Il salmone del dubbio
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Il salmone del dubbio

L'ultimo giro in autostop per la galassia

  1. 406 pagine
  2. Italian
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Il salmone del dubbio

L'ultimo giro in autostop per la galassia

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Informazioni sul libro

L'11 maggio 2001 il mondo ha pianto la prematura scomparsa di Douglas Adams, stroncato da un infarto a soli quarantanove anni. Fortunatamente Douglas ci ha lasciato qualcosa. Il fascinoso materiale che compone questo libro è stato recuperato dai suoi quattro computer e comprende tra l'altro: una lettera al direttore di una rivista per ragazzi (scritta a dodici anni); un elaborato e sognante ricordo della sua lunga storia d'amore per i Beatles; un pezzo del 1991 intitolato Il mio naso; un articolo in cui Adams chiarisce approfonditamente la sua spiccata preferenza per il whiskey; un reportage su un suo surreale pellegrinaggio in giro per l'Africa travestito da rinoceronte, divagazioni su computer, e-book e nuove tecnologie, racconti umoristici e i dieci capitoli del romanzo che stava completando, dal titolo appunto Il salmone del dubbio. Per i suoi fan vecchi e nuovi questo libro è l'ultimo, inatteso vagabondaggio in giro per una galassia più che mai piena di follie, meraviglie e risate.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852050916

LA VITA

Le voci di tutti i nostri ieri1

Ricordo vagamente i tempi della scuola. So che erano lo sfondo al mio ascolto dei Beatles. Avevo dodici anni quando uscì Can’t Buy Me Love; durante l’intervallo del mattino, in cui si beveva il latte, mi allontanai dall’edificio, comprai il disco e corsi nella stanza della direttrice dell’infermeria, dove c’era un giradischi. Misi su il disco a basso volume, ascoltandolo con un orecchio premuto contro l’altoparlante, lo misi su di nuovo per farlo udire all’altro orecchio, e infine lo girai e ascoltai nello stesso modo You Can’t Do That. Fu allora che il preside mi colse in flagrante e mi assegnò una punizione. Lo avevo previsto, ma mi pareva un piccolo prezzo da pagare per quella che ora so essere arte.
Allora non sapevo che era arte; sapevo solo che i Beatles erano quanto di più bello ci fosse nell’Universo. Non era un’opinione indiscussa, intendiamoci. Innanzitutto bisognava lottare con i fan degli Stones, il che non era facile, perché menavano colpi bassi ed erano tipi tosti rispetto a noi. Poi bisognava lottare con gli adulti, ossia con genitori e insegnanti che ci chiedevano perché sprecassimo il nostro tempo e e la nostra paghetta per quella spazzatura che avremmo dimenticato la settimana dopo.
Non capivo perché mi dicessero questo. Poiché cantavo nel coro della scuola, conoscevo bene l’armonia e il contrappunto e mi era chiaro che la musica dei Beatles era raffinatissima. Trovavo sconcertante che nessun altro cogliesse le meravigliose armonie e il meraviglioso contrappunto che prima d’allora non si erano mai sentiti nella musica leggera. Era chiaro che i Beatles introducevano quelle raffinatezze nelle loro canzoni per proprio intimo divertimento, e mi deliziava l’idea che ci si potesse divertire in quel modo.
Poi mi deliziava che continuassero a confondermi. Quando pubblicavano un nuovo album le prime volte che lo ascoltavo restavo freddo e interdetto. Solo a poco a poco le note mi si chiarivano nella mente. Il motivo per cui restavo interdetto era che, in realtà, ascoltavo una musica diversa da quella di chiunque altro. Another Girl, Good Day Sunshine, la straordinaria Drive My Car sono canzoni diventate ormai così familiari che solo con un preciso sforzo della volontà riesco a ricordare quanto strane mi siano parse all’inizio. Il fatto è che con il passare del tempo i Beatles non si limitarono più a scrivere canzoni, ma inventarono il medium stesso con cui operavano.
Non sono mai riuscito a vederli. So che è difficile a credersi, perché ero vivo all’epoca in cui si esibivano sul palco, ma non sono mai riuscito a vederli. Spesso me ne lamento. Mi raccomando, non venite a San Francisco con me, perché se lo faceste vi indicherei più volte Candlestick Park e piagnucolerei che proprio là i Beatles tennero il loro ultimo concerto nel 1966, un attimo prima che mi rendessi conto che avrei potuto prendere un aereo e andarci, anche se vivevo a Brentwood, nell’Essex.
Una volta un mio compagno di scuola ricevette dei biglietti di ingresso per lo spettacolo televisivo di David Frost, ma alla fine decidemmo di restare a casa. La sera guardai la trasmissione, durante la quale i Beatles suonarono Hey Jude. Ho sofferto come un cane per un anno intero. Un’altra volta rinunciai ad andare a Londra per vederli e si esibirono nel famoso concerto sul tetto di Savile Row. Il dolore è tale che non riesco neanche a parlarne.
Passarono dunque gli anni e passarono i Beatles. Ma Paul McCartney ha continuato a comporre. Pochi mesi fa il chitarrista Robbie McIntosh mi ha telefonato per dirmi: «Suoniamo al Mean Fiddler tra qualche giorno, vuoi venire?».
È certo una delle domande più stupide che mi siano state fatte e credo di aver impiegato qualche istante a rendermi conto di che cosa intendesse dire. Per chi non lo sapesse, il Mean Fiddler è un pub di un quartiere poco bello di Londra, che ha sul retro lo spazio per una band e per un pubblico di circa duecento persone.
È stato quel “suoniamo” a confondermi; sapevo infatti che al momento Robbie faceva parte della band di Paul McCartney e non pensavo che Paul McCartney suonasse nei pub. Se Paul McCartney suonava davvero nei pub, sarei stato un idiota a non segarmi una gamba pur di andarci. E ci sono andato.
Davanti alle duecento persone del pub, Paul McCartney è salito sul palco e ha eseguito canzoni che, credo, non aveva mai eseguito in pubblico prima d’allora. Here, There and Everywhere e Blackbird, per nominarne solo due. dio, se penso che pure io ho suonato Blackbird nei pub! Impiegai settimane a imparare la parte per chitarra mentre avrei dovuto studiare per l’esame di ammissione all’università. Lì, al Mean Fiddler, ho avuto quasi l’impressione di avere le allucinazioni.
Due momenti, in particolare, sono stati assolutamente magici: l’ultimo bis, un’impeccabile e fragorosa (non dimentichiamo che eravamo in un pub) Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band e un altro pezzo forte, Can’t Buy Me Love, uno dei più grandi esempi di rock’n’roll, che avevo sentito la prima volta con l’orecchio premuto contro il giradischi Dansette nella stanza della direttrice dell’infermeria della scuola.
C’è un gioco abbastanza diffuso tra la gente, che consiste nel chiedere: «Dove avresti voluto vivere e perché?». Nell’Italia del Rinascimento? Nella Vienna di Mozart? Nell’Inghilterra di Shakespeare? Personalmente avrei voluto vedere e ascoltare Bach. Ma è un gioco assai difficile, perché vivere in qualsiasi altra epoca della storia avrebbe significato per me perdermi i Beatles, e francamente il sacrificio sarebbe stato troppo grande. Mozart e Bach e Shakespeare sono sempre con noi, ma io sono cresciuto con i Beatles e credo che poche cose abbiano avuto su di me l’influenza profonda che hanno avuto loro.
Ed ecco che Paul McCartney domani compie cinquant’anni. Auguri, Paul. Per nulla al mondo avrei voluto perdermi questo tuo compleanno.
«The Sunday Times»
17 giugno 1992
1 Citazione shakespeariana (Macbeth, atto V, scena 5) che richiama la celebre Yesterday. (NdT)

La Brentwood School

Ho frequentato la Brentwood School per ben dodici anni e tutto sommato, sia pur con alti e bassi, sono stati anni piuttosto buoni: abbastanza felici, discretamente rigogliosi, un poco più sportivi di quanto avrei voluto all’epoca, ma confortati da bravi (e a volte molto eccentrici) insegnanti. In realtà mi resi conto solo più tardi, e gradualmente, di che ottima istruzione avessi ricevuto alla Brentwood, in particolare in inglese e in fisica. (Strano, in fisica.) Eppure quei dodici, lunghi anni positivi sono stati completamente offuscati dal ricordo di un’unica esperienza terribile e traumatizzante: l’Episodio dei Pantaloni. Ve lo racconterò.
Sono sempre stato assurdamente, ridicolmente alto, tanto che, quando andavamo a fare le escursioni scolastiche in Posti Interessanti e Istruttivi, l’insegnante responsabile non diceva: «Troviamoci sotto la torre dell’orologio» o: «Troviamoci sotto il monumento ai caduti», ma: «Troviamoci sotto Adams». Ero più visibile di qualsiasi altro oggetto sotto il cielo e potevo essere spostato a piacere. Quando, durante le lezioni di fisica, dovevamo ripetere l’esperimento con cui Galileo dimostrò che due corpi di peso diverso cadono al suolo alla stessa velocità, affidavano a me il compito di lasciar cadere un pisello e una palla da cricket, in quanto era più pratico che salire sino alla finestra del piano di sopra. Ho sempre sovrastato tutti dall’alto della mia statura. Quando avevo sette anni ed ero all’inizio della carriera scolastica, mi presentai a un nuovo bambino (Robert Neary) avvicinandomi alle sue spalle, facendogli cadere in testa una palla da cricket e dicendo: «Ciao, io mi chiamo Adams, e tu?». Sono sicuro che per Robert Neary quello sia stato il ricordo più terribile e traumatizzante dell’infanzia.
Alla scuola preparatoria, che frequentai per cinque dei dodici anni complessivi, portavamo tutti i pantaloncini corti: calzoncini grigi e giacca dai bottoni dorati d’estate; calzoncini e giacca di tweed sale e pepe d’inverno. Vi è naturalmente un’ottima ragione per stare, da ragazzini, a gambe nude anche nel cuore di un inverno inglese (allora molto più freddo di oggi, se vi ricordate). Secondo la rivista «Wired», prima del 2020 non vedremo stoffe che si rammendano da sole, ma, da quando siamo scesi dagli alberi ed emersi dalle paludi in cui vivevamo cinque milioni di anni fa, possediamo ginocchia che si riparano da sole.
Perciò i calzoncini corti erano giustificati. Benché tutti quanti fossimo tenuti a indossarli, su di me facevano un effetto piuttosto ridicolo. Ero imbarazzato perché sovrastavo non solo i miei compagni di scuola, ma anche i miei insegnanti. E avevo le gambone scoperte. Mia madre si decise ad andare dal preside e a supplicarlo di fare un’eccezione per me e lasciarmi portare i pantaloni lunghi. Tuttavia Jack Higgs, persona sempre molto equa ma ferma, disse di no: di lì a soli sei mesi sarei andato alle superiori, dove, con tutti gli altri, avrei potuto indossare pantaloni lunghi. Bastava aspettare quella data.
Alla fine mi congedai dalla preparatoria. Due settimane prima che iniziasse il trimestre autunnale, mia madre mi portò al negozio della scuola per comprarmi – finalmente – la divisa con i pantaloni lunghi. E sapete che cosa dissero i commessi? Che non c’era una taglia abbastanza grande per me. Lasciate che lo ripeta, affinché l’inaudito orrore della situazione si faccia strada nella mente di voi lettori come si fece strada nella mia quel giorno d’estate del 1964 in cui, impalato davanti al banco del negozio, accoglievo la notizia. Non avevano nessuna divisa scolastica con calzoni abbastanza lunghi per me. Avrebbero dovuto confezionarmi un capo apposta e sarebbero occorse sei settimane. Sei settimane. Sei meno due faceva, come ci avevano con tanta cura e meticolosità insegnato a scuola, quattro. Ciò significava che per quattro intere settimane del trimestre autunnale sarei stato l’unico ragazzo della scuola a indossare i calzoncini corti. Nei quindici giorni successivi giocai in mezzo al traffico, maneggiai incautamente coltelli da cucina, mi avvicinai molto al treno sulle banchine della stazione, ma purtroppo ebbi una fortuna sfacciata e mi toccò affrontare il mio destino. Quattro settimane dell’imbarazzo e dell’umiliazione più grandi che abbia conosciuto un uomo, o meglio che abbia conosciuto la creatura vivente in assoluto più incline a sentirsi imbarazzata e umiliata: il dodicenne cresciuto troppo in fretta. Tutti abbiamo fatto quei sogni angoscianti in cui scopriamo all’improvviso di essere nudi come vermi in mezzo a una strada affollata. Credetemi: l’esperienza dei pantaloncini fu peggio, e non fu un sogno.
La storia finì bene, nel senso che un mese dopo ebbi naturalmente i pantaloni lunghi e fui riammesso nel consorzio civile. Ma, vi assicuro, porto ancora le stigmate dentro. E benché cerchi di starmene a cavalcioni del mondo come un Colosso, scrivendo bestseller e... (e basta: scrivere bestseller è l’unica cosa che tento di fare), se a volte appaio, emotivamente parlando, un povero storpio ingobbito, disadattato, isolato e sfigato (penso qui soprattutto alle domeniche mattina di febbraio), la colpa è tutta di quelle quattro settimane di settembre del 1964 in cui indossai pantaloni corti tra gente che li aveva lunghi.

Y

“Perché” è l’unica parola così perturbante da averci indotto a dedicarle una lettera dell’alfabeto.1
L’alfabeto non dice “A B C D Che cosa? Quando? Come?”, ma “V W X Perché? Z”.
“Perché?” è sempre la domanda cui è più difficile rispondere. Sappiamo che cosa dire quando qualcuno ci chiede: «Che ora è?» o: «Quando avvenne la battaglia del 1066?» o: «Come mai le cinture di sicurezza diventano così strette quando freni, babbo?». Le risposte sono facili e sono, rispettivamente: «Le sette e mezzo», «Alle dieci e un quarto di mattina» e «Non fare domande stupide».
Ma quando sentiamo quella parola, “Perché?”, capiamo di trovarci davanti ad alcune delle principali domande senza risposta, come: «Perché siamo nati?», «Perché moriamo?», «Perché passiamo tanta parte del tempo che intercorre tra una cosa e l’altra a ricevere posta indesiderata?».
O come:
«Vieni a letto con me?»
«Perché?»
C’è sempre stata un’unica buona risposta alla domanda “Perché?” e forse, visto che lo spazio c’è, dovremmo infilare anche quella nell’alfabeto. Non è detto che “Perché?” sia l’ultima parola, tanto più che non è nemmeno l’ultima lettera. Come sarebbe un alfabeto che non finisse con “V W X Perché? Z”, ma con “V W X Perché no?”.
Non fare domande stupide.
Da Hockney’s Alphabet
Faber & Faber
1 In inglese, la lettera Y si pronuncia nello stesso modo di why, “perché”. (NdT)

The Meaning of Liff

All’inizio The Meaning of Liff1 fu un compito di inglese che dovevo fare per la scuola; poi, quindici anni dopo, John Lloyd e io lo trasformammo in un gioco. Per un intero pomeriggio eravamo rimasti seduti con alcuni amici in una taverna greca a bere retsina e giocare a sciarade e, alla fine, sentimmo il bisogno di trovare un gioco che si potesse fare senza doversi reggere troppo in piedi.
Il gioco era semplice (doveva esserlo, in quanto il pomeriggio era troppo avanzato per reggere a regole complicate): qualcuno doveva dire il nome di una città e qualcun altro doveva spiegare che cosa significasse. Insomma che impressione si collegasse a quel nome. Avreste dovuto esserci.
Presto scoprimmo che c’erano infinite esperienze, sensazioni e situazioni che tutti vivevamo e riconoscevamo, ma che non erano propriamente definite in quanto non esisteva una parola che le definisse. Quando diciamo: «Ti è mai capitato di trovarti in una situazione in cui...» o: «Hai presente quello che si prova quando...» o ancora: «Credevo di essere il solo a sentire che...», diamo voce a quel tipo di vissuto senza nome. Situazioni del genere hanno bisogno solo di un vocabolo per essere chiaramente definite e riconosciute.
Per esempio: l’emozione vagamente spiacevole che si prova quando ci si siede su una sedia che è stata scaldata dal sedere di qualcun altro è altrettanto concreta di quella che ci assale quando un grande elefante solitario sbuca all’improvviso dalla boscaglia e ci carica, ma finora solo la seconda era stata definita da una parola. Ora invece esistono per tutte e due i termini giusti: il primo è “straniaculosità”, il secondo è, naturalmente, “paura”.
A mano a mano che raccoglievamo sempre più vocaboli e concetti, ci rendemmo conto di quanto arbitrariamente selettiva sia un’opera come l’Oxford English Dictionary. Non riconosce intere carrettate di esperienze umane, come quella di ritrovarsi in cucina a chiedersi per qual motivo si è andati in cucina. Tutti la conoscono, ma poiché non c’è – o non c’era – un vocabolo per descriverla, tutti pensano di essere i soli a viverla e si sentono quindi più stupidi degli altri. Dà sicurezza constatare che gli altri sono stupidi come noi e che, quando ci ritroviamo in cucina a chiederci cosa ci siamo venuti a fare, semplicemente “automatonzoliamo”.
A poco a poco, pile di schede che riportavano questi vocaboli si accumularono nell’ultimo cassetto della scrivania di John Lloyd e chiunque avesse sentito parlare della cosa aggiungeva concetti propri.
Le definizioni riemersero dal buio del cassetto quando John Lloyd cominciò a lavorare a Not 1982.2 Non sapendo che cosa mettere in fondo alle pagine (e spesso nemmeno in cima o al centro), inserì i vocaboli nel volume spiegando che facevano parte dell’Oxtail English Dictionary. Le definizioni sono diventate presto il pezzo forte di Not 1982 e il successo dell’idea su piccola scala ci ha indotti a dedicare un intero libro all’argomento. Ecco qui dunque The Meaning of Liff, prodotto di un’intera vita passata a studiare e analizzare puntigliosamente il comportamento umano.
«Pan Promotion News 54»
ottobre 1983
1 Il libro The Meaning of Liff e il suo seguito, The Deeper Meaning of Liff, sono stati scritti da Douglas Adams e John Lloyd. [N.d.C.]
2 Not 1982 (1981) e Not 1983 (1982) furono due dei libri usciti sull’onda del successo del serial televisivo satirico della BBC Not The 9 O’clock News (1979...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il salmone del dubbio
  3. Nota del curatore
  4. Prologo
  5. Ritratto di Douglas Noel Adams
  6. Introduzione
  7. IL SALMONE DEL DUBBIO
  8. La Vita
  9. L’Universo
  10. E Tutto Quanto
  11. Il salmone del dubbio
  12. Da un’intervista a Douglas Adams del «Daily Nexus»
  13. Epilogo
  14. Programma della funzione in memoria di Douglas Adams
  15. Ringraziamenti
  16. Credits
  17. Copyright