Gli assalti della Prima guerra mondiale
Allo scoppio della guerra mondiale, nell’estate 1914, i volontari che domandano di entrare nella Legione si moltiplicano: sono studenti e professori universitari, artisti, commercianti, artigiani, liberi professionisti, tutti stranieri che da anni vivono in Francia perfettamente integrati nel suo tessuto sociale e vogliono mettersi al servizio di una causa che la propaganda patriottica presenta da subito come una guerra di civiltà. Costoro vogliono battersi in nome dei miti rivoluzionari del 1789 e nel conflitto vedono il confronto tra i regimi liberali di Parigi e Londra e l’autoritarismo degli Imperi centrali. È il caso dello svizzero Blaise Cendrars (pseudonimo di Frédéric-Louis Sauser), classe 1887, scrittore irrequieto che si è trasferito a Parigi affascinato dalla poesia maledetta di Rimbaud: il 1o agosto 1914 egli sottoscrive un proclama pubblicato sui quotidiani parigini in cui chiama a raccolta tutti gli stranieri che «hanno imparato ad amare questo Paese» e li invita a «mettere il proprio braccio al suo servizio». È il caso di alcuni giovani americani spinti all’azione dall’idealismo come William Thaw e Alan Seeger, ansiosi di partecipare «alla più grande e probabilmente ultima guerra della storia», vissuta come «uno scontro finale tra la civiltà e la barbarie».
Accanto alle motivazioni ideali ci sono le ragioni di opportunità suggerite dalle contingenze belliche. Il precipitare della crisi europea restituisce infatti ognuno alla sua appartenenza nazionale: un tedesco o un austriaco sono nemici da espellere, anche se da tempo vivono e lavorano in Francia; un italiano è un sorvegliato speciale, perché l’Italia ha proclamato la neutralità ma non si sa quali siano le reali intenzioni del suo governo; un russo è un alleato, e proprio per questo deve tornare nel suo Paese e mettersi al servizio del proprio esercito. Per molti, la Legione straniera rappresenta l’unica opportunità per mantenere il legame con la Francia: meglio fare la guerra da volontari con i francesi che essere rimpatriati e andare ugualmente al fronte sotto un’altra bandiera.
Per qualcuno, infine, la richiesta di arruolamento scaturisce da un autentico slancio combattentistico, da un gusto dell’avventura che rende insopportabile l’idea di assistere da spettatore a un evento così traumatico e totale: nel momento in cui si decide il futuro destino dell’Europa, la Legione offre la possibilità di essere protagonisti sui campi di battaglia anche a coloro che, per una ragione più o meno inconfessabile, non possono rientrare nei propri Paesi di origine, o a quanti vivono in nazioni che non sono entrate in guerra. È il caso di Edward Morlae, anch’egli americano, secondo il quale «ad alcuni piaceva combattere e ad altri piaceva la Francia. A me piacevano entrambe le cose»; o degli italiani immobilizzati dalla scelta neutralistica del governo Salandra.
Inizialmente, i comandi militari francesi sono esitanti di fronte al moltiplicarsi delle richieste (oltre quarantamila nel corso dei primi mesi di guerra) e temono che tra i nuovi arruolati possano infiltrarsi spie o sabotatori, ma l’urgenza del conflitto spinge presto in direzione opposta: l’attacco tedesco alla Francia, condotto violando la neutralità del Belgio e del Lussemburgo, ha colpito là dove il confine è sguarnito di fortificazioni e ha permesso una penetrazione faticosamente fermata con una gigantesca battaglia sul fiume Marna. Il governo, precipitosamente trasferito da Parigi a Bordeaux, decide di mobilitare tutte le risorse disponibili e di fare ricorso anche ai volontari della Legione. Dai due reggimenti permanenti di stanza in Algeria, nel settembre 1914 vengono così originati quattro reggimenti di marcia, nei quali i veterani di Sidi-bel-Abbès si mescolano con i volontari accolti nei diversi centri di reclutamento (oltre a quelli tradizionali, Nîmes, Montélimar, Lione, Mailly). L’amalgama non è automatico: tra i veterani c’è chi guarda con sufficienza alle reclute, disprezzandone l’impreparazione militare e gli atteggiamenti troppo «cittadini». Per chi ha il tratto ruvido alimentato dalle campagne nel Tonchino o dai rastrellamenti sahariani, non è facile convivere con chi è vissuto sino al giorno prima negli arrondissement di Parigi o tra le lunghe Avenue di Manhattan: la normalità viene scambiata per fiacchezza e, all’opposto, la durezza per prevaricazione. «Una gran parte degli uomini che si arruolarono volontari» scrive Alan Seeger «furono sbattuti in un reggimento composto quasi interamente dalla feccia della società, ricercati in fuga dalla giustizia e teppisti, comandati da sottufficiali che ci trattavano tutti, senza distinzioni, nella stessa maniera in cui erano abituati a trattare la loro turbolenta figliolanza laggiù in Africa.»
La realtà della guerra di trincea è tuttavia tale che i contrasti non hanno tempo di trasformarsi in frattura: quando vengono mandati al fronte (prima nelle Argonne, poi nella Champagne) legionari vecchi e nuovi si trovano alle prese con un conflitto quale mai si era visto prima, dove non c’è spazio per le animosità e i pregiudizi personali, e dove della Legione emergono l’orgoglio combattentistico e il carattere multietnico: «Nella mia compagnia» scrive l’irlandese Woodhall Marshall «ci sono un americano, un ex ufficiale di una repubblica del Sudamerica, un avvocato olandese, un ebreo russo, tre cosacchi, due italiani, uno spagnolo, un inglese che è sempre vissuto a Parigi e altri misteriosi individui la cui vera identità è accuratamente tenuta nascosta. Tutti eravamo però uniti e avevamo voglia di combattere, anche in quell’inferno di trincee e di assalti».1
Per i legionari, come per tutti i soldati, si tratta di fare i conti con una forma di combattimento esasperato che l’arte della guerra non ha contemplato prima di allora. La caratteristica delle battaglie del 1914-18 è infatti quella di risolversi in mischie furiose in cui la fanteria di entrambe le parti viene massacrata dall’artiglieria nemica: ne risulta un logorio eccezionale per entrambi i contendenti, che non porta a una soluzione netta sul campo perché la lentezza e il costo di ogni progresso offensivo lasciano al soccombente la possibilità di ristabilire un fronte continuo con la manovra delle riserve.
La causa prima di questa situazione tattica sta nell’intreccio fra il numero dei combattenti e il livello tecnologico degli armamenti. Il grado di sviluppo economico raggiunto dai Paesi belligeranti all’inizio del Novecento consente di mettere in campo eserciti di milioni di uomini. A disposizione di queste masse di soldati ci sono «mezzi distruttivi di elevata potenza (basti pensare alla mitragliatrice capace di quattrocento colpi al minuto), tecnologicamente abbastanza semplici per poter essere riprodotti su larga scala da tutti i belligeranti senza rilevanti differenze qualitative: l’insufficiente progresso della motorizzazione permette però all’artiglieria (ancora dipendente dal traino animale) e ai gas asfissianti di esercitare la loro azione distruttiva solo su aree molto ridotte, impedendo qualsiasi avanzata in profondità. Carri armati e aerei, i soli mezzi in rapida evoluzione tecnologica, non hanno ancora raggiunto lo sviluppo quantitativo e qualitativo necessario per pesare in misura decisiva sulle sorti delle grandi battaglie».2 Tanti uomini e tante armi micidiali, dunque, ma impossibilità di movimento: il risultato è l’ammassarsi dei belligeranti in spazi molto stretti, dove qualsiasi sforzo offensivo costa prezzi altissimi in vite umane.
Per comprendere la realtà della guerra 1914-18 è necessario soffermarsi sul sistema difensivo che la caratterizza e che ne diventa simbolo drammatico: le trincee, un reticolo complesso di protezione entro cui i soldati si appostano in attesa di uscire allo scoperto per l’assalto, oppure in postazione per respingere l’attacco nemico: «Le trincee di prima linea, poste a poche centinaia di metri dalle corrispettive prime linee nemiche, sono dei fossati scavati per circa 1-1,5 metri, più in profondità nei terreni pianeggianti, rinforzati da sacchi di terra, pietre e ramaglie». Davanti a esse si sviluppa una fascia intricata di filo spinato, ancorata al terreno con paletti di ferro o di legno, talvolta legata direttamente ai pini dei versanti boscosi. Ad alcune centinaia di metri dalla prima linea, «una seconda e più robusta linea difensiva, collegata alla prima mediante camminamenti e muretti di pietre, costituisce il punto di massima resistenza e prosegue all’indietro con ricoveri, riservette, comandi e punti sanità, posizionati in cavità naturali o nascosti sfruttando le caratteristiche del terreno».3 Più indietro ancora sono sistemate le artiglierie.
La tecnica dell’attacco è insieme semplice e drammatica: dapprima i cannoni sparano contro i trinceramenti avversari per distruggere la fascia dei reticolati e indebolire la difesa. In questa fase di preparazione, i nemici si ritirano nelle trincee di seconda linea, lasciando a presidio della prima solo un velo di vedette che hanno il compito di segnalare l’inizio dell’assalto. Quando i tiri d’artiglieria cominciano a diradarsi, è l’ora dei fanti: i difensori, utilizzando i camminamenti coperti da frasche o lamiere, raggiungono la prima linea, mentre gli attaccanti a ondate successive escono dalle proprie trincee e si lanciano all’assalto, correndo piegati in avanti per offrire un bersaglio minore. Se la preparazione dell’artiglieria non è stata efficace, la fanteria si trova però impigliata nei reticolati, che deve tagliare con le cesoie o far esplodere con tubi di gelatina: in ogni caso, la corsa viene rallentata e gli attaccanti diventano bersaglio perfetto per il nemico, che può colpire con le mitragliatrici riparato dentro la propria trincea. Poiché una mitragliatrice è in grado di sparare quattrocento colpi al minuto (mentre il fucile degli attaccanti non può scaricare più di una ventina di colpi), si calcola che un’arma ben diretta possa fermare da sola duecento uomini all’attacco: di qui la necessità di mandare all’assalto masse di soldati per poter conquistare l’obiettivo, con tutto ciò che ne consegue in termini di morti e di feriti.
L’impegno della Legione si inquadra in questo scenario che tende a omologare tutte le esperienze: difficile trovare specificità, se non per il carattere multinazionale dei quattro reggimenti di marcia (che alla fine del 1915 vengono riuniti in un unico Reggimento di marcia della Legione straniera, noto con la sigla RMLE, al cui comando sarà posto il colonnello Rollet, figura mitica ed emblematica della Legione che abbiamo già incontrato). Negli oltre quattro anni di conflitto, i legionari mobilitati sono 36.000, tra cui 5242 russi, 2583 alsaziani, 1996 spagnoli, 6402 italiani.
Curzio Malaparte e la legione garibaldina
La vicenda dei volontari italiani è particolare: la maggior parte di loro sono patrioti di ispirazione democratica che sin dall’estate 1914, quando il governo Salandra proclama la neutralità, intendono entrare in guerra nello schieramento antiaustriaco. In loro si agita un coacervo di impulsi politici e psicologici: sentimenti irredentistici e mazziniani, suggestioni risorgimentali, simpatie repubblicane per la Francia della Rivoluzione, convinzioni ideologiche antiautoritarie, ansia di protagonismo, smanie esistenziali. Non a caso, al loro comando viene posto il discendente dell’icona dell’Italia democratica, il tenente colonnello Peppino Garibaldi, figlio di Ricciotti Garibaldi e di Constance Hopcraft e nipote dell’Eroe dei due mondi, un uomo tanto intrepido quanto irrequieto, affascinato dal sogno di entrare nella storia come campione della libertà e della giustizia.
Nato nel 1879, Peppino ha studiato al collegio tecnico di Fermo sino al 1897, quando ha interrotto gli studi per unirsi al padre Ricciotti e andare a combattere nella Grecia settentrionale accanto alle popolazioni insorte contro il dominio turco; rientrato in Italia e terminato il corso di formazione, nel 1899 parte per l’Argentina, dove si impiega come perito tecnico nella «Società Elettrica Buenos Aires y Belgrano», ma il lavoro sedentario, ripetitivo e opaco, contrasta troppo con il suo carattere appassionato. Nel 1903 lascia l’impiego e l’America e va a combattere in Sudafrica al servizio del governo britannico contro i Boeri: qualche anno dopo è in Venezuela accanto ai ribelli che lottano contro il dittatore Cipriano Castro, poi in Messico e in Guyana, aggregato a formazioni guerrigliere antigovernative. Nel 1909 le necessità economiche lo costringono a un nuovo impegno lavorativo, e come tecnico del settore elettrico si impiega prima in Romania, poi a Panama, poi ancora a Montevideo. Avventuroso come il nonno, ma impaziente perché costretto a vivere una stagione assai meno romantica, Peppino Garibaldi è alla continua ricerca di «giuste cause» per le quali valga la pena battersi e mettere in gioco la vita: nel 1911 lascia di nuovo il lavoro e va in Messico, dove alla testa di una formazione di guerriglieri combatte contro il dittatore Porfirio Díaz; nel 1912, quando scoppia la Prima guerra balcanica, è di nuovo in Grecia, la patria dell’umanesimo classico in lotta contro l’oscurantismo ottomano, la regione che dall’inizio dell’Ottocento infiamma (spesso a torto) i cuori degli idealisti europei. Deluso perché il governo di Atene, dopo qualche mese, muta il quadro delle proprie alleanze e si schiera con l’Impero turco contro la Bulgaria, Peppino lascia l’Europa e cerca fortuna a New York, la metropoli che promette a tutti opportunità e futuro. Nell’estate 1914, quando scoppia il primo conflitto mondiale, il richiamo della lotta è però più forte delle suggestioni di Manhattan e Peppino Garibaldi attraversa ancora una volta l’Atlantico. Sbarcato a Londra, da lì si dirige a Parigi e il suo profilo psicologico e la sua storia personale lo portano automaticamente ad arruolarsi nella Legione straniera. La celebrità del suo cognome e la rete di relazioni intrecciate in quasi vent’anni di peregrinazioni inducono i responsabili francesi ad assegnargli il ruolo di comandante del costituendo reggimento italiano e a destinarlo a Nîmes, in Provenza, dove affluiscono i volontari.
Difficile dire che cosa provino Peppino Garibaldi e i suoi legionari quando, nel tardo autunno 1914, vengono mandati a combattere nelle Argonne: l’eroismo leggendario delle «camicie rosse» trova scarsa corrispondenza negli assalti contro i reticoli di filo spinato e il fuoco serrato delle mitragliatrici. Nondimeno, la Legione si batte con disciplina e ardore e la famiglia Garibaldi è in prima fila sia nel combattere sia nel pagare il prezzo del conflitto: accanto al tenente colonnello Peppino, ci sono infatti quattro suoi fratelli e due di loro muoiono nei primi scontri. Il primo a cadere è Bruno, nato nel 1889, diplomato in tecniche dell’agricoltura in un istituto di Canterbury in Inghilterra (il Paese della madre), poi trasferitosi a Cuba e impiegato in un’azienda per la lavorazione della canna da zucchero sino allo scoppio della guerra. Il 26 dicembre 1914, durante un’azione nel Bois de Bollante, Bruno Garibaldi viene colpito a morte quando sta per raggiungere la trincea tedesca: la sua salma è trasportata in Italia e il 6 gennaio successivo, a Roma, alla presenza del padre Ricciotti, si svolge una cerimonia funebre che è occasione per una vigorosa manifestazione interventista. Il secondo Garibaldi a cadere è Costante, nato nel 1891, che ha studiato come Peppino al collegio tecnico di Fermo ed è impiegato nelle acciaierie di Terni come perito industriale: caratterialmente meno irrequieto dei fratelli, Costante parte comunque per Nîmes appena gli giunge notizia della costituzione di un reparto di volontari italiani. Il 5 gennaio 1915 a Courtes Chausses viene raggiunto da un proiettile che gli trapassa la gola e muore a poca distanza dalle posizioni su cui è caduto Bruno qualche giorno prima. Per ironia del destino, la notizia giunge a Roma nello stesso momento in cui si celebra il funerale del fratello.
Il reparto italiano della Legione è operativo sino alla primavera 1915, quando l’entrata in guerra dell’Italia induce molti volontari a scegliere l’arruolamento nel Regio Esercito e, di conseguenza, il 4o reggimento di marcia viene sciolto: alcuni legionari restano nelle fila della Legione, ma la maggior parte di loro vengono incorporati nei reggimenti di fanteria e continuano la lotta sul Carso. Alcuni, come il repubblicano Clodomiro Natoli, sopravvivono alle Argonne ma muoiono nei mesi successivi sull’Isonzo: altri, come Peppino Garibaldi e i due fratelli superstiti Sante (nato nel 1885) ed Ezio (nato nel 1894), vengono feriti in modo leggero e restano operativi sino a Vittorio Veneto.
Tra i legionari italiani che sopravvivono all’esperienza della guerra vi è Ricciotto Canudo, pugliese originario di Gioia del Colle emigrato giovanissimo a Parigi, che nella capitale francese si appassiona al cinema diventando uno dei pionieri della teoria cinematografica; nel 1914, ormai vicino ai quarant’anni, si arruola volontario nel 4o reggimento di marcia perché la guerra è l’esaltazione del «nuovo» e il suo gusto per l’avanguardia e la sperimentazione lo portano necessariamente in prima linea. Rientrato a Parigi nel 1918 dopo quattro anni di Legione, Canudo riprende la sua attività di giornalista e scrittore che manterrà sino alla morte prematura, avvenuta nel 1923: i suoi saggi verranno raccolti in un volume postumo, L’officina delle immagini, uscito nel 1927, uno dei primi testi di teoria del cinema.
Un altro è Henry Lentulo, nato a Nizza nel 1889 da genitori piemontesi. Di orientamento politico socialista, laureatosi chirurgo dentista all’Università reale di Torino nel 1912, Lentulo si arruola nell’agosto 1914 come legionario di seconda classe e nell’autunno successivo viene distaccato come medico ausiliario presso il 4o reggimento di marcia. Nella primavera del 1915, quando il reggimento viene sciolto, egli non chiede di trasferirsi nel Regio Esercito, ma mantiene l’arruolamento nella Legione e viene destinato prima a Orléans, poi a Verdun, ottenendo la nomina a cavaliere della Legion d’Onore e la decorazione della croce di guerra. Naturalizzato francese dopo la fine del conflitto, Lentulo sarà un pioniere dell’odontoiatria moderna, apprezzato libero professionista, docente universitario e autore di numerosi saggi pubblicati sulle riviste scientifiche specializzate francesi e americane: morirà ultranovantenne a Gap, nel 1981.
Particolare è la vicenda di Gabriele Foschiatti, irredentista triestino, fervente sostenitore delle idee mazziniane. Volontario nel 1914, combatte con la Legione nelle Argonne sino al 1915, per poi passare sul fronte italiano dell’Isonzo, dove rimane sino al 1918, diventando ufficiale degli arditi. Tra i primi a entrare nella sua città, impegnato nell’impresa fiumana di d’Annunzio, all’affermarsi del fascismo egli ha una crisi di coscienza che lo porta a prendere le distanze dal regime. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale aderisce al Partito d’azione, ma nel settembre 1943 viene catturato dai tedeschi per la sua attività antifascista e deportato nel campo di Dachau, dove muore nel novembre 1944. Sopravvissuto alle sfide della Legione e alle trincee delle Argonne e del Carso, Foschiatti cade così di fronte alla repressione del lager.
Il più noto tra i volontari italiani è tuttavia Kurt Suckert, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Curzio Malaparte, nato a Prato il 9 giugno 1898. Suo padre, Erwin Suckert, è un maestro tintore sassone, che in Germania ha avuto più volte problemi per le sue attività sindacali e il carattere irruento, e che per questo ha lasciato la Sassonia emigrando nella capitale del tessile italiana; sua madre, Edda Perelli, è una giovane lombarda, che il padre ha conosciuto in Toscana a casa di amici. Precocemente talentuoso, insofferente per carattere al provincialismo e ai ritmi di una vita ordinaria, il giovane Curzio mescola impulsi e suggestioni culturali diverse e contraddittorie: dall’ambiente pratese riceve gli stimoli del movimento operaio di inizio secolo, ribellistico e antiautoritario, impegnato sul terreno delle lotte per l’emancipazione dei lavoratori; dall’ambiente di studio fiorentino (dove frequenta le scuole superiori) lo spirito anticonformista e l’ansia di svecchiamento della vita nazionale promossi da Giovanni Papini, da Ardengo Soffici, da Giuseppe Prezzolini; dall’ambiente del Partito repubblicano (cui aderisce giovanissimo nel 1913) il vitalismo rivoluzionario, l’antimilitarismo, il rifiuto dei compromessi della politica giolittiana. Questi incroci di influenze diverse condizioneranno tutta la vita intellettuale di Malaparte, facendone il protagonista di esperienze contrastanti, ma lasciandogli anche il segno di tratti distintivi che lo accompagneranno sempre: il dinamismo esasperato e l’esuberanza comportamentale.
Per un adolescente con queste attitudini, lo scoppio del conflitto è una rivelazione: il rifiuto pregiudiziale degli eserciti viene subito abbandonato in nome della difesa della Francia repubblicana invasa dal militarismo germanico; il neutralismo dell’Italia è avvertito come un’umiliante manifestazione di opportunismo politico; la battaglia politica degli interventisti è guardata con simpatia ma non esa...