Per la sessione settimanale il giullare di corte indossava come sempre il vecchio pigiama un tempo color vinaccia e un paio di pantofole di spugna color lavanda, senza calze. Non era il solo detenuto a svolgere in pigiama le sue occupazioni quotidiane, ma nessun altro aveva il coraggio di infilare pantofole di quella tinta. Si chiamava T. Karl e in passato era stato banchiere a Boston.
Pigiama e pantofole sconcertavano assai meno della parrucca. Con la riga al centro, ricadeva in una cascata di boccoli, coprendogli le orecchie e pesandogli sulle spalle. Era grigio chiara, quasi bianca, nello stile di quelle dei magistrati inglesi di secoli addietro. Un amico gliel’aveva trovata in un negozio di costumi teatrali di seconda mano al Village di Manhattan.
T. Karl la indossava con fierezza e, per quanto strano possa apparire, con il tempo la parrucca era stata assimilata nella scenografia. Gli altri detenuti mantenevano comunque le distanze da T. Karl, con o senza parrucca.
Nella mensa della prigione, si fermò dietro al suo traballante tavolino pieghevole, lo batté con un martelletto di plastica che gli serviva da mazzuolo, si schiarì la gola cigolante e in gran pompa annunciò: «Udite, udite, udite. La Corte federale inferiore della Florida del Nord è ora in sessione. In piedi, prego».
Nessuno si mosse, e in ogni caso nessuno diede l’impressione di volersi alzare. Trenta detenuti occupavano scomposti altrettante sedie di plastica. Alcuni di loro guardavano il giullare di corte, altri chiacchieravano come se non esistesse neppure.
T. Karl continuò: «Che tutti coloro che cercano giustizia si facciano avanti e si facciano fottere».
Nessuno rise. Era stato divertente mesi addietro, la prima volta che T. Karl se n’era uscito con quella battuta. Ora era solo un altro elemento scenografico. Si sedette con attenzione assicurandosi che la cascata di riccioli che gli oscillavano sulle spalle fosse bene in mostra, poi aprì il voluminoso libro rilegato in pelle rossa che fungeva da registro ufficiale. T. Karl prendeva il suo incarico con molta serietà.
Dalla cucina entrarono tre uomini. Due avevano le scarpe ai piedi, uno sgranocchiava un salatino. Quello senza scarpe aveva anche le gambe nude fino alle ginocchia, dove arrivava l’orlo della tunica. Erano gambe lunghe e magre, le sue, con la pelle liscia e glabra, e molto abbronzate. Sul polpaccio sinistro aveva un vistoso tatuaggio. L’uomo era californiano.
Tutti e tre indossavano vecchie tuniche ecclesiastiche appartenute al medesimo coro, tutte e tre di color verde chiaro con passamaneria d’oro. Le tuniche arrivavano dallo stesso negozio della parrucca di T. Karl e gli erano state regalate per Natale. Anche per questo, T. Karl conservava il suo posto di cancelliere ufficiale.
Salutati da qualche fischio e lazzo, i giudici in alta uniforme andarono a prendere i loro posti dietro un lungo tavolo pieghevole, vicino ma non troppo a T. Karl. Quello basso e rotondo sedeva al centro. Era Joe Roy Spicer e d’ufficio gli toccava il ruolo di presidente del collegio giudicante. Nella sua vita precedente, Spicer era stato giudice di pace nel Mississippi, regolarmente eletto dalla popolazione della sua piccola contea e spedito in gattabuia quando i federali lo avevano sorpreso a scremare gli incassi delle serate di tombola a uno Shriners Club.
«Comodi, prego» invitò il pubblico. Ma nessuno si era scomodato.
I giudici sistemarono meglio le loro sedie pieghevoli e sprimacciarono le tuniche perché il loro panneggio ricadesse con la dovuta eleganza. Appartato e ignorato dai detenuti, seguiva le operazioni il vicedirettore, affiancato da un agente in divisa. I Confratelli si riunivano una volta la settimana con il beneplacito della direzione. Ascoltavano le lagnanze dei detenuti, componevano dispute e conflitti e, in generale, avevano dato prova di essere un elemento stabilizzante nei rapporti che s’intrecciavano all’interno della popolazione carceraria.
«La sessione è aperta» dichiarò Spicer dando un’occhiata alle cause a ruolo elencate con mano sicura da T. Karl su un semplice foglio di carta.
Alla sua destra sedeva il californiano, il giudice Finn Yarber, sessantenne, dentro da due anni per evasione fiscale, con ancora un quinquennio da scontare. Una vendetta, si ostinava a ripetere a chiunque gli porgesse orecchio. Una crociata di un governatore repubblicano che era riuscito a indurre gli elettori a revocargli il mandato di giudice capo alla Corte suprema della California. Il cavallo di battaglia del governatore erano state l’opposizione del giudice alla pena di morte e l’arbitrarietà con cui rinviava tutte le esecuzioni. Il popolo chiedeva sangue, Yarber non glielo dava, i repubblicani avevano aizzato gli animi e la domanda di revoca aveva avuto un successo schiacciante. Lo avevano sbattuto in mezzo a una strada, dove si era dibattuto per qualche tempo prima che gli ispettori fiscali cominciassero a far domande in giro. Educato a Stanford, incriminato a Sacramento, condannato a San Francisco, scontava ora la sua pena in una prigione federale della Florida.
A due anni dalla condanna non l’aveva ancora mandata giù. Ancora era convinto della propria innocenza, ancora sognava di sbaragliare i suoi nemici. Ma i sogni si andavano annebbiando. Finn trascorreva gran parte del suo tempo a correre da solo sulla pista di jogging dove cuoceva nel sole sognando un’altra vita.
«Il primo caso è Schneiter contro Magruder» annunciò Spicer come se stesse dando l’avvio a un importante processo su una presunta violazione delle leggi antimonopolistiche.
«Schneiter non è presente» riferì Beech.
«Dov’è?»
«In infermeria. Di nuovo i calcoli. Arrivo da lì adesso.»
Hatlee Beech era il terzo giudice del collegio. Passava molte ore in infermeria per emorroidi, cefalee o ingrossamento delle ghiandole. Beech, cinquantaseienne, era il più giovane dei tre e, visti i nove anni ancora da scontare, era convinto che sarebbe morto in prigione. Era stato giudice federale nel Texas orientale, un conservatore caparbio che conosceva interi brani delle Sacre Scritture e a cui piaceva citarli durante i processi. Aveva avuto ambizioni politiche, una bella famiglia, soldi dagli investimenti nel settore petrolifero della famiglia della moglie. Aveva anche l’abitudine di alzare il gomito, tendenza che era riuscito a nascondere fino al giorno in cui aveva investito due gitanti a Yellowstone. Li aveva uccisi entrambi. L’automobile che guidava era di proprietà di una signorina alla quale non era sposato. E la signorina era stata ritrovata nuda sul sedile anteriore, troppo ubriaca per poter reggersi sulle gambe.
L’avevano sbattuto dentro per dodici anni.
Joe Roy Spicer, Finn Yarber, Hatlee Beech: la Corte inferiore della Florida del Nord, meglio conosciuta come la Corte dei Confratelli, a Trumble, istituto federale di minima sicurezza senza recinti, senza torrette, senza filo spinato. Se ti capita di dover scontare una pena detentiva, fallo in un penitenziario federale e fallo in un posto come Trumble.
«Dobbiamo condannarlo in contumacia?» chiese Spicer a Beech.
«No, rinviamolo alla settimana prossima.»
«Va bene. Non credo che si allontanerà.»
«Mi oppongo al rinvio» fece sapere Magruder dal pubblico.
«Pazienza» rispose Spicer. «Il caso è rinviato alla settimana prossima.»
Magruder si alzò. «È la terza volta che viene rinviato. Io sono il querelante. Sono stato io a citarlo in giudizio. Ogni volta che tocca a noi, va a nascondersi in infermeria.»
«Per che cosa bisticciate?» volle sapere Spicer.
«Per diciassette dollari e due riviste» spiegò T. Karl.
«Tutta questa grana, eh?» commentò Spicer. A Trumble, per diciassette dollari, si andava immancabilmente in causa.
Finn Yarber si stava già annoiando. Con una mano si accarezzò l’incolta barba brizzolata mentre con l’altra strofinava le lunghe unghie sul tavolo. Poi premette le dita dei piedi sul pavimento facendole scricchiolare rumorosamente in un efficace piccolo esercizio che metteva a dura prova i nervi. Nella sua altra vita, quando aveva un titolo – giudice capo della Corte suprema della California – spesso teneva udienze con un paio di zoccoli di pelle ai piedi, senza calze, in maniera da poter esercitare le dita durante le noiose esposizioni orali. «Rinviamo» disse.
«Giustizia rimandata è giustizia negata» sentenziò Magruder.
«Originale» osservò Beech. «Un’altra settimana ancora, poi lo condanneremo in contumacia.»
«Così delibera questa corte» dichiarò Spicer in tono conclusivo. T. Karl prese nota sul registro. Magruder si risedette sbuffando. Aveva inoltrato la sua querela alla Corte inferiore consegnando a T. Karl un sunto di una pagina con le accuse contro Schneiter. Una sola pagina. I Confratelli erano infastiditi dalle scartoffie. Una sola pagina e si aveva diritto al proprio momento di gloria in aula. Schneiter aveva replicato con sei pagine di invettive, che T. Karl aveva sommariamente cassato.
La procedura era ridotta all’osso. Istanze brevi. Nessuna presentazione di prove. Giustizia impartita velocemente. Le decisioni si prendevano seduta stante e tutte erano vincolanti se entrambe le parti riconoscevano la circoscrizione del tribunale. Niente appelli, perché non c’era una corte a cui presentarli. Ai testimoni non veniva richiesto di giurare che avrebbero detto la verità. La menzogna era data per scontata. Del resto si era in un carcere.
«Adesso che cosa c’è?» chiese Spicer.
T. Karl esitò. «Il caso Whiz» rispose poi.
Per un momento calò un silenzio improvviso, poi le seggiole di plastica della mensa partirono tutte insieme in una rumorosa avanzata. I detenuti strusciarono e strisciarono le gambe delle sedie finché non ricevettero l’altolà di T. Karl. «Basta così!» tuonò il cancelliere quando la prima fila era a non più di sette metri dal tavolo dei giudici.
«Si mantenga il senso del decoro!» ammonì.
Il caso Whiz era una spina che tormentava il fianco di Trumble da mesi. Whiz era un giovane operatore senza scrupoli di Wall Street che aveva fatto fessi alcuni dei suoi ricchi clienti. Circolava voce, ormai una leggenda, che avesse nascosto all’estero i quattro milioni di dollari che aveva fatto sparire e che li amministrasse dall’interno del carcere. Gli restavano da scontare sei anni, e quando fosse uscito ne avrebbe avuti quaranta. Tutti erano convinti che se ne stesse tranquillo a scontare la sua pena in attesa del giorno glorioso in cui sarebbe tornato in libertà, ancora giovane, per salire su un jet privato e trasferirsi sulle candide spiagge dove lo attendeva il malloppo.
Al penitenziario la leggenda che accompagnava il suo nome si era ulteriormente consolidata anche perché Whiz conduceva una vita appartata e trascorreva ogni giorno lunghe ore a studiare rendiconti del mercato azionario e a leggere astruse pubblicazioni di economia. Persino il direttore aveva cercato di carpirgli qualche buona dritta.
Un ex avvocato di nome Rook era riuscito ad avvicinarlo e a strappargli qualche scampolo di consiglio per il suo circolo di investitori che si riuniva una volta alla settimana nella cappella della prigione. Per conto del suo circolo, Rook aveva ora querelato Whiz per frode.
L’ex avvocato prese posto sulla sedia dei testimoni e cominciò il suo racconto. I preamboli procedurali erano stati tutti stralciati in maniera che si potesse giungere al più presto alla verità, in qualunque forma la si volesse presentare.
«Così vado da Whiz e gli chiedo che cosa pensa di ValueNow, una nuova società online di cui avevo letto su “Forbes”» spiegò Rook. «Stava per farsi quotare in Borsa e per me le premesse erano buone. Whiz mi promise che avrebbe controllato....