una terra consacrata alla malinconia meridiana del sesso, si risolve in furore, simbolo e valore. La contaminazione iconica è mitico-esistenziale: la zuppa di pesce, la chitarra di Domenico Modugno, i basilischi, la pietra bianca, il rosone delle cattedrali, le zeppole e le cime di rapa.
E ancora i “tarantati” di Ernesto De Martino, il padre dell’etnologia storicista che scoprì nel Mezzogiorno assolato del Levante quel sesso trasfigurato nel rito maligno della messa a morte. Tutto procedeva da una danza ossessiva e, al contempo, possessiva.
Il sesso è una brama che non frequenta il rancore depressivo della modernità. Il sesso, occultato sotto pesanti faglie sulfuree nell’orizzonte rurale, è un magma la cui lingua di istinti e ferocia è ancora ancestrale. Nella storia della profonda provincia meridiana il delitto soccorre la pulsione, e il diavolo – presente sotto forma di chaperon delle signore, là dove la femmina non si accontenta di accompagnarsi ad un parrucchiere culattone com’è uso nelle aree civilizzate – non è un fantoccio della superstizione ma un caprone arrapato. Quando ci sono la profondità del mare e l’orizzonte nel chiarore, è facile smarrirsi negli equivoci d’amore, inevitabile perciò è la violenza. E la morte.
Ogni pagina di cronaca domestica, specificamente quella nera e meridionale è, dunque, un furore antico. Con il diavolo che s’attarda nelle mutandine. Per scombinare i quadretti di provincia.
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Il magma segreto del desiderio urta la morte più che la vita e l’amore immerso nel sangue fa della femmina una menade di maligno e perverso fascino. Come Elizabeth Bathory, che si sporcò una mano con il sangue di una ragazza a suo servizio.
Nell’immaginazione dell’amore, più che nell’erotismo, ogni passo verso un abbraccio è un rischio. Ogni donna fatta dea dalla sorte d’essere bella è destinata all’infelicità, pronta a obbedire al più piccolo impulso e così distruggersi: nell’inseguire la propria immagine là dove questa, nel correre dei giorni, coincide con la cupa ombra della dannazione.
La giovane cameriera s’era ferita al braccio con una lamina metallica che serviva da specchio alla padrona, la contessa Bathory, sposa del conte Ferencz Nasdasdy, signore del castello Csejthe in Ungheria. Fu fatale quell’incidente, perché la chiazza di sangue sulla mano procurò alla contessa la sensazione e la sorpresa – nel punto esatto toccato dalla macchia – di ritrovarsi una pelle nuova e rigenerata. Invece che soccorrere la ragazza o, come sarebbe stata solita, adirarsi non avendo affatto pietà e considerazione d’anima viva, la contessa si strofinò con morbosa curiosità il sangue lungo tutto il braccio.
Fu così che trovò conferma alla smania, lei che frequentava la scienza proibita del libro nero e l’alchimia, scoprendo quanto più elastica e lucente diventava la propria pelle al contatto con la linfa purpurea. E di questa rivelazione, l’eterna giovinezza, si prese febbre, attingendo ancora dalla ferita della serva per poi spalmarsi il seno messo a nudo, anch’esso diventato turgido nel rosso brillante del plasma. La giovane intanto chiedeva soccorso, ma fu a questo punto che la contessa Elizabeth – temuta e capricciosa signora dei divertimenti di carne – conobbe il battesimo nel sangue. Fattasi totalmente nuda, a cavalcioni sulla ragazza dal cui braccio lacerato si versava ancora sangue, impugnando la scheggia al modo di un pugnale, la contessa Elizabeth aprì ancora di più lo squarcio. E la serva sotto quel colpo si inarcò, arrivando con la disperazione di un ruggito di dolore alle labbra della contessa. Questa, con la lingua, divorò lo sbotto di sangue bruciante direttamente dalla bocca della ragazza, affinché le viscere ne avessero giovamento. Con un secondo colpo inferto nel costato, poi, liberò il restante carico disperso tra le vene e le arterie e mentre la ragazza chiedeva a Dio la misericordia, del corpo morente Elizabeth faceva scempio rotolandovisi sopra. Fu così che la contessa ebbe a immergersi interamente nella pozza calda colore del rubino e così, simile ad una cagna di Satana, ebbe a leccare la propria preda in una parodia oscena dell’amore: con baci goduti, accarezzandosi ancora.
Scatenata, invece che appagata, la contessa apparve nuda e sporca di sangue alla piena luce del luglio 1598, giorno quattro, tra i saloni e i lunghi corridoi del castello. Forte di una agitazione erotica e assassina, afferrò una ragazza che le veniva incontro immaginando fosse ferita. Quest’altra serva si salvò solo perché, quando la contessa le insinuò un bacio per strapparne con i denti la lingua e cavarne il sangue, ebbe un conato di vomito e fu per ciò che venne scaraventata a terra, mentre la contessa cadeva finalmente tra le braccia di un robusto soldato accorso per il trambusto, colpita da uno dei suoi attacchi di epilessia.
Ecco in che modo, a partire da quel giorno, la contessa diventò vampira.
Fatta astuta nella sua rinnovata natura, la signora, che nel frattempo era rimasta vedova, organizzò nel proprio castello una corte di fedelissimi lautamente ricompensati per appagare i suoi turpi svaghi. Innumerevoli furono le vittime d’entrambi i sessi, e tutte giovani. Per un decennio la contessa praticò l’assassinio rituale irretendo nelle proprie trappole di seduzione anche bellissime ragazze della nobiltà ungherese. Tutte straziate da quello stesso frammento di specchiera, nelle alcove dove un’orrida attrezzeria fatta di spilli e lame si aggiungeva ad unguenti e creme della vanità femminile, sempre più accesa in lei che, in effetti, si faceva di giorno in giorno più rapace e fatale.
Fu la bellezza l’ossessione di Elizabeth, che di vampirismo ovviamente fu incolpata quando nel dicembre 1610, giorno nove, i sussurri che cingevano d’assedio il castello diventarono un preciso atto d’accusa. La bellissima Franziska von Treberth riuscì a fuggire, nuda e coperta di miele, al sanguinoso appuntamento con la contessa e, raccolta dai contadini dopo una precipitosa fuga, venne portata al cospetto del re d’Ungheria, di fronte al quale ebbe a rivelare fin nei più dolorosi particolari quello che fino a quel giorno la potente famiglia di Elizabeth – sorella del re di Polonia – aveva saputo tenere sopito.
Un’irruzione di armati pose fine ai sollazzi e ai diporti diabolici della contessa. Oltre cinquanta cadaveri di giovanissime furono rinvenuti nei pressi dei sotterranei, lasciate a putrefare accanto alle prigioni dove altre attendevano di essere sacrificate. Gli uomini del Governatorato della provincia di Csejthe misero in catene anche Iloona Joo, la vecchia balia della contessa, una fattucchiera dedita alla negromanzia, e poi ancora altri servitori corrotti, complici tutti.
Innumerevoli furono le vittime, almeno seicento nei dieci anni dalla scoperta del sangue quale unguento di giovinezza eterna. Ancora prima, era il XVI secolo, Elizabeth, bella e ancor più bella, avviata al culto del male e della sfrenatezza dagli zii che pure vantavano nel casato principi della Chiesa e della Nazione, aveva già assaporato nella violenza gratuita e nell’assassinio la miglior cura alla malinconia.
Fu processata Elizabeth Bathory, contessa di Csejthe, tutti i suoi complici furono giustiziati, la sua balia, più appropriatamente, fu arsa viva, ma per un riguardo nei confronti del fratello, sovrano di Polonia, a lei fu risparmiato il patibolo. Fu reclusa nella propria camera da letto, già teatro di amplessi, dove, con le finestre, venne murata anche la porta, per lasciare solo una fessura per passarle il cibo. Morì nel 1614.
E fu così che, a partire dal giorno deciso dal re d’Ungheria, la contessa restò vampira, non certamente al modo della fantasia transilvana, ma in quella condizione propria del pervertimento. Realmente transilvana per origine familiare, la contessa Elizabeth nulla concede alla ricostruzione fantastica, perché di tutto ciò che la portò ad essere murata viva in una cella se ne fece archivio, memoria e orrore. Giammai romanzo.
Aveva un cappotto chiaro Elena Ceausescu, temuta sposa di Draculia, secondo le dicerie dei maligni. Portava al collo una smilza leccata di pelliccia. Il naso spiovente precipitava, di profilo, a piombo sulle maniglie a stecca della borsetta. Un effetto gelido quello del soprabito sullo sfondo delle nubi. Le pale dell’elicottero completavano l’ultimo singulto prima dello spegnimento dei motori. E il chiarore della morte – dopo la formale raffica di mitra seguita ad affrettata condanna – restituiva la signora al rigore di un’eleganza raccapricciante ma eterna nel suo essere stata sputata dalla storia con la s minuscola. Gettata accanto al cadavere del marito. Sottratta alla pietà. Il pilota elicotterista, scavalcando il corpo, non poté evitare di mettere il piede sopra la falda del cappotto. Restò l’impronta dell’anfibio sul tessuto: una lana neppure pregiata.
Elena Ceausescu, falciata in una terrazza, processata tra i cieli elettrici di Romania, veniva inghiottita dalla necrofilia delle telecamere e però fatta eterna nella memoria, tanto da passeggiare, ancora adesso, perfino nelle notti serene, tra i tetti di Bucarest.
Vestita sempre con gli stessi abiti con cui fu vista dalla bocca del mitra, Elena si aggira tra i comignoli e le grondaie della città spaventando i pochi uccelli e gli zingari che vanno a nascondere la refurtiva tra le tegole. Uno di questi, con freddo coraggio, ne ha sopportato la visione per poi descriverla ai fratelli e ai cugini del proprio accampamento: identica a come l’avevano raccolta gli uomini della Securitate poco prima di spaccarla sul tavolo autoptico.
Con il cappotto chiaro. E una smilza leccata di pelliccia al collo. È solo marcata da segni neri intorno alle orbite degli occhi, fatti ormai lividi da un’acqua bianca dove non affiorano più le pupille: un’espressione che lo zingaro non ha saputo spiegare altrimenti che portandosi una mano al petto e l’altra alla fronte. Ci sono altre ferite che le tratteggiano le dita e – non troppo larga, vuota e perciò buia – intorno alla rotula del ginocchio destro le s’è scavata una fossa. Malgrado ciò, nonostante sia a tutti gli effetti morta, fucilata e sezionata, la signora mostra grande agilità nel volare da un punto all’altro dei tetti.
Le ragazze di Bucarest, quelle malate di luna, fanno a gara per aggiudicarsi la fugace apparizione di donna Elena. Un singolo sospiro della signora produce un moto di malinconia sufficiente per un’intera partitura sinfonica, questo se solo le ragazze avessero voglia di volgere la tristezza in arte, ma a loro il lutto occorre giusto per affatturare e così deturpare la sfrontata allegria degli uomini che le respingono.
Lascia dietro di sé odore di mandorle amare, la signora. Il patriarca ha disposto un esorcismo e – al contempo – ha sollecitato un funerale riparatore, non avendo la condannata goduto di alcuna prece. Una vicenda di c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Fimmini
  4. Ringraziamenti