La terza Italia. Manifesto di un Paese che non si tira indietro
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La terza Italia. Manifesto di un Paese che non si tira indietro

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  1. 144 pagine
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La terza Italia. Manifesto di un Paese che non si tira indietro

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Sono quasi cinque milioni gli italiani che prestano la loro opera nel cosiddetto «terzo settore»: il mondo del «dare», l'universo della gratuità e della solidarietà umana, religiosa o laica che sia. L'Italia cadrebbe a pezzi senza il lavoro di associazioni, onlus, operatori sociali, volontari, piegata com'è dalla crisi e dalla latitanza delle istituzioni. Questo libro fotografa le «periferie del mondo» intrecciando storie di vita dura, malaffare, riscatto sociale e impegno civile a ricordi personali: si parte dalla «Terra dei fuochi» (la zona dove l'autore è nato, sita fra Napoli e Caserta, e ormai tristemente nota quanto Scampia) per arrivare a Roma, sfiorando i Palazzi e chiamandoli spesso in causa per le mancate scelte e gli scempi nazionali. Ma si passa anche dal Ruanda e dalla Striscia di Gaza, dalle carceri minorili e da Lampedusa, dalle scuole italiane e dai laboratori teatrali dove si cerca di sottrarre i giovani alla chimera dei soldi facili della camorra. Pagine scandite dalla vibrante ostinazione a costruire un mondo migliore e segnate dal dolore provato in gioventù per il difficile rapporto con il padre. Una lettura che commuove e rassicura: commuove quando entra nelle profondità dei ricordi famigliari e rassicura perché disegna un'Italia generosa, viva e pronta a ripartire. «Su Wikipedia dovrei scrivere: "Vincenzo Spadafora è uno che ci crede", invece l'enciclopedia digitale non prevede tanta semplicità romantica di autodefinizione», ammette l'autore. Un manifesto per un Paese che merita molto di più. E che ha energie, talenti e sogni.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852052637

La forza dei fessi

Avrei tanto voluto diventare presentatore Tv oppure prete, più conduttore che sacerdote, a esser sinceri. Alla fine mi sono avvicinato a entrambi, in modo piuttosto bizzarro. Qualcuno, scorrendo la mia biografia, potrebbe sostenere che mi sono inventato una crasi, soprattutto considerando gli anni spesi all’Unicef (anche come presidente) e quelli da garante per l’Infanzia e l’adolescenza: alla fine davanti alle telecamere e alle platee ci sono stato, ricoprendo ruoli di pesante responsabilità morale.
Avrò avuto dieci anni o poco più quando chiesi a mia madre di confezionarmi un abito talare. Lei, come sempre, mi accontentò, considerandolo un gioco o forse rispondendo alla sua indole di donna devota. A quei tempi, vivevo con la mia famiglia a Frattamaggiore in un condominio medio borghese nel centro del paese: la piazzetta davanti, la chiesa a sinistra, il cui parroco, don Antonio, era un prete vecchia maniera, molto amato dalla gente. Fu anche per la sua influenza positiva che pensai di avviarmi alla vita di seminario. Non so come, ma convinsi i miei a iscrivermi promettendo loro che la religione non mi avrebbe allontanato dagli studi, anzi, li avrei intensificati in seminario. Mi ero sopravvalutato: non riuscii a stare lontano da casa che per pochi giorni. Era insopportabile vivere da solo, in un luogo giustamente austero, senza amici, senza comfort, senza mia mamma, mia sorella, mio fratello e mio padre. Cinque giorni dopo telefonai a casa chiedendo che mi venissero a prendere: ero soffocato dalla malinconia, incapace di trattenere il pianto, desideroso di tornare alla mia vita di bambino normale, rinnegando una volta per tutte quella da prete mignon.
Oggi c’è un prete importante nella mia vita, don Ottavio De Bertolis, studioso, gesuita, poliglotta (passa da una lingua all’altra da slalomista), testa fine, con un sapere e un’umanità invidiabili. È diventato il mio padre spirituale: chiacchierare con lui è uno dei regali della vita. Lo vidi per la prima volta nell’estate del 2011, anzi, in realtà è più corretto dire «lo sentii»: per ascoltare le sue prediche o le lezioni sui testi sacri la gente attraversa tutta Roma, affrontando il traffico e la calca sui mezzi. E il motivo è semplice: don Ottavio è speciale. Officia messa alla Chiesa del Gesù, proprio di fronte al palazzo che per decenni è stato la sede storica della Democrazia cristiana, sul cui portone è appeso da mesi un triste cartello «Affittasi».
Era una calda giornata di giugno e io ero in crisi nera con me stesso, gli affetti, l’impegno socio-politico. Stavo male, faticavo persino a dormire. Mi sottoponevo di continuo a un interrogatorio impietoso domandandomi se ero stato troppo idealista, se avevo pensato troppo in grande. Mi ritrovai seduto su una delle panche della chiesa gremita di persone che erano venute ad ascoltarlo. Per me fu una rivelazione. Ricordo che a un certo punto della predica estrassi dalla tasca il telefonino per trascrivere alcune frasi, non so dire quali. Tornai il sabato pomeriggio successivo, all’ora della sua messa, e quello dopo ancora, poi gli scrissi una mail chiedendogli un incontro e confessandogli che stavo attraversando un periodo molto buio e che le sue liturgie mi avevano fatto intravedere un po’ di luce. Mi ricevette, parlammo per più di un’ora e mi aiutò a uscire dal guado esistenziale in cui ero finito.
Non sono il solo a essere stato sollevato dalle sue parole, molti altri hanno fatto un percorso simile al mio, sono rinati alla vita e in alcuni casi anche alla fede. Come fa quest’uomo a produrre un tale effetto? Usa un «piede di porco» – parole sue – per entrare nei cuori: don Ottavio dice sempre che Dio ci ha amati per primo, senza se e senza ma. Ognuno è amato così com’è. Mica male. Da qui il postulato: siccome siamo amati, dobbiamo amare. Don Ottavio aggiunge che il Padreterno non ci vuole perfetti: il senso di colpa è invenzione umana. Altro messaggio forte, terapeutico. Ma l’apparente semplificazione dell’intera dottrina non è uno sconto da Lidl della Chiesa, è un’essicazione, un andare all’essenza del messaggio evangelico. Alla fine rimani «fregato», perché sei obbligato a misurarti con l’innato egoismo umano.
Don Ottavio insiste perché si torni al messaggio fondamentale del cristianesimo e ricorda che Gesù non dice «siate santi», ma «siate misericordiosi». La compassione. La gratuità. Il fare senza tornaconto personale.
Parole che da sempre appartengono al mio dizionario e hanno generato le liti cattive con mio padre. Lui non concepiva la parola «gratuità». Non faceva che domandarmi: «Cosa ci guadagni? A che serve?». «Nulla» gli rispondevo io ragazzino, volontario dell’Unicef. «Allora sei fesso!»
Di «fessi» l’Italia è piena. Nei miei numerosi giri per il Paese ho conosciuto migliaia di persone che non si sono tirate indietro. Volontari e non. Dipendenti dello Stato e liberi professionisti. Più donne che uomini, a onor del vero. Poliziotti, carabinieri, maestre, guardie forestali, medici, assistenti sociali, guardie carcerarie, sindaci, prefetti, assessori, impiegati e molti minorenni, spesso in situazioni difficili. Posso dire di aver incontrato l’Italia, di averla girata da Nord a Sud, senza camper né pullman furbetti da campagna elettorale, né smart o biciclette. Sono sempre andato nei territori per capire come intervenire e cosa proporre in base ai vari incarichi ricoperti in più di 20 anni di impegno socio-istituzionale. Secondo i dati Istat (anno 2011), la percentuale di persone che si dedicano al volontariato supera i 5 milioni e il valore economico del settore non profit è pari a quasi 8 miliardi di euro.
Qualche anno fa arrivò sugli schermi Cose dell’altro mondo, un film divertente, paradossale e molto stimolante. Raccontava di una cittadina del Nord, ad alta presenza d’immigrati, che d’improvviso si ritrova senza un solo straniero. Per molti cittadini è la realizzazione di un sogno. Finalmente non c’è il rischio d’incontrare «l’estraneo, il diverso, il nero», di dover dividere con lui l’ufficio o la corsa in autobus. L’euforia da liberazione però poco dura, perché presto ci si rende conto che senza gli stranieri la città è bloccata, non va avanti, ognuno di loro era utile, era indispensabile perché la quotidianità fosse più facile, meno pesante. Come fare senza l’addetto che consegna i pasti nelle scuole? Senza la badante per l’anziana madre che nessuno vuole curare 24 ore su 24? Dov’è finito l’uomo delle pulizie?
Cosa faremmo se sparissero improvvisamente tutti i non italiani? Andate in un ospedale e immaginatelo senza gli infermieri stranieri. Osservate il personale addetto alla manutenzione delle nostre strade: in pochi anni gli italiani hanno passato la mano agli immigranti sperando di trovare lavori meno pesanti. Persino nei mercati rionali le bancarelle sono gestite da extracomunitari, che caricano e scaricano casse di frutta e verdura senza colpo ferire. E lo sappiamo tutti che i nostri anziani sono assistiti da persone che a fatica imparano la nostra lingua. Già, come faremmo senza di loro? E se sparissero i volontari, le organizzazioni, le associazioni, gli insegnanti di frontiera (ormai lo sono quasi tutti), gli operatori che lavorano nel sociale i cui bassi stipendi vengono erogati tardivamente per i continui tagli alla spesa sociale? Se insomma la Terza Italia si autoesiliasse dal nostro Paese per consunta pazienza, che fine miserrima faremmo?
Eppure la politica la snobba, preoccupata com’è d’inseguire la Terza Repubblica non ancora abbozzata. Alla Terza Italia andrebbe invece dedicato un ministero, che si occupi esclusivamente di valorizzare e sostenere le iniziative di coloro che, nonostante tutto e tutti, continuano a garantire servizi, assistenza e aiuto alle fasce più deboli e in difficoltà. Sono loro che mettono le pezze ai vuoti istituzionali, recuperando situazioni limite. Sono più di 300 mila le istituzioni non profit in Italia. Delle associazioni, grandi o piccole che siano, la maggior parte opera nella sanità e nel sociale. E questo la dice lunga su dove stanno le emergenze.
L’Unicef ha attraversato gran parte della mia vita: ho cominciato da volontario a 12 anni e sono diventato presidente a 35, segnando un piccolo traguardo da Guinness, essendo il più giovane presidente Unicef mai eletto al mondo. Quando dico che devo tutto a certi incontri, non esagero. Uno di questi fu con Maria Casolaro, allora responsabile Unicef per l’area a nord di Napoli. Me lo ricordo come se fosse ieri, invece era il 1986. Io avevo 12 anni, ed era dunque molte vite fa. Ero stato invitato a un incontro dal sindaco di Afragola: capitava spesso che andassi insieme a una mia compagna in rappresentanza della scuola. Lasciatemi essere un po’ nostalgico, anche se in realtà sto pensando all’Italia del prossimo futuro, quella che deve ripartire e ritrovarsi. Quella che deve ricordare e capitalizzare: ricordare il passato e contare sul capitale umano, superlativo, che abbiamo. E allora dico una cosa: se non avessi avuto insegnanti generosi, convinti dell’importanza di coinvolgere i ragazzini, anche oltre l’orario scolastico, mi sarei trovato in serie difficoltà. Ho incontrato maestre e professori che si spendevano senza «se» e senza «ma». Ricordo corsi di educazione alla salute e prevenzione delle tossicodipendenze. Ricordo che organizzavano attività per il tempo libero, pièce teatrali, progetti di educazione allo sviluppo. Ricordo interi pomeriggi passati a casa della professoressa d’italiano, Rosa Frustaci: ci vedevamo da lei poiché non sempre si poteva aprire la scuola in orario extrascolastico e avevamo bisogno di confrontarci e mettere a punto le numerose iniziative che ci frullavano in testa.
Tanti giovani, a cominciare da me, sono stati sottratti a un futuro diverso da professoresse come Rosa Frustaci e donne come Maria Casolaro dell’Unicef. Non c’è stipendio che possa ripagare persone del genere per il bene che hanno fatto. L’Italia è ricca di uomini e donne di simile pasta umana e le istituzioni non dovrebbero sfruttarne la generosità, bensì riconoscerne i meriti. Io sogno un’Italia così.
L’incontro con Maria Casolaro avvenne sulla bella scalinata dell’ottocentesco palazzo del Comune di Afragola: lei scendeva a fianco del sindaco, io ero poco distante da loro. Mi vide e si voltò. Aveva un volto molto materno e solare, indossava una gonna semplice e una camicia bianca, comunicava energia a ogni gesto. «Bravo, sei stato molto bravo» disse, commentando il mio intervento di poco prima, di cui non ero per nulla orgoglioso. Non risposi, ipnotizzato com’ero dai suoi occhi vispi come quelli di una ragazzina ribelle. Scesi le scale ignorando i gradini e continuando a fissarla: avevo la netta sensazione che io e quella donna ci saremmo rivisti ancora molte volte. E così fu. Da allora, facemmo coppia fissa: organizzammo concerti, maratone e convegni. Pur non potendo contare su SMS e smartphone, coinvolgemmo centinaia di giovani. Andavamo a rompere le scatole a sindaci, presidi e assessori. Eravamo quasi un incubo per gli amministratori.
Maria sostiene di avere visto in me il portavoce di una generazione. Di non essere stata mossa dall’affetto (sebbene mi considerasse il suo figlioccio) bensì dal «calcolo», perché ero il suo «strumento» per toccare gli animi di molti ragazzi italiani. Un banale medium. Sarà vero, poi? Io ci credo poco ripensando alle tante ore passate insieme e all’attenzione quasi materna che aveva nei miei confronti. In ogni caso, non mi offende l’idea di essere stato «usato», visto che ne condividevo il motivo.
Qualunque siano state le sue motivazioni, di fatto Maria divenne la mia «manager» dai 12 ai 18 anni. Mi ha definito «un rompighiaccio che va, va e non si ferma mai». Dice che sono umile e che chiedo aiuto. Sostiene che sono un leader nato, ma la mia forza è fare squadra. Io spero che sia tutto vero, anche se sospetto che le dosi esagerate di complimenti siano figlie dell’odierno affetto, ormai non più celato.
Da lei ho imparato molto e abbiamo condiviso ore e pensieri. Mi raccontò ad esempio cosa le successe la volta che organizzò una raccolta di coperte da inviare in Africa per un’emergenza sanitaria. Casoria, uno dei paesi della Terra dei fuochi, divenne la centralina di fondi e panni di lana. Quando la camorra sentì odore di affari (sporchi, chiaramente) si fece sotto. Andò da Maria offrendole il nome di «un cumpariello che tiene camioncini e potrebbe occuparsi dell’imballo. E c’è pure un ingegnere amico nostro che è disposto a prestare gratis il capannone». Volevano soldi, avevano fiutato l’affare. Maria mi spiegò che se cedi è la fine. Lei chiese aiuto ai carabinieri e alcuni volontari fecero la ronda di notte attorno al luogo dov’erano custoditi fondi e coperte. Il camorrista tornò da Maria: «Tu hai fatto la spiritosa, ti appicco (ti do fuoco, NdR) a te e a tutte le coperte». Lei non si fece intimidire e così gli aiuti partirono senza dover pagare il pizzo a nessuno.
Anche a me capitò qualcosa del genere: fu quando, come Unicef, organizzammo una delle prime Partite del cuore. Avevamo prenotato alcune camere in un hotel di Napoli per ospitare i giocatori cantanti e la nostra struttura organizzativa. Ci chiamarono in camera dicendoci che alcuni signori ci aspettavano nella hall. Cademmo dalle nuvole quando ci proposero di «aiutarci» a vendere i biglietti. Un pizzo a regola d’arte. Rifiutammo. Per quasi due giorni stettero a turno nella hall dell’hotel mentre noi, con un’auto di fortuna, visitavamo i paesi vicini in cerca di spettatori. Giravamo di paese in paese, con i biglietti in mano, facendo quasi una vendita porta a porta. Con uno dei cantanti-star che ci accompagnava, finimmo persino in un supermercato. Alla fine, allo stadio non c’era un posto libero. Ha ragione Maria, non bisogna cedere. Direi di più, bisogna combattere.
È quello che fanno in tanti, dalle mie parti, ma anche al Nord, perché ormai l’Italia si assomiglia sempre di più quando si tratta di povertà diffusa e d’infiltrazioni mafiose. Come elencare i tanti che non si arrendono? Impossibile. Di getto, mi viene in mente Libera che, coordinando 150 associazioni, si preoccupa di riaffermare la cultura della legalità, recuperando spazi, beni confiscati e soprattutto ragazzi; il consorzio Agrorinasce che opera nei comuni della zona d’elezione della camorra e lì converte i beni confiscati al malaffare in opportunità per i giovani e in spazi ricreativi; il Tappeto di Iqbal che nel quartiere degradato di Barra a Napoli, senza cinema, teatri, spazi, recupera ragazzini finiti nel giro sbagliato (molti dei quali figli di camorristi) e organizza attività teatrali, di studio, di musica, ricevendo continue minacce in cambio di tanto coraggio (poche settimane fa hanno bruciato la loro sede).
Soprattutto, se è di combattenti che parliamo, mi viene in mente don Maurizio Patriciello, l’inviato del Padreterno all’inferno della Terra dei fuochi. È stato lui a denunciare per primo cosa stava accadendo nel «quadrato della vergogna»: è parroco nella chiesa di San Paolo a Caivano, ci conosciamo bene, sono andato da lui anche in veste di garante per l’Infanzia e l’adolescenza per capirne di più e aiutarlo nella battaglia della Terra dei fuochi. La gente va da lui a confessarsi e a piangere, a chiedergli aiuto non solo per l’anima, ma anche per mangiare. È zona povera quella, molte famiglie sono a reddito zero. La chiesa di don Patriciello si trova accanto al Parco Verde, uno dei due megainsediamenti di edilizia popolare costruito grazie alla legge 80, figlia del violento terremoto che il 23 novembre 1980 colpì l’Irpinia. Alla contabilità della storia, il sisma consegnò un bilancio di 2914 morti, 506 comuni danneggiati, 280 mila senzatetto e molti milioni di lire di soldi pubblici stanziati (l’euro era di là da venire) con la suddetta legge 80, finiti in buona parte nelle mani di politici consenzienti, costruttori, camorristi. Parco Verde è un complesso di casermoni costruiti alla meno peggio, pitturati del colore dell’erba, situati alla periferia di Caivano. L’altro figlio della legge 80 e dei soldi pubblici è il rione delle Salicelle, situato fra Cardito e Afragola: non è neppure verde speranza, e almeno per questo è più coerente del suo gemello perché chi vive in quelle case-alveare ha finito da tempo la scorta umana di speranza. Le Salicelle rappresentano un mondo a parte, dove nessuno si spinge: persino la polizia stenta ad avventurarsi fra quei caseggiati scrostati. Solo chi ci vive (o chi è costretto a viverci) cammina lungo le strade che collegano gli edifici, dove lo spettacolo offerto è di vetri rotti, luci spaccate, atti di vandalismo, sporcizia, nessuno spazio pubblico curato. Fra quelle case girano droga, soldi sporchi, malaffare, violenza. Non c’è articolo di cronaca che non finisca con «… i due malviventi in moto si sono dileguati all’interno delle Salicelle», perché se s’imbucano lì sono al sicuro. È zona franca. Viene da chiedersi: ma è mai possibile che lo Stato abbia abdicato in questo modo? È accettabile pensare che si siano abbandonati tutti i Parco Verde e Salicelle d’Italia, le periferie urbane e intere zone cittadine? Il tutto mentre ci sono persone che s’impegnano sfidando pericoli e ritorsioni: le maestre che insegnano alle Salicelle, per esempio, alcune delle quali si sono fatte trasferire apposta in quelle scuole a rischio. Sono come i preti di strada, combattono la loro battaglia quotidiana senza clamori, solo per senso del dovere, etica e responsabilità. Il loro primo problema non è cosa insegnare ai bambini, ma riuscire a portarli a scuola sfidando le famiglie, affrontando padri-padroni e un’ostilità dichiarata contro tutto ciò che potrebbe emancipare i loro ragazzi da una vita malata.
Nell’Italia che vorrei per figli e nipoti, lo Stato deve fare lo Stato, perché gli uomini si sono messi insieme anche per difendersi reciprocamente riconoscendo a una testa centrale il ruolo di decidere il meglio per tutti (Thomas Hobbes).
Don Patriciello, guardando le foto dei numerosi bambini morti in questi ultimi due anni nella sua parrocchia, dice giustamente: «Chi mi doveva tutelare, se non mio padre? Mio padre è lo Stato! L’ha fatto? La risposta è no».
Non si sa quante siano le morti legate all’inquinamento dell’aria, dei campi e delle falde acquifere di Caivano e dintorni, poiché non esiste un registro sanitario precedente che possa certificare la variazione dei casi di tumori, leucemie e altre patologie. Lo si farà, però ci vorranno anni per avere dati attendibili, scientificamente inco...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La terza Italia. Manifesto di un Paese che non si tira indietro
  3. Fragole e sangue
  4. La forza dei fessi
  5. La debolezza dei forti
  6. In coda per mangiare
  7. Uno scatto di responsabilità
  8. L’uomo in pigiama
  9. Lampedusa e altre periferie
  10. Domande e risposte
  11. Piazza Navona
  12. Chiare fresche dolci acque
  13. Nuovo cinema Cardito
  14. Ritrovare la memoria
  15. Fuochi fatui
  16. L’Italia che vorrei
  17. Ringraziamenti
  18. Copyright