Inquietudini e speranze
Il maestrillo gesuita appoggiato alla balaustra di ferro guardava il patio della Clausura pensando a come avrebbe cominciato la sua prima lezione. Comprendeva già il meccanismo di queste apparenti contraddizioni della Compagnia di Gesù, per esempio l’idea di mettere un chimico come lui a insegnare Letteratura. A soli ventisette anni, aveva imparato che ci sarebbero sempre state differenze tra ciò che si vuole o si pensa di volere e ciò che in realtà si riesce poi a realizzare. Un po’ com’era successo al suo sogno di diventare missionario in Giappone, infranto a causa di una lesione cronica che gli aveva colpito il polmone. Ecco perché qualsiasi esperienza la vita avesse deciso di offrire andava messa a buon frutto, e insegnare Letteratura gli sembrava molto più promettente di qualsiasi altra opzione. Sì, perché la Letteratura non può rimanere estranea a chi ama la lettura, e il mondo dei libri si apriva adesso davanti ai suoi occhi nei suoi diversi aspetti.
Non si sarebbe occupato semplicemente di insegnare Letteratura spagnola agli allievi del quarto anno, ma si era fatto coinvolgere anche nel progetto di riapertura dell’immensa e polverosa biblioteca del Collegio, ormai chiusa da tempo. Aveva già preso visione dei lavori realizzati per rimetterla in funzione e valutato quali opere andavano ancora eseguite. Non era questione di giorni, ma di mesi. Un’inattività troppo lunga. Il giovane non vedeva solo quello che andava fatto con i libri acquisiti, ossia selezione, eliminazione e ricollocazione, ma rifletteva anche su come dotare la biblioteca di materiale nuovo, ottenere donazioni, collegarla alle altre biblioteche del resto del mondo, renderla insomma un vero e proprio strumento di studio, sia per gli allievi – che dovevano avere sempre la priorità –, sia per il pubblico in generale, consapevole della ferma volontà della Compagnia di evangelizzare attraverso l’insegnamento.
Le risorse non erano molte, ma come sempre accade in questi casi l’importante era cercare di procurarsele. Il Collegio a cui era stato assegnato era il più antico del paese, vantava una tradizione secolare e buona fama. Era sorto quasi contemporaneamente a Santa Fe, e la città, per quanto non troppo vivace, possedeva una sua cultura e gente che aveva saputo distinguersi. Anche gli allievi andavano spronati a non dormire sugli allori e a scrivere una propria storia, senza diventare semplici conservatori dell’opera altrui.
Sotto di lui, nella fontana del patio, i pesciolini rossi seguivano percorsi erratici. Gli si prospettava una sfida lunga tre anni e non aveva nessuna intenzione di rimanere fermo, non ci era mai riuscito, perché il movimento era da sempre il suo stato abituale.
Ritorno a scuola
I due adolescenti seduti su una panchina nella Plaza de Mayo di Santa Fe attendevano l’apertura del portone del Collegio dell’Immacolata. Quel giorno ricominciavano ufficialmente le lezioni, ma loro sapevano bene che non avrebbero quasi aperto libro. Davanti alla scuola era tutto un gran chiacchierare, in quella mattina di marzo del 1964. Alcuni allievi non si vedevano dall’anno prima e si tornava a parlare con una certa commozione dell’omicidio di Kennedy, ma la tragedia si diluiva mescolandosi ai commenti sul campionato di calcio e le vacanze appena terminate.
L’autunno australe non era ancora arrivato, le foglie dei frassini erano verdi e l’aria del mattino fresca. Ma il caldo non avrebbe tardato a farsi sentire, soprattutto quel giorno d’inizio anno, in cui bisognava indossare l’abito blu, con cravatta coordinata, camicia bianca e scarpe nere.
«Ciao, Testone, com’è andata?»
Ecco come si apriva la conversazione tra i due adolescenti insonnoliti di fronte alla scuola.
«Bene, Smilzo, mi hanno rimandato in sette materie e le ho superate tutte e sette.» Erano seduti entrambi con i gomiti sulle ginocchia e il viso tra le mani. Quella «giovinezza piena di aurore» cantata nell’inno del collegio non si adattava per niente a chi aveva perduto l’abitudine di svegliarsi presto durante le vacanze ormai finite.
«Ti hanno rimandato in sette materie e le hai superate tutte? E quanto tempo ci hai messo a prepararle?»
«Due settimane. Non ho vissuto per due settimane. Non sono mai uscito di casa, ho bevuto litri di caffè, ho studiato anche di notte. Be’, alla domenica mia madre mi spediva a messa, ma per il resto i giorni erano tutti uguali: bevevo caffè di notte e dormivo di mattina. Andavo a messa prestissimo, così non incontravo nessuno, soltanto suore e vecchiette...»
«Be’, sei stato davvero bravo...»
«Pare di no. Mi hanno detto che non sono un buon esempio. Dopo ogni esame mi è toccato sorbirmi la solita predica... Sempre la stessa storia: se mi decidessi a studiare, non solo non verrei rimandato, ma prenderei persino dei bei voti.»
«Mi sa che non hanno tutti i torti...»
Il Testone non lo ascoltò neppure e riprese a parlare:
«Io ho studiato, e poi ho chiesto alla Vergine di farmi promuovere. L’ho fatto per ogni materia. In più, per ogni materia le ho acceso una candela... Anche mia madre le ha acceso delle candele... I miei esami sembrano un grande incendio...»
Marcelo lo Smilzo scoppiò a ridere e disse:
«Già, mi sa che a ogni esame che dai inizia a suonare l’allarme dei pompieri...»
L’altro sorrise senza commentare e proseguì:
«Sono rimasto sempre qui, non sono uscito da Santa Fe... Con i miei è sempre così, un regime quasi di polizia, non si può lasciare la città. Se ti rimandano, non si va in vacanza. Ma nel complesso non è andata poi così male. Spiaggia e feste. E tu come te la sei passata? Com’è andata con Liliana? La tipa che ti moriva dietro...»
«A quanto pare, ha trovato un altro posto dove andare a morire, un altro letto di morte... Tra le braccia di un ciccione che conosceva appena ma ha una moto di alta cilindrata.»
«Ah, la piccola è un po’ come la Fenice, che muore di continuo e torna a rinascere...»
«Sì, più o meno,» annuì «chiede di continuo l’estrema unzione...»
«Meglio non parlare di morte, Smilzo.»
Marcelo lo guardò incuriosito.
«Cos’è successo?»
«È morto Schumacher, il nostro compagno.»
«Chi?»
«Schumacher, il convittore, quello dell’altro corso... Roberto Schumacher.»
«Non è possibile... Com’è successo? Di cosa è morto?»
«Si è schiantato con la macchina. Me l’ha raccontato padre Yad quando è venuto a vedere i voti dei miei esami. Sono rimasto senza parole. Mi ha detto che quel giorno si celebravano i funerali, se volevo ero invitato. Io non ci sono andato, ma non so se ho fatto bene. Mi sa che ho sbagliato, non lo so...»
All’improvviso era come se tra di loro si fosse seduto qualcun altro, un invitato indesiderato, misterioso, molto temuto. L’incidente del compagno era la triste dimostrazione che non esisteva ambito estraneo alla morte, neppure quella cittadella gesuita in cui trascorrevano sette giorni su sette.
«Non ci posso credere. Avrò scambiato con lui sì e no due parole, ma me lo ricordo bene.»
«Neanche io lo conoscevo molto. Avremo parlato al massimo due o tre volte. Non si può morire così... alla nostra età, poi! Mi sembra un cattivo esempio.»
«Non dire boiate, Testone, non è il momento di fare dell’ironia. Come se uno volesse morire! Io non riesco a pensare che un giorno ci lasceremo la pelle... È come se a noi non potesse succedere...»
«Invece è proprio così: viene sempre qualcuno a farci scoppiare il palloncino. Dai, meglio se parliamo d’altro.»
Ma ormai era difficile tornare a chiacchierare come se niente fosse. Se c’era una cosa dura da affrontare, era la morte.
«Va bene, come vuoi. Hai saputo qualche novità di scuola, tu che sei rimasto in città?»
«L’unica cosa che so è che il libro di Letteratura è un malloppone alto così. Storia della Letteratura spagnola, di Arturo Berenguer Carisomo. Mi sa che la Letteratura spagnola ci schiaccerà come tante formiche. Ci sono milioni di pagine scritte a caratteri minuscoli. Non promette niente di buono.»
Il tono era decisamente scoraggiante.
«E chi sarà il professore?»
«Ah... uno nuovo. Un prete. Be’, in realtà un maestrillo. Un certo Bergoglio, Jorge Bergoglio. Non so altro. Ne ho sentito parlare bene, ma questo non significa niente, perché chi vuoi che si metta a parlar male di un professore...»
«Sì, figurati chi ti viene a dire: “Il nuovo professore è insopportabile, è una palla...”. I maestrillos arrivano sempre avvolti nella carta regalo perché sono dei perfetti sconosciuti. Vorrà dire che toccherà a noi scoprire cosa c’è dentro il pacchetto... Sai com’è, sono dei ragazzini...» tagliò corto Marcelo.
«Come, ragazzini?»
«Sì, hanno dieci, dodici, al massimo quindici anni più di noi... Non ti pare?»
«Quindici anni è tutta la mia vita... perciò se ha quindici anni più di me ha una vita intera di vantaggio, caro Smilzo...»
«Come vuoi, ma secondo Gardel “Vent’anni... non son niente”» canticchiò Marcelo.
«Come ha detto Valero il gallego, “Voi argentini siete contaminati di tango, malati di tango...”» ribatté il Testone, ed entrambi scoppiarono a ridere pensando al gesuita valenziano che, come ogni spagnolo in Argentina, si era trasformato in «gallego», e quell’anno sarebbe stato il loro prefetto della divisione.
Scoppiarono di nuovo a ridere, perché l’allegria risponde facilmente al richiamo dei giovani.
«Dai, è ora di entrare...» annunciò Marcelo.
Il portone si stava aprendo e gli alunni si radunarono davanti all’edificio. Alla comparsa del rettore, tutti si sistemarono d’istinto le cravatte e qualcuno cercò inutilmente di lucidarsi le scarpe contro i pantaloni. Il rettore avrebbe passato in rassegna tutti quanti, uno per uno. Era una cosa che temevano e allo stesso tempo ammiravano di quel sacerdote che li chiamava per nome e cognome, singolarmente, tutti e settecentocinquanta.
Nel collegio le attività avevano sempre un tocco di solennità. Secondo alcuni, era una vecchia abitudine militare della Compagnia di Gesù, e nonostante la quotidiana routine lavorativa, tutti si attenevano a un rigido protocollo in cui i gesti avevano l’importanza di veri e propri riti.
Quel giorno, come ogni inizio d’anno, gli alunni sarebbero entrati nel collegio, avrebbero risposto all’appello della propria divisione, poi si sarebbero radunati nel Patio degli Aranci per dare inizio alla cerimonia: avrebbero issato la bandiera a suon di musica, due tamburi e due trombe, ascoltato le parole del rettore, quindi la messa e qualche lezione tanto per arrivare all’ora dell’uscita. I giorni seguenti sarebbero stati ben diversi e l’attività – metodica e ordinata – sarebbe ripresa a ritmo normale. Per il momento bisognava aspettare, erano arrivati presto per cominciare bene.
Una scuola fuori dal comune
Al Collegio dell’Immacolata, il programma ufficiale poteva diventare un problema per chi non prendeva la sufficienza in una materia e veniva rimandato a dicembre o a marzo. Non è che non si potesse consultare o che non venisse rispettato, ma i professori avevano un gran potere decisionale e potevano ampliare o approfondire certi argomenti o introdurne altri a proprio piacimento, oppure saltarli, magari perché già trattati in corsi precedenti. Jorge Bergoglio non fece eccezione, e in materia di Letteratura e Psicologia propose ai suoi allievi percorsi diversi, in genere più lunghi e impervi, ma sempre più ricchi di insegnamenti rispetto a quelli presentati dai programmi ufficiali.
Tra gli allievi c’era chi non apprezzava tale modalità gesuitica e avrebbe preferito che tutte le materie rispettassero i programmi ufficiali. Qualcuno ebbe persino l’ardire di manifestarlo al prefetto degli Studi o al rettore in persona. La risposta fu semplice e categorica: «Lei è un allievo dell’Immacolata, che è una scuola fuori dal comune; se desidera un’istruzione comune, cerchi una scuola comune, e noi saremo ben felici di aiutarla, perché vorrà dire che ci eravamo sbagliati riguardo al suo valore e alle sue capacità».
Dopodiché, solitamente la discussione si chiudeva, perché l’Immacolata non era affatto una scuola comune. Mentre in tutte le altre scuole le lezioni si svolgevano dal lunedì al venerdì, al mattino o al pomeriggio a seconda dello statuto, all’Immacolata le lezioni si tenevano dal lunedì al sabato, sia al mattino sia al pomeriggio. In più esistevano tre categorie di allievi: convittori, semiconvittori ed esterni. I primi vivevano a scuola a tempo pieno; i semiconvittori entravano al mattino presto, pranzavano a scuola e tornavano a casa al pomeriggio tardi; gli esterni entravano anche loro al mattino presto, uscivano a mezzogiorno e tornavano due ore dopo per seguire le lezioni del pomeriggio.
Il Collegio, praticamente in centro, occupava quel luogo privilegiato da sempre. Di fronte alla piazza principale, alla destra del Cabildo, col tempo diventato Casa di governo della Provincia, davanti al Palazzo di Giustizia, nei pressi della cattedrale.
Una città abituata a lunghe sieste, in cui d’estate un sole caparbio inceneriva il suolo trasformando l’asfalto in una massa gelatinosa, mentre d’inverno l’umidità feceva insinuare il freddo fin nei luoghi più inaspettati.
Questo era il collegio in cui il maestrillo avrebbe dovuto trascorrere i successivi due o tre anni per completare il suo periodo di docenza. Per certi versi, era un’assoluta novità rispetto a quelli che erano stati i suoi studi primari e secondari, in strutture statali e dunque non confessionali. Forse seguendo un’ottica gesuitica vedeva già quale fosse il piano della Compagnia di Gesù nell’istruzione dei suoi allievi. Questo collegio era il più antico del paese, aveva accompagnato la città sin dagli inizi e perfino quando l’avevano trasferita.* Per quanto avesse ospitato sempre cognomi patrizi – quella sorta di aristocrazia di emigranti, conquistatori, colonizzatori, insomma «figli di nessuno» che si sentivano «figli di qualcuno» –, aveva riservato sempre un posto alle persone meno abbienti, e in origine anche agli indio che arrivavano in questo nuovo insediamento che gli abitanti chiamavano Santa Fe de la Vera Cruz.
Il collegio fiorì lasciando la sua impronta sugli allievi, che immancabilmente si differenziavano da tutti gli altri.
Le conseguenze della decisione di Carlo III di Spagna di espellere i gesuiti furono complesse: l’ordine non riguardò solo l’Europa, bensì la Chiesa intera, rivelandosi letale per l’America latina, per i suoi futuri dirigenti e per l’élite intellettuale in senso più ampio.
L’istruzione si ritrovò mutilata, soprattutto per le classi più...