C’era una volta uno squillo molto sensibile. E qui bisogna spiegarsi, perché quando uno dice che uno squillo è sensibile magari quel che si capisce – se si capisce qualcosa – è che è uno squillo forte, squillante appunto, e come tale è facile sentirlo, impossibile anzi non sentirlo. Questo squillo, invece, era molto sensibile perché aveva un cuore d’oro e si commuoveva facilmente, soprattutto alle storie d’amore. Il che gli impediva talvolta di espletare le sue funzioni.
Lo squillo sensibile apparteneva al telefono di un ufficio, in cui si erano avvicendate numerose persone; e quando qualcuno chiamava una di queste persone lo squillo era l’annuncio di una presenza, di un’esigenza, di una richiesta d’informazioni. Lo squillo sentiva tutto ciò, coglieva lo stato d’animo di chi voleva stabilire un contatto e vi si adeguava. Se si trattava di questioni amministrative trillava con professionale, diligente neutralità; se si voleva diffondere un pettegolezzo si faceva più sottile e insinuante; se erano affari di cuore, essendo molto sensibile, balbettava e incespicava, e lo si avvertiva a stento, con il rischio che il telefono fosse riparato e lo squillo messo per sempre a riposo. Ma gli affari di cuore con cui aveva avuto a che fare, perlopiù, non lo avevano messo a dura prova: piccole tresche iniziate con incontri casuali nel corridoio, proseguite con appuntamenti furtivi e viaggi «di lavoro», bruscamente chiuse nel momento in cui emergevano delle aspettative, delle pretese. Dopo un po’, lo squillo trasmetteva glaciale freddezza annunciando la presenza di una voce non più attesa, non più desiderata, neppure ormai gradita.
Le cose cambiarono quando nell’ufficio s’installò un uomo che aveva un’amante. E anche qui bisogna spiegarsi, perché, quando uno parla di un’amante, di solito si capisce di aver a che fare con una di quelle tresche di cui dicevo prima: quelle in cui l’amore non c’entra e appena tenta di entrarci tutti si spaventano e non sono più amanti. Quest’uomo e la sua donna, invece, erano amanti perché si amavano sul serio, perché il loro cielo s’illuminava quando compariva l’amato, o anche solo il suo profumo o la sua voce, perché allora la vita acquistava per loro un senso che prima non aveva, intendendo «senso» (non si è mai abbastanza chiari, abbiamo visto) sia come direzione sia come significato. E qui casca l’asino, perché allo squillo, essendo molto sensibile, davanti a tutto questo amore veniva un groppo in gola, e si sforzava di fare il suo dovere ma non ci riusciva: emetteva un singulto strozzato che non sembrava uno squillo, oppure niente del tutto.
Il motivo per cui gli amanti si parlavano al telefono con una passione che commuoveva tanto lo squillo era che vivevano in città lontane e il loro amore era costretto a esprimersi a parole, e le parole erano infuocate, perfino violente: lasciavano il segno nell’animo dei due, e nella sensibilità dello squillo. Il quale, dunque, spesso non squillava, lasciando gli amanti alle prese con una passione più infuocata e violenta perché inespressa.
Fu proprio questo inconveniente a risolvere infine la situazione. Trovando difficoltà a parlarsi per telefono, gli amanti decisero di non lasciarsi più tenere lontani dai problemi economici e strutturali di cui discutevano senza fine (quando potevano discutere) e di andare comunque a vivere insieme. Oggi in quell’ufficio c’è ancora un uomo che ha un’amante, e lo so che se due persone vivono insieme non le si chiama più amanti e loro di solito non si amano neanche più; ma questa è una di quelle eccezioni che confermano la regola (se volete sapere perché un’eccezione conferma una regola, invece di contraddirla, ve lo racconto un’altra volta), perché l’uomo e la donna in questo caso si amano di più, ogni giorno di più. E c’è un aspetto del loro amore che ha cambiato le carte in tavola per lo squillo e gli ha permesso di rimanere all’opera, quando stava per essere eliminato da una riparazione. Adesso gli amanti la loro passione la esprimono in una sede più consona. Quando si chiamano al telefono, è per scambiarsi un saluto, per godere della voce dell’altro con la scusa di fare piani per la cena o raccontarsi un aneddoto; e lo squillo sente tutto ciò e si adatta, senza essere più soffocato dalla commozione perché quelli che annuncia sono sentimenti familiari e felici. Suona quindi caldo e gioioso, invitante e amichevole; e negli altri uffici che si affacciano sul corridoio gli impiegati lo ascoltano perplessi, come se si stesse sussurrando qualcosa, rivelando un segreto, ma loro non capissero.
Marco e Luca erano fratelli e avevano la stessa faccia. Gli stessi occhi verdi, grandi e a mandorla; gli stessi riccioli biondi, lo stesso naso all’insù, le stesse guance paffute. Una bella faccia, certo: un bel biglietto da visita per il mondo. Una faccia così ti mette allegria, specialmente se gli occhi verdi sono accesi da un sorriso, e una fossetta dispettosa incrina la guancia paffuta, e i riccioli sono scomposti dopo una lunga corsa. Con una faccia così, Marco e Luca erano seguiti da sguardi affettuosi dovunque andassero, e gli altri volevano stare con loro, parlargli e qualche volta, un po’ vergognandosene, usare una scusa qualsiasi per allungare la mano e sfiorare i riccioli biondi, le guance paffute. Erano benedetti dalla sorte, insomma, se non fosse stato per un problema: avendo la stessa, identica faccia, Marco e Luca non potevano usarla contemporaneamente. Quando la faccia l’aveva Marco, Luca rimaneva senza, e viceversa.
Voi direte che la cosa non è seria, che è meglio avere una bella faccia metà del tempo che averne una brutta sempre. In fondo Marco e Luca avrebbero potuto accontentarsi. Un giorno la faccia poteva portarla uno – Marco, diciamo – e gli altri sarebbero stati con lui e gli avrebbero parlato e avrebbero usato una scusa qualsiasi per sfiorargli i capelli. Luca sarebbe rimasto senza faccia, ma l’avrebbe avuta il giorno dopo e anche se gli altri non gli facevano compagnia (quelli senza faccia non sono molto popolari) c’era solo da aspettare: l’indomani le cose sarebbero cambiate e gli amici sarebbero ritornati a fargli festa. Intanto, direte voi, ci sono altre cose che poteva fare, come scrivere una lettera o ascoltare un disco o finire i compiti. Essere popolari è una gran bella cosa, ma ti lascia poco tempo.
Questo direte voi, che probabilmente non avete una faccia come Marco e Luca, ma andate a dirlo a loro! Quando si ha una faccia così, è difficile scendere a compromessi. Ci si abitua al fatto che gli altri vogliono stare con te e vederti ridere gli occhi e allungare una mano per toccarti i capelli; così, se ti trovi senza faccia e nessuno ti sta intorno e in teoria potresti scrivere una lettera o finire i compiti, non te ne viene affatto voglia e rimani sdraiato sul divano a pensare a quando la faccia l’avevi.
È per questo che Marco e Luca fanno di tutto per non avere la stessa faccia. Uno si mette dei baffi finti e l’altro si tinge i capelli con il lucido da scarpe, o se li pettina tutti all’indietro con il gel, o si mette un orecchino nel naso, o una spilla da balia. Non sono forse belli come prima, ma belli abbastanza da avere amici tutti i giorni. Non scrivono molte lettere e non fanno molti compiti, ma sono contenti: ora che non hanno più la stessa faccia, ognuno può tenersi la sua.
Il gancio aggancia. Capita di salire in metropolitana all’ora di punta, quando non solo è già pieno ma un sacco di gente si piazza davanti alla porta e non ti fa entrare, e devi chiedere permesso e un po’ anche spingere per raggiungere la porta di fronte, quella che non si apre mai e promette un’oasi di quiete, e mentre involontariamente ti sdrusci vicino a uno sconosciuto il gancio ti aggancia la borsa, o la tasca, o il gomito, e ti devi girare e guardare in faccia lo sconosciuto e anche dirgli qualcosa. Oppure sei in fila a uno sportello, in un ufficio in cui non si sono ancora decisi a dare i numeri, e la persona dietro di te ti applica una pressione indebita, e sotto quella pressione il gancio ti aggancia, offrendoti il destro (o anche il sinistro, a seconda) per dirle il fatto suo, e spiegarle che il suo turno non arriva prima se insiste a farti mancare l’aria.
Non sono occasioni piacevoli. Non è mai piacevole, mentre cerchiamo di rimanere soli in mezzo alla folla consultando il nostro telefonino, mandando messaggi agli assenti che sono sempre i più presenti o facendo finta di leggere un libro, non è mai piacevole che la folla ci ricordi la sua esistenza. Facciamo di tutto per cancellarla, sovrastiamo il suo cicaleccio con la musica ben alta in cuffia, il suo odore respirando il profumo di cui è intrisa la nostra sciarpa, la sua vista rimirando le fotografie dell’estate scorsa; ma ecco che il gancio ci aggancia, e ci costringe a fare i conti con quell’odore, con quel cicaleccio, con quei volti anonimi ed estranei.
Se non fosse che un volto anonimo può rivelarsi suggestivo, l’estraneità può trasformarsi nel brivido di una scoperta, e dopo aver detto all’altro il fatto suo possiamo anche riderci su e cominciare a parlare dell’estate scorsa, o della musica che stiamo ascoltando in cuffia. E possiamo scendere alla stessa fermata e fare un pezzo di strada insieme, e prima o poi mandare nuovi messaggi a un nuovo assente. Tutto bene? Certo, bene per noi, ma non per il gancio, che viene subito dimenticato, e la prossima volta che aggancerà provocherà la medesima irritazione.
Un tempo il tempo non passava da solo: bisognava farlo passare. Se si lavorava di gran lena, se si correva di qua e di là, il tempo passava in fretta; se ci si adagiava su una poltrona, frenava di botto e le sue ruote non giravano più.
Non ci sarebbero stati intoppi se gli uomini avessero lavorato più o meno lo stesso, ma non era così. La mattina, mentre alcuni saltavano giù dal letto pronti ad affrontare le incombenze quotidiane, altri rimanevano a poltrire sotto le coperte. E al pomeriggio, quando si doveva rassettare e rigovernare, c’era chi si schiacciava un pisolino e chi si affaccendava premuroso. Così per qualcuno il tempo passava in un baleno e per altri non passava mai; qualcuno invecchiava a vista d’occhio e altri rimanevano bambini.
Dopo un po’ il Padreterno dovette ammettere che il sistema era difettoso: c’erano figli più vecchi dei padri e fratelli distanti secoli. Ma il Padreterno non se la prese: sapeva che quando si fa una cosa la prima volta c’è sempre qualche piccolo guaio da riparare. Dopo averci pensato su, decise che il tempo sarebbe passato uguale per tutti, qualunque cosa facessero, che dormissero o pigliassero pesci.
Da allora non serve più chiudersi in un cassetto o in un armadio, o trattenere il fiato, o rimanere completamente immobili. Il tempo passa lo stesso, per conto suo.
C’era una volta una saracinesca dalle mansioni molto speciali. Tutte le altre erano incaricate di tenere la gente fuori. Fuori dal garage, per esempio, quando ci si metteva dentro la macchina e si voleva che non fosse rubata – dico di più: che non vi comparisse nemmeno un piccolo graffio. Oppure fuori dal negozio di salumeria, quando era l’ora di chiusura e ci si preoccupava che, in assenza del proprietario, entrasse un affamato e si mangiasse la mortadella. Così le altre saracinesche erano depresse, perché, ammettiamolo, la loro era una brutta vita: o stavano arrotolate in una scatola stretta stretta, che rendeva claustrofobici, oppure venivano calate facendo un gran baccano per sanzionare la solitudine, l’esclusione, il silenzio.
Invece la saracinesca che c’era una volta – ma, raccontano, solo una volta, il che è davvero un peccato – serviva a tenere qualcuno dentro. Due qualcuni, per la precisione: Renzo e Lucia, che, quando potevano, amavano stare per conto loro e inventarsi delle storie, e anche viverle. Allora andavano in questo locale che forse prima era stato un garage, o un negozio di fabbroferraio, ma che adesso non serviva più a niente (sostenevano gli altri); e tiravano giù la saracinesca, facendo un gran baccano. E in quello spazio limitato, in quel buio pesto, si lanciavano nelle avventure più temerarie, compivano le gesta più audaci, pronunciavano i discorsi più eloquenti. E si trattavano in modo affettuoso, perché gli piaceva tanto stare insieme, e più si avvicinavano più si sentivano insieme.
Quella saracinesca lì, quella che c’era una volta ma purtroppo solo una volta, non era affatto depressa. Anzi, con il lieto chiacchiericcio che l’accompagnava, con le affascinanti storie che sentiva, con il calore che avvertiva dai corpi di Renzo e Lucia (soprattutto quando si avvicinavano il più possibile, per essere più insieme), anche lei si era messa a immaginare cose strabilianti. Pensava, per esempio, che quando la tiravano giù non finisse per terra, intesa come pavimento, ma continuasse a girare per tutta la Terra, intesa come pianeta, e così girando si allungasse a dismisura, e con dimensioni così smisurate potesse giocare a rimpiattino con il Sole e la Luna (intesi rispettivamente come stella e come satellite), e oscurarli e farli ricomparire, e magari causare accecanti bagliori se la loro luce si rifrangeva su un suo spigolo. Eclissi di saracinesca, le chiamava; e c’erano anche traversate oceaniche in cui fungeva da scialuppa di salvataggio per i naufraghi, e balzi nell’aria durante i quali sembrava un tappeto volante.
Insomma, era una bella vita, quella della saracinesca che c’era una volta. Ed è un vero peccato che ci sia stata solo quella volta; che tranne Renzo e Lucia tutti abbiano sempre avuto questa fissazione di tenere la gente fuori. Perché, a pensarci, che male c’è se un affamato si mangia la mortadella?
Una volta non c’era nessuno, ma chi l’avrebbe mai detto? Nessuno, appunto: siccome non c’era nessuno, nessuno diceva niente. Così questa storia che non c’era nessuno era molto strana. Era vera, senz’altro, perché in effetti non c’era nessuno, ma nessuno poteva dirla.
Prima o poi ci fu qualcuno, ma le stranezze non erano finite. Quando qualcuno cominciò a raccontare la storia che una volta non c’era nessuno, gli altri aggrottarono la fronte e sollevarono enormi punti interrogativi. Perché come si faceva a sapere che una volta non c’era nessuno? Quando non c’era nessuno, non c’era nessuno a saperlo, e nel momento in cui ci fu qualcuno non si poteva certo dire che non ci fosse nessuno. Così, ancora una volta, la storia era vera ma nessuno poteva dirla.
Ora tutti dicono che c’è sempre stato qualcuno. Non è vero, ovviamente, perché una volta non c’era nessuno. Ma è tutto quel che si può dire.