D'Annunzio
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D'Annunzio

Il poeta armato

,
  1. 348 pagine
  2. Italian
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D'Annunzio

Il poeta armato

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Il poeta delle Laudi, il romanziere del Piacere e il drammaturgo della Figlia di Iorio; l'audace aviatore della Grande Guerra e il focoso amante di Eleonora Duse... sono questi i volti più conosciuti di Gabriele d'Annunzio, indiscusso protagonista delle cronache letterarie e mondane degli anni a cavallo tra Otto e Novecento, sempre pronto a legare letteratura e realtà, nutrendo la sua arte delle suggestioni di una vita avventurosa e improntando la sua esistenza a modelli "alti". Ma il Vate è stato anche il politico che, sul modello dei principi rinascimentali, ha governato per 492 giorni la città di Fiume. Antonio Spinosa nella sua esemplare biografia racconta tutti gli aspetti di questa avventura non sufficientemente nota. Attingendo alla vasta mole di documenti conservati al Vittoriale, ricostruisce la straordinaria vicenda di d'Annunzio che, sepolto tra i cinquemila oggetti della sua casa-museo, pagò con diciassette anni di oblio i sedici mesi di gloria culminati nella conquista della città istriana.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852049262
Argomento
Storia

Parte seconda

LA MARCIA SOGNATA

Il no del Professore

I

D’Annunzio aveva raggiunto l’Hôtel Europa, dove, stremato, si era gettato su un letto cadendo in un sonno profondo. Nel pomeriggio fu svegliato da Keller che gli disse a bruciapelo: «Comandante, il Consiglio nazionale Vi ha nominato governatore della città!». «Io governatore?» rispose il poeta un po’ sorpreso. Questa almeno era l’impressione dei suoi più vicini collaboratori, i quali erano convinti che d’Annunzio, fino a quel momento, non si fosse proposto che di entrare nella città per presidiarla e garantirne l’annessione. In realtà il poeta, uscito dalla prostrazione dovuta alla grande debolezza che lo dominava, si mise al tavolino e, come ispirato, mentre le campane chiamavano a raccolta il popolo, tracciò alcune righe su un foglio di carta. Erano gli appunti a matita per il discorso che avrebbe pronunciato di lì a poco dal balcone del Palazzo del Governo. Il palazzo era massiccio e pretenzioso con la facciata che lo faceva somigliare a uno stabilimento per le cure idroterapiche. Una scala di marmo a due rampe conduceva a un grande atrio coperto da una tettoia a vetri.
Un poeta era diventato governatore, e già commentavano a Fiume come d’Annunzio avesse smentito Platone che intendeva scacciare i poeti dalla Repubblica pur cospargendoli di profumi divini. Ricordavano che una chiromante un giorno aveva letto nella sua mano il destino di conquistatore. In questo clima di esaltazione, al suo riapparire nelle strade della città, nel tragitto fra l’Hôtel Europa e la sede del governo fiumano, si ripeterono le manifestazioni di giubilo. Pallido in volto, sofferente e molto stanco si appoggiava al braccio del pur vecchio presidente Grossich. Riprese vigore sul balcone. Era la prima volta che parlava alla Città di Vita e le annunciava l’unilaterale annessione all’Italia. La piazza era gremita. Alle finestre, sulle terrazze, sui tetti, ovunque c’erano grappoli umani in preda all’emozione. Lo spettacolo lo commuoveva, e tacque per alcuni secondi. Poi, d’impeto, esclamò: «Italiani di Fiume, eccomi. Non vorrei pronunziare oggi altra parola. Ecco l’uomo; che ha tutto abbandonato di sé e tutto ha dimenticato di sé per essere libero e nuovo al servigio della Causa bella. Eccomi. Sono venuto per donarmi intiero. E non domando se non di ottenere il diritto di cittadinanza nella Città di Vita. Nel mondo folle e vile Fiume è oggi il segno della libertà».
Disse anche, dopo essersi definito «fiumanissimo», di parlare non soltanto ai fiumani, ma a tutti i dalmati. Rammentò come la sua gente d’Abruzzo tante volte fosse entrata per traffico nel porto della città e come fosse vivo lo spirito di Bùccari. Ripeté «Eccomi» per poi aggiungere: «Rimarrò finché avrò fiato in bocca. Dritto in piedi rimarrò, o supino in terra». Quindi con emozione mostrò la bandiera donatagli dalla «Venturina» e che era servita da lenzuolo mortuario per l’eroe Randaccio. L’aveva abbrunata sulla ringhiera del Campidoglio, promettendo di osservare il lutto fino al giorno della liberazione della città contesa, e ora poteva dire: «Italiani di Fiume, spiego il grande Segno. Vi mostro questo sudario del sacrificio, questo indizio fatale del compimento».
Erano state ammainate le bandiere di Francia, Inghilterra e America, ma il poeta volle egualmente richiamarsi ad alcuni grandi spiriti di quelle nazioni, Victor Hugo, Milton, Lincoln, Walt Whitman. Poi si rivolse direttamente alla popolazione che gremiva la piazza: «Confermate voi innanzi alla bandiera del Timavo il vostro voto di annessione del 30 ottobre?». «Sì, sì» fu la risposta della folla in delirio. «Dopo questo atto di rinnovata volontà – incalzò il Comandante – sotto il cielo aperto, in vista dell’Adriatico, io volontario, io combattente di tutte le armi, fante, marinaio, aviatore, io ferito e mutilato di guerra credo di interpretare l’ansia profonda di tutta la mia nazione vera dichiarando oggi restituita per sempre la città di Fiume all’Italia madre.» La folla gridava: «Voi siete il nostro Duce!». Per tutta la notte i fiumani più entusiasti non chiusero occhio e vagarono urlanti per la città. Due giovani legionari, raggiunta la cima della Torre civica, mutilarono la grande aquila bicipite di ghisa che la sovrastava. Come forsennati si diedero a segare una delle due teste, quella di sinistra, per dare all’aquila asburgica una sembianza di aquila romana. Odiavano «la schifiltà dell’Aquila a due teste», come il poeta aveva scritto nella Canzone dei Dardanelli, di quell’aquila «che rivomisce, come l’avvoltoio, / le carni dei cadaveri indigeste».
Subito dopo il suo primo discorso, che fu chiamato La prima voce dell’arengo, ebbe un colloquio col generale Pittaluga, il quale manteneva il comando militare di Fiume in attesa di ordini dal governo. Gli ordini non arrivavano. All’alba del mattino successivo d’Annunzio chiese al generale di cedergli il comando della città, dichiarandosi risoluto a strapparglielo. Pittaluga pensò bene che a quel punto non gli rimanesse da fare altro che lasciare la zona. Così partirono sollecitamente anche i militari inglesi e americani, seguiti, nel giro di poco tempo, dai francesi e dagli jugoslavi.
In piena notte l’agenzia giornalistica Stefani, aveva diffuso le prime notizie ufficiose sull’occupazione di Fiume. Specificava che «alcuni reparti di granatieri e nuclei di arditi con mitragliatrici e autoblindate», partiti da Ronchi, erano arrivati a Fiume a mezzogiorno. Laconicamente proseguiva: «Era con loro Gabriele d’Annunzio. Da Fiume non è segnalato alcun disordine». E il governo? «Il governo – informava l’agenzia – ha dato le più energiche disposizioni perché il movimento venga subito arrestato e perché siano ricercate le responsabilità di un atto così inconsiderato e dannoso.»
Il governo a Roma sapeva o non sapeva ciò che si stava preparando? Era o no segretamente connivente con i capi di quell’azione di forza? Questi erano gli interrogativi che serpeggiavano nel paese e perfino fra gli alleati. Nel pomeriggio del 12 settembre Nitti, mentre alla Camera dei deputati ascoltava «in panciolle» un oratore, apprese dal sottosegretario all’Interno Giuseppe Grassi la notizia dell’ingresso di d’Annunzio in Fiume. D’un lampo la notizia fu sulle labbra di tutti i deputati che si affollavano attorno al banco del governo per chiedere a Nitti i particolari dell’impresa. Ma Nitti ne sapeva quanto loro e appariva anzi il più disorientato. I deputati affannosamente gli chiedevano come mai il governo si fosse lasciato sorprendere così puerilmente. Eppure tutti sospettavano che il poeta stesse tramando un colpo di mano nell’Adriatico. Nitti chiamò da parte il ministro della Guerra, il generale Albricci. Era con lui stizzito. Alcuni parlamentari udirono il ministro rispondergli con veemenza: «Ma io non ho la polizia. La polizia ce l’ha Lei!». La montagna dell’ira nittiana non partorì che un topolino, l’esonero del prefetto di Venezia dalle sue funzioni.
Il sottosegretario Grassi aveva letto la notizia sul «Giornale d’Italia». Gli strilloni di quel giornale, eruttati dal portone di Palazzo Sciarra, avevano invaso il Corso, piazza Colonna, piazza Montecitorio, urlando come ossessi i nomi di d’Annunzio e di Fiume. Ai romani era parso che, con le loro rauche voci da indemoniati, stessero annunciando la fine del mondo. Il fatto che Grassi avesse appreso la notizia da un giornale stava a significare come nessuna comunicazione ufficiale fosse fino a quel momento pervenuta a Palazzo Braschi o, almeno, non fosse stata consegnata a Nitti. Il generale Pittaluga aveva infatti telegrafato al presidente del Consiglio alle ore 13 in punto. Il telegramma diceva: «Colonna granatieri arditi con mitragliatrici autoblindate guidata da d’Annunzio alle ore 11.45 riusciva travolgere ogni resistenza e giungeva a Fiume Stop L’ordine si va ristabilendo e io continuo tenere comando». Telegrafava anche il generale Di Robilant il quale, sospettando come altri un’intesa sotterranea, così si esprimeva: «Avvenimenti Fiume sotto guida d’Annunzio prendono aspetto grave e tale da compromettere nostra situazione internazionale Stop Prego dirmi se Governo ne è edotto e segretamente li appoggia in caso contrario chiedo mezzi per agire con massima energia».
È probabile che Nitti, conosciuta la notizia dal suo sottosegretario il quale come lui era ancora privo di comunicazioni ufficiali, abbia chiesto spiegazioni al ministero, e solo allora sia stato in grado di inviare ordini al generale Di Robilant. Erano già le sette del pomeriggio quando poté trasmettergli il primo telegramma: «Giunge notizia che Gabriele d’Annunzio è partito da Ronchi a capo di mille granatieri et di volontari fiumani Stop Ella sa quale è il Suo preciso dovere in queste ore Stop Ma io non so persuadermi gravissimo fatto come s’è potuto avverare Stop Le raccomando di provvedere con il più estremo rigore Stop L’Italia non deve essere tradita da chi ha il dovere di difenderla». Poi inviò ad Augusto Ciuffelli, Commissario generale civile per la Venezia Giulia, un dispaccio assai risentito: «Come mai è potuto avvenire che del tentativo di d’Annunzio per Fiume niuno abbia saputo nulla? Come è potuto accadere che vi abbiano, se le notizie sono vere, partecipato dei granatieri? Come è potuto avvenire che la notizia sia giunta al “Giornale d’Italia” prima che al Governo?».
Per tutto il pomeriggio del giorno 12, Nitti rifiutò di fare dichiarazioni in aula alla Camera, e le rinviò al pomeriggio del giorno successivo. Sul suo tavolo era arrivata per prima un’interrogazione dell’onorevole Marangoni: «Al Presidente del Consiglio per sapere che cosa c’è di vero nella notizia giornalistica di una marcia su Fiume di volontari italiani».
A Nitti non era naturalmente sfuggita la preparazione dell’impresa fiumana, se non altro perché i congiurati si muovevano piuttosto scopertamente e irresponsabilmente. C’erano inoltre i discorsi infuocati di d’Annunzio a rendere chiari propositi eversivi. Ma egli non seguiva in maniera diretta lo sviluppo di quei fatti, convinto, forse ingenuamente, che facessero buona guardia Diaz e Badoglio, capo e sottocapo di Stato maggiore dell’Esercito. Li riteneva in grado di controllare, nonostante i sommovimenti sociali, sia il processo di smobilitazione militare sia eventuali tentativi di sedizione. Era tranquillo, come era tranquillo il Comando supremo il quale a sua volta credeva che mai nessun soldato sarebbe venuto meno ai doveri della disciplina militare. A loro avviso la situazione era sotto controllo, e difatti proprio Nitti aveva inviato due telegrammi rassicuranti al ministro degli Esteri, Tittoni, che si trovava a Parigi. Il primo, in data 27 agosto, diceva: «Ho fatto arrestare tutti i volontari diretti a Fiume ma movimento non ha alcuna importanza. Tutte misure precauzionali anche per la stampa sono state adottate. Ma il paese ha ormai visione sicura della realtà». Il secondo era ancor più confortante. Recava la data del 10 settembre, quando mancavano solo due giorni alla marcia di Ronchi e tutti sapevano della spola che i congiurati facevano tra Ronchi, Fiume e la «Casetta Rossa» dannunziana a Venezia: «Ministri Guerra e Marina hanno disposto più assoluta e completa esecuzione degli accordi [internazionali] per Fiume. Di ciò può informare Clémenceau».
In tutto questo c’era più miopia o incompetenza? O c’era il segnale di quanto fosse profonda la crisi delle istituzioni liberali scaturite dal Risorgimento? Il governo e il Comando supremo forse non avevano colto la sostanza della questione. Non avevano capito che dietro il colpo di mano su Fiume c’era un ben più vasto tentativo di colpo di Stato, un complotto sovversivo antiliberale, antidemocratico. La marcia su Fiume doveva essere la prova generale d’una marcia su Roma. Lo diceva lo stesso Giuriati: «Il gesto compiuto a Fiume deve aver termine a Roma». Dietro le quinte, alle spalle di d’Annunzio, c’era un grande burattinaio, Oscar Sinigaglia, il cosiddetto «impresario del fiumanesimo», che, con il colpo d’ariete sulla città contesa, intendeva far crollare il governo e quindi l’intero sistema istituzionale italiano basato sulla Costituzione, sul Parlamento e sullo Stato di diritto.

II

La notizia della presa di Fiume fu per Nitti come un pugno nello stomaco sferrato a tradimento. Non se l’aspettava davvero, ed ebbe perciò una reazione furente. Il socialista riformista Filippo Turati ne penetrò il dramma. Diceva: «Nitti sapeva che quelle cose si preparavano, ne aveva avvisati i capi militari, gli avevano promesso che nulla sarebbe avvenuto. Poi l’han “fatto fesso” così». Non si poteva assolutamente pensare che Nitti fosse in misteriosa combutta con i fiumani, e del resto egli aveva chiaramente detto ai comandanti dei Corpi d’armata, con l’occhio rivolto alla rovente linea d’armistizio: «Un conflitto con gli alleati ci porterebbe alla rovina e al disonore. Bisogna in questo momento mantenere la più ferrea disciplina. Ogni tentativo sedizioso deve essere immediatamente soppresso. Si serve la patria solo con l’obbedienza».
Lo stesso Nitti riconoscerà poi di aver sbagliato a non prendere sul serio le vociferazioni su Fiume; non credeva che elementi militari avrebbero partecipato a un colpo di mano. Aveva fiducia in Diaz, in Badoglio, in Caviglia e non si rese conto che il «sottosuolo era minato», che il «pericolo era proprio nell’esercito». Erano ancora sotto le armi più di centodiciassettemila ufficiali. Egli capiva che bisognava congedarne almeno centomila, di cui un migliaio era costituito da generali. Ma tutti protestavano non volendo ridursi a pensionati e con pochi mezzi. Un generale, Maggiotto, ch’era stato suo amico, lo minacciò dicendogli che, non potendo vivere con una modesta pensione, avrebbe dato scandalo: avrebbe acquistato una cassetta da lustrascarpe e nel bel mezzo d’una piazza si sarebbe messo a servire la gente, in alta uniforme da generale e decorazioni. Un’idea alla Gioacchino Murat.
Nell’aula tumultuante di Montecitorio, Nitti non poté non pronunciare parole veementi, «addirittura feroci», come disse Turati; parole che, secondo i primi propositi, avrebbero dovuto preludere a forti contromisure repressive. Bisognava indicare apertamente al Paese la natura sovversiva della «folle» azione dannunziana e rassicurare gli alleati sulla completa estraneità del governo. Cose che Nitti fece con fermezza. Espresse anzitutto un «profondo senso di amarezza, di dolore e di umiliazione poiché per la prima volta entrava nell’esercito italiano, sia pure con fini idealistici, la sedizione»; «il soldato che rompe la disciplina è contro la patria». Stigmatizzò il fatto che, nonostante le precauzioni prese nella zona d’armistizio e in luoghi limitrofi, «alcuni militari» avessero «incoraggiato, sorretto, aiutato e tollerato quei dolorosi eventi». E minacciò quindi di applicare l’articolo 138 del Codice militare in base al quale veniva considerato disertore chi entro cinque giorni non si presentava al proprio reparto.
Poi toccò le corde dell’ironia e paragonò l’impresa «a un raid, a qualcosa fra il romantico e il letterario». E infine altre parole severe, insieme a un accorato quanto imprevisto appello alle masse lavoratrici: «Coloro che per sport o per esaltazione, o sia pure per patriottismo, spingono quelle povere anime dei nostri fratelli di Fiume, andando a recitare una parte che non definirò, in questa traversa via, spingono i nostri dolenti fratelli, non alla loro rovina soltanto, ma alla rovina d’Italia. Né dopo di ciò avrei altro da aggiungere se non sentissi il dovere in questo momento di rivolgermi ai lavoratori d’Italia. E spero di aver tanta voce che giunga fino alla loro anima, perché mi aiutino. In questi momenti l’Italia ha bisogno di pace e di unione, e deve volere la pace con ogni sforzo, con ogni volontà. Il popolo non vuole nuove guerre: il popolo col suo contegno fermo e austero impedirà ogni perigliosa avventura. Io mi rivolgo dunque alle masse anonime, agli operai e ai contadini perché la gran voce del popolo venga ammonitrice a tutti e tutti spinga sulla via della rinunzia e del dovere».
A Montecitorio c’era chi già paragonava d’Annunzio a Garibaldi. Ma si levò di scatto Turati per dire: «Si parla di sentimentalismo, di garibaldinismo. C’è una certa differenza fra Giuseppe Garibaldi e Gabriele Rapagnetta. Del resto, i tempi sono mutati. L’America non è lo Stato pontificio. E poi quella era la rivoluzione e questa è la reazione militare». La sua compagna Anna Kuliscioff gli scriveva da Milano sullo stesso tono, indicando i pericoli insiti in quell’avventura: «Il fattaccio di Fiume non è forse tanto temibile per le ragioni dette da Nitti, quanto per le ragioni non dette alla Camera, ed è la minaccia di un pronunziamento militare anche a Roma». Precisava che, scoppiata la «bomba dannunziana», le si era immediatamente affacciato il dubbio che la sedizione militare fiumana avesse a dilagare e arrivare a Roma, spazzando via non solo un ministero, ma tutto «quel poco di regime democratico» che si era salvato dal «ciclone militaresco-bellico»; era perciò assai probabile che nel «risentimento» di Nitti al colpo di mano militare compiuto a Fiume, giocasse un ruolo determinante la previsione che la congiura fiumana fosse l’inizio della congiura militare da estendersi a tutta l’Italia.
Contro il discorso di Nitti prese posizione Mussolini con un articolo che uscì due giorni dopo sul suo giornale. Definì «gesuitico, odioso e inutile» l’appello alle masse lavoratrici, e aggiunse: «La capitale d’Italia è sul Quarnaro, non sul Tevere. Là è il “nostro” Governo, al quale d’ora innanzi obbediremo. Quello di Nitti, l’uomo nefasto, è finito». Ma Nitti rimase al suo posto, il fuoco appiccato a Fiume non si propagò nel resto del Paese, e il colpo di Stato, che l’impresa dannunziana celava, poteva ritenersi fallito. Tuttavia si diffondevano voci allarmistiche e infondate. Alcune di esse provenivano da Ancona e parlavano d’un bombardamento di Fiume a opera di aeroplani jugoslavi.
Già nella mattinata del 13, Nitti aveva nominato Badoglio alla carica di Commissario straordinario militare per la Venezia Giulia, con autorità su tutti i comandi della regione e quindi sullo stesso Di Robilant al quale fu praticamente sottratto il comando dell’VIII Armata. Nitti si rese rapidamente conto che la via migliore da seguire era quella delle trattative alla ricerca di un compromesso non soltanto con d’Annunzio ma anche con le potenze alleate. La presa di Fiume era ormai un fatto compiuto e poteva costituire un nuovo punto di partenza sul piano diplomatico per la sistemazione della zona. Rinunciò quindi alla maniera forte che aveva dato l’impressione di voler adottare nel primo telegramma a Di Robilant sotto il violento shock provocatogli dall’inattesa sedizione. A Di Robilant sarebbe stato difficile imporre moderazione e prudenza, considerata l’asprezza del suo carattere, mentre Badoglio già partiva per Trieste con uno stato d’animo ben diverso. Badoglio vedeva qualche analogia tra l’incarico affidatogli e quello del generale Cialdini che sessant’anni prima aveva dovuto sull’Aspromonte arrestare la marcia di Garibaldi verso Roma. Per un soldato, diceva Badoglio, «è sempre stata una missione difficile e dolorosa agire contro i propri connazionali». Ma, c’era, aggiungeva, una «differenza sostanziale» fra il suo atteggiamento e quello di Cialdini: Cialdini «odiava Garibaldi», mentre egli era legato a d’Annunzio da «profonda amicizia» e da stima tanto che durante la guerra lo aveva chiamato «fante carsico», «corsaro del cielo e del mare Adriatico».
Alla ricerca d’una sollecita via d’uscita, Nitti commise un passo falso inviando a Fiume l’ammiraglio Cagni, un fanatico massone, perché cercasse di convincere d’Annunzio a trattare col governo. Non diede tempo a Cagni di incontrarsi preventivamente con Badoglio e scelse male la persona del messaggero. Difatti Cagni era troppo sensibile al fascino del poeta, che lo aveva cantato nelle Laudi, per non dargli sempre ragione. Lo stesso Nitti considerava Cagni un «irresponsabile», lo chiamava un «reclamista vanitoso», diceva che intorno a lui «si erano inventate leggende eroiche, le quali spesso non erano che azioni deplorevoli». Perciò non si capiva come mai avesse affidato proprio a Cagni una missione così delicata. Il colloquio fra d’Annunzio e l’ammiraglio non diede alcun frutto. Per di più il Comandante, pur rivestendo la missione di Cagni un carattere di sondaggio informale, emise un comunicato in cui sdegnosamente dichiarava di «non riconoscere il governo antiitaliano di Francesco Saverio Nitti» e che di conseguenza rifiutava qualsiasi trattativa.
Appariva comunque chiaro che il governo, pur avendo deciso di non usare la forza per scacciare da Fiume gli occupanti dannunziani, intendeva dimostrare al Paese e agli alleati, soprattutto a Wilson, la propria estraneità dall’impresa. Gli alleati gli facilitarono il compito decidendo di non intervenire, più che consapevoli della delicatezza della situazione in cui l’Italia era venuta a trovarsi con il colpo di testa fiumano.
Era necessario non provocare scontri fratricidi fra i soldati, e al tempo stesso bisognava risparmiare il più possibile gravi sacrifici alla popolazione civile. Si accantonò quindi il proposito, originariamente ventilato da Nitti, di privare la città della luce elettrica e si rinunciò anche al...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. D’annunzio
  3. Il pugnale e la poesia
  4. Parte prima - LA MARCIA IRRESISTIBILE. Le brache di Cagoia
  5. Parte seconda - LA MARCIA SOGNATA. Il no del Professore
  6. Parte terza - LA MARCIA FUNEBRE. Le cannonate di Palamidone
  7. Bibliografia
  8. INSERTO FOTOGRAFICO
  9. Copyright