Saturnalia
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  1. 252 pagine
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Informazioni sul libro

Roma, 46 d.C. Appena tornato nell'Urbe dopo un viaggio nelle Gallie, Publio Aurelio Stazio si trova coinvolto nei festeggiamenti dei Saturnalia, una sorta di rito carnevalesco dell'antichità durante il quale i ruoli sociali si invertono: gli schiavi si trasformano in padroni e i padroni in schiavi. Un'occasione dissacrante, liberatoria, soprattutto giorni di sfrenata allegria per tutti. O quasi tutti. Non sono molto allegre, infatti, le vittime di un assassino che, approfittando della confusione e dei mascheramenti, ha messo a punto una serie di omicidi apparentemente scollegati. Ci vorrà il fiuto di Aurelio per cogliere il filo sottile che unisce tra loro le vittime e giungere così al colpevole. Non prima di aver affrontato quella che è forse l'indagine più pericolosa della sua carriera.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852052057

VI

Quella sera, dopo aver dato le opportune disposizioni del caso, Publio Aurelio montò in lettiga. Doppiato il colle Oppio, i Nubiani si arrampicarono veloci sul Celio, fino al Vicus Trium Ararum dove la domus di Porzio Commiano, il tutore di Primilla, interrompeva il profilo delle insulae popolari a più piani col suo basso muro di cinta, da cui sbucavano alcuni agrifogli e un sambuco spoglio, alto quasi come quello che svettava nel peristilio del senatore, insolito nelle dimore dell’Urbe, dove si preferiva piantare dei sempreverdi.
Nella facciata si aprivano parecchie tabernae ricavate da vecchie stanze della casa, che dovevano fruttare un bel po’ di sesterzi d’affitto: Porzio aveva evidentemente deciso di privilegiare il lusso dell’abitazione a discapito della qualità del vicinato, scegliendo di vivere da ricco tra i poveri, piuttosto che da povero tra i ricchi.
I suoi schiavi, già pronti davanti alla porta, si precipitarono verso la lettiga prima ancora che Aurelio facesse in tempo a scendere a terra, chi porgendogli la scaletta, chi lodandolo con ampi panegirici, chi gridando a voce stentorea il suo nome e i suoi titoli.
Un istante dopo, il patrizio entrava in un atrio molto simile al suo per gusto e decorazione, illuminato da un gran numero di lucerne di terracotta raffiguranti in molti modi fantasiosi il divino amplesso di Leda e il cigno. Sulla soglia del tablino c’era un uomo sui quarant’anni, con un’elegante veste cenatoria rosso mattone e le dita ornate di anelli d’oro. Il volto aperto, ma un po’ inasprito dalla barba in crescita, rimirava l’ospite colando cordialità come miele da un favo.
«Ave, Publio Aurelio, sapessi che gioia è averti qui!» esclamò con gli occhi luccicanti. «Erano secoli che desideravo conoscerti!»
«Davvero?» si stupì il senatore, seguendo nel triclinio di gala il suo anfitrione, che fino a qualche giorno prima non aveva mai sentito nominare.
La prima cosa che vide alzando gli occhi nella sala fu un affresco di Eros e Psiche avvinti in una posa appena un po’ più esplicita di quella assunta da Venere e Marte nell’oecus della domus sul Viminale. In un angolo, accanto alla mensa riccamente imbandita, faceva bella mostra di sé la copia di un’Afrodite greca del periodo d’oro, quasi identica alla sua. Il patrizio soffocò il disagio, deciso a non lasciarsi suggestionare da quella serie di bizzarre casualità.
«Nobile Commiano, immagino che tu abbia saputo del testamento di Curio Catulo» venne subito al punto Aurelio. «In quanto tutore di Metella Primilla, sarai sicuramente in grado di riferirmi qualcosa sullo scandalo in cui fu coinvolta la sorella maggiore.»
«Una storia pietosissima, mio illustre Stazio» rispose Commiano dopo aver tratto un profondo sospiro. «Tutti erano convinti che l’augure stesse commettendo un grave errore. Ma vieni, avremo modo di parlarne durante la cena. Nofret, porta da bere!» E subito apparve un’ancella dall’inequivocabile aspetto egizio, abbastanza graziosa, anche se non proprio avvenente come Nefer, la schiava massaggiatrice che Aurelio aveva pagato ventimila sesterzi al mercato di Alessandria.
«Catulo, purtroppo, aveva prove e testimoni» proseguì Commiano. «Il liberto Faceto, quello che oggi è il capo della servitù della casa, trovò un indizio determinante addosso a uno schiavo. Poco dopo un’ancella, messa alle strette, finì per confermare la tresca tra il servo e la padrona. Personalmente, però, sono sempre stato convinto che la povera Seconda fosse innocente.»
«Che cosa te lo fa pensare?»
«Mi ero messo qualche idea in testa, quando frequentavo la famiglia. Non che lei me ne desse motivo, bada bene; anzi, stava terribilmente sulle sue, non senza ostentare parecchia alterigia. Ma nonostante tutto, nel mio ottimismo contavo di avere buone possibilità, per via di quel marito alto e allampanato come una cicogna spelacchiata – anche il suo naso, te lo assicuro, assomigliava a un becco – e oltretutto vecchiotto, pedante e decisamente bacchettone.»
«Dunque?» chiese Aurelio, incuriosito.
«Mi andò peggio che al console Flaminio nella piana di Canne» gemette Commiano. «Al primo accenno di proposta, Seconda mi ingiunse di non presentarmi più in casa sua. Chissà, forse non le piacevo abbastanza... ma un po’ per orgoglio, un po’ per convinzione, continuo a pensare che non mi avrebbe rifiutato tanto sdegnosamente per darsi a uno schiavo. Capisci, non avrebbe avuto alcun senso.»
«Ricordi il nome dell’ancella che all’epoca della presunta tresca testimoniò contro di lei?»
«Devo averlo scritto da qualche parte: ai tempi della mia giovinezza mi piaceva raccogliere fatti e fatterelli, nella speranza di diventare uno storico... il mio segretario personale cercherà l’appunto nei miei vecchi diari.» Detto questo, l’anfitrione batté le mani. Lesti, accorsero gli schiavi, posando sulla mensa poderosi vassoi colmi di insalate, uova in salsa, molluschi alle erbette e stuzzicanti salamoie di olive.
Poco dopo il patrizio si stropicciava gli occhi, incredulo, vedendo avanzare nel triclinio un greco dalla barbetta a punta che, inchinatosi profondamente, comunicò al padrone che i registri richiesti si trovavano sepolti in un ripostiglio e gli sarebbe occorso fino all’indomani per recuperarli.
«Grazie, Polluce» ribatté Porzio Commiano. Il senatore fu colto dalla vertigine: l’atrio, gli affreschi, la statua, il sambuco, l’ancella egizia e adesso anche un segretario che pareva la brutta copia del suo Castore...
«Ti porterò io stesso gli appunti, se credi ti siano utili!» propose Commiano, orgoglioso di collaborare all’indagine. «Adesso dimmi se ti piace la mia casa. Non è certo all’altezza della tua, però ho fatto del mio meglio. Ma forse è meglio che ti spieghi...» aggiunse poi, davanti al silenzio perplesso di Aurelio. «Vedi, nobile Stazio, io ho soltanto un paio di anni più di te. Da ragazzino, ti avevo notato in palestra, mentre ti esercitavi col giavellotto in mezzo ai tuoi pari, tutti spocchiosetti pieni di boria che tenevano a debita distanza noi comuni mortali. Un giorno ti vidi fare a botte con uno di loro, tre volte più grosso, che ci aveva insultato chiamandoci pezzenti: le prendesti, certo, ma neanche lui ne uscì conciato troppo bene! Quando ci incontrammo di nuovo, tu indossavi la toga virile ed eri diventato il paterfamilias della tua stirpe. Comparisti nel Foro in lettiga, con gli schiavi a farti da scorta e una magnifica donna accanto, che i maligni sussurravano fosse stata l’amante di tuo padre. Avevi sedici anni, ma parevi tanto forte e sicuro...»
«In realtà avevo una paura matta e temevo che qualcuno se ne accorgesse!» rise Aurelio, rammentando l’antico episodio.
«Come ti ammirai allora!» ribadì Porzio con voce vibrante. «Mentre noi restavamo in balia della ferula dei nostri pedagoghi, tu avevi spiccato il volo: eri il dominus, il capo incontrastato della tua gente. L’invidia, senatore, è un sentimento strano: in alcuni spinge al rancore, in altri all’emulazione. Cominciai a seguire la tua vita di lontano, passo dopo passo e, a poco a poco, tu diventasti il mio modello!»
Aurelio non si sentì per nulla lusingato da quelle parole. Aveva sempre vissuto tenendo in scarsissimo conto l’opinione altrui, senza emulare nessuno e, di riflesso, senza il desiderio di essere emulato.
«La mia famiglia» riprese Commiano «aveva fatto parte della nobilitas, un tempo, ma non avendo espresso né un console né un senatore da più di settant’anni, era ormai irrimediabilmente decaduta. Il sogno di mio padre, e di mio nonno prima di lui, era riportarla agli antichi splendori: così accumularono abbastanza terre da garantirmi una rendita senatoriale e puntarono su di me tutte le loro speranze.»
Il patrizio annuì, ben sapendo come per legge il patrimonio necessario a entrare in Curia – un milione di sesterzi – dovesse provenire interamente dalle proprietà fondiarie, a discapito degli investimenti nella finanza e nel commercio, meno solidi ma tanto, tanto più redditizi.
«A me, però, non importava nulla del seggio in Curia» confessò Commiano. «Da senatore avrei dovuto stringere la cinghia, pago del mio orgoglio di padre coscritto. Accontentandomi di rimanere un privato cittadino, invece, mi sarebbero rimasti abbastanza fondi per godermi appieno l’esistenza: perché è questo che conta, vero?» chiese, interpretando il silenzio di Aurelio come una muta conferma.
«Così, quando tuo padre morì, vendesti il grosso dei terreni, rinunciando agli onori, ma anche agli oneri, della carriera politica» concluse il senatore.
«Non me ne sono mai pentito, nobile Stazio. Ci ho rimesso in dignitas, guadagnandoci in comodità, agi e lieto vivere: uno scambio proficuo!» rise l’altro, additando la casa, le suppellettili, i servi ossequiosi e le ancelle bellocce. «Ma ora assaggia l’uccellagione; proviene da una piccola voliera che mantengo sulla via Prenestina, subito fuori città: pensa che la sera dei Saturnalia non soltanto gli schiavi, ma anche i vicini si sono presentati per gustare le delizie della mia mensa!»
Aurelio sorrise, fingendo di non notare la lieve sfumatura di rimpianto con cui Commiano commentava la sua popolarità presso gli artigiani del quartiere: escluso per sua stessa scelta dalla classe dirigente, si compiaceva ora di regnare sui plebei del Celio, a cui doveva apparire come un signore di gran lustro...
«Per festeggiare la tua visita, ho organizzato un piccolo spettacolo. Si esibiranno le danzatrici del paese di Saba, dei fiori di figliole che sanno contorcere il ventre come una serpe incantata dallo zufolo. Pare nelle contrade arabiche le addestrino fin da giovanissime, per compiacere l’esausta virilità degli anziani capitribù nomadi» annunciò il padrone di casa, mentre i musicanti nascosti dietro la tenda davano fiato ai loro strumenti.
Accanto alla mensa comparvero due fanciulle dai grandi occhi bistrati, coi capelli neri avvolti alla moda egizia in treccioline trattenute da minuscoli campanelli, che al minimo movimento sobbalzavano producendo un festoso tintinnio.
Aurelio si sdraiò ancor più comodamente sul triclinio, con le nari solleticate dal profumo di una porchetta cotta a puntino. Quasi a puntino, valutò assaggiandola: forse nel timore di far brutta figura, il cuoco aveva un po’ esagerato col garum. Nel complesso, però, la cena era ottima e il ballo abbastanza ammaliante da non lasciare spazio alle elucubrazioni investigative, pensò il senatore mentre una ballerina lo imprigionava ridendo nel velo appena tolto dai fianchi. Stava appunto chiedendosi se non fosse suo dovere andare un po’ più a fondo sulla faccenda dell’augure, quando una seconda danzatrice gli si rovesciò addosso, dimenandosi al suono dei cembali. Un rapido sguardo alla pelle deliziosamente ambrata della ragazza lo convinse subito dell’inopportunità di un simile intervento.
«Non ti consiglio di offrirle da bere» lo avvertì Commiano con un risolino. «La notte dei Saturnalia si è addormentata come un sasso, proprio quando avrebbe dovuto tenermi compagnia!»
Aurelio alzò il calice: era evidente che, diari a parte, Porzio non aveva alcuna rivelazione straordinaria da fargli, quindi tanto valeva godersi la cena e le danzatrici.
Della storia di Catulo, per quella sera non si parlò più.
L’indomani, il senatore salì di nuovo sulla lettiga sorretta dagli otto infreddoliti portatori nubiani per recarsi alla domus degli Isaurici sul Palatino, una delle ultime residenze private nel colle che, seguendo l’esempio del Divo Augusto, i Cesari avevano eletto a loro dimora.
L’edificio appariva ora di una scialba modestia, paragonato alle pretenziose residenze degli homines novi arricchitisi con la finanza e il commercio, tanto da far dubitare che, proprio da lì, il primo imperatore avesse governato l’orbe terracqueo.
Aurelio lo sorpassò senza fermarsi e scese dalla lettiga davanti al tempio dei Lari, licenziando i portatori per proseguire a piedi.
La casa dei Metelli, ubicata dietro la biblioteca di Apollo, si intravedeva appena tra le colonne gialle del portico delle cinquanta Danaidi uxoricide, le cui statue i romani avevano portato fin lì dalla Grecia, giovandosi del diritto di predazione dei vincitori. Si trattava di una costruzione imponente, che tuttavia da decenni non vedeva alcuna miglioria: i muri esterni avevano urgente bisogno di una mano di intonaco, per non parlare degli stucchi che un tempo avevano reso famosa la ricca facciata e ora si sgretolavano giorno per giorno in una nebbiolina grigiastra e farinosa. Una casa deprimente, pensò Aurelio scuotendo il batocchio. Dovette attendere un bel po’ perché qualcuno si presentasse alla porta.
«La kyria non riceve!» lo avvertì la virago di guardia nel gabbiotto del portiere, sbattendogli la porta in faccia. Il patrizio avrebbe scommesso che in quella casa non alloggiava alcun maschio e forse nemmeno un’ancella in età riproduttiva: la Virgo Maxima si era curata di difendere la virtù della nipote Primilla, che viveva sola, affiancandole una schiera di custodi rigorosamente femminili, scelte tra le vedove più attempate e intransigenti.
Scornato, Publio Aurelio stava per tornare sui suoi passi, quando sentì sussurrare il suo nome dietro una piccola finestra, difesa peraltro da due imposte che non lasciavano intravedere alcunché.
«Vieni domani all’ora seconda nel santuario della Fortuna Respiciens sulla parte orientale del colle. Fingerò di offrire un sacrificio alla Dea, in modo da incontrarti senza testimoni...»
«Ci sarò!» promise in un bisbiglio il senatore, rinfrancato. Quella voce giovanile e rotta dall’emozione aveva messo in moto all’istante la sua fantasia, e già cominciava a figurarsi il tipo di donna a cui poteva appartenere. Sarebbe stata riservata o maliziosa, timida o sfacciata, chiusa nel ritegno patrizio o anelante una libertà mai goduta?
Il pensiero gli tornò alle infinite volte in cui aveva consolato fanciulle afflitte, facendosi beffa dei parenti tiranni che le costringevano a forzate reclusioni: una missione che riteneva quasi un imperativo morale e a cui sarebbe stato vile sottrarsi, pregustò Aurelio indirizzando la lettiga verso il Vicus Patricius.
Sorpassato il Foro, arrestò i Nubiani per inoltrarsi a piedi nella Suburra. Non era lontano dal luogo dove, a detta di Mummio, era stato rinvenuto il corpo del bambino, dunque ne avrebbe approfittato per dare un’occhiata: l’insula si trovava nella prima traversa dopo la fontana del Tritone, vero cuore pulsante di un quartiere in cui nessuno poteva permettersi l’allacciamento all’acqua potabile.
La debole luce dell’inverno stentava a penetrare nel dedalo di viuzze, filtrata com’era dal fitto reticolo di balconi di legno, scale esterne e pianerottoli volanti che si inerpicavano sulle torri ad altezze spropositate. I crolli erano all’ordine del giorno, nella zona, e ancor di più gli incendi, che i carri dei pompieri stentavano a domare, impossibilitati com’erano a intrufolarsi nell’angustia dei vicoli. In quegli alveari pericolosissimi e sovrappopolati, viveva la stragrande maggioranza degli abitanti dell’Urbe, a rischio quotidiano della vita. Ben poco servivano infatti le norme di sicurezza emanate dai Cesari: per non perdere un solo sesterzio dei pingui proventi delle locazioni, i costruttori senza scrupoli aggiravano il limite imposto all’altezza degli edifici abbassando ulteriormente i singoli piani, cosicché, entrando nei cenacoli più economici, bisognava tenere la testa chinata per non sbatterla contro il soffitto.
Uno di quei miseri appartamenti precariamente transennati, nei quali gli inquilini si accalcavano in sudicia promiscuità, costava d’affitto quanto una casa di campagna con annesso un piccolo podere. Ma dove, se non nell’Urbe tentacolare, i più poveri potevano trovare frequenti distribuzioni di grano, spettacoli gratuiti e terme a ingresso libero? E dove, se non nella capitale del mondo, si dirigevano i passi delle migliaia di emigranti partiti da ogni parte dell’orbe terracqueo – Greci, Fenici, Ebrei, Liguri, Galli, Ispanici, Numidi, Traci, Marcomanni – alla ricerca dell’opportunità di arricchirsi velocemente, o almeno di cavarsela alla ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Saturnalia
  3. I
  4. II
  5. III
  6. IV
  7. V
  8. VI
  9. VII
  10. VIII
  11. IX
  12. X
  13. XI
  14. XII
  15. XIII
  16. XIV
  17. XV
  18. XVI
  19. XVII
  20. XVIII
  21. XIX
  22. XX
  23. XXI
  24. XXII
  25. XXIII
  26. XXIV
  27. XXV
  28. XXVI
  29. XXVII
  30. XXVIII
  31. XXIX
  32. XXX
  33. Glossari
  34. Copyright