Dodicesimo giorno prima delle Calende di agosto
Erano già passati alcuni giorni dal rapporto segretissimo di Publio Aurelio Stazio davanti a Claudio Cesare e all’intero Senato.
Come il patrizio aveva previsto, Leonzio, incolpato non solo degli incendi ma anche dell’assassinio di Antonio, era adesso detenuto al Mamertino, in attesa di un processo che si annunciava lungo e spettacolare: i senzatetto chiedevano un congruo risarcimento, e in loro tutela avrebbe parlato lo stesso Bestia, a nome di tutti.
Più difficile, invece, era trovare un difensore per il piromane. La condanna quasi certa non solo scoraggiava gli avvocati, ma intimoriva non poco quegli intraprendenti popolani che avevano già fatto incetta di sgabelli pieghevoli e di cuscini da affittare al pubblico durante la causa: davanti a un’accusa per crimini tanto efferati, infatti, ci si poteva aspettare da Leonzio un gesto suicida che avrebbe reso vani i loro piccoli sforzi imprenditoriali...
A ogni modo, il mattino dell’ovazione, nella grande domus del Viminale nessuno aveva voglia di rivangare i delitti: quel giorno, Roma avrebbe reso omaggio alle legioni e tutti erano ansiosi di partecipare al grande evento.
«Sei pronto, domine?» chiese Castore dalla soglia.
Il senatore annuì. Iberina terminò di sistemargli la toga, col laticlavio bene in vista, mentre Fillide gli drappeggiava il mantello ricamato, fermandoglielo sulle spalle con due fibule di onice. Asteria gli allacciò i calcei curiali con la lunetta d’avorio; Nefer gli mise all’indice della destra il rubino col sigillo intagliato, e infine Azel, il tonsore siro-fenicio, accorse con le forbici per dare l’ultimo tocco ai capelli e togliere un peluzzo sfuggito alla rasatura.
Gli otto portatori nubiani erano ad aspettarlo davanti alla portantina. Il senatore si accomodò sui guanciali e subito un esercito di annunciatori, nomenclatori e flabelliferi corse a mettersi alla testa del corteo, mentre gli altri servi si disponevano in perfetto ordine dietro la lettiga.
Paride era preoccupatissimo: una simile parata creava grossi problemi di organizzazione, e per di più durante la cerimonia la casa sarebbe rimasta pressoché incustodita. Nessuno, infatti, aveva voluto rinunciare allo spettacolo dei soldati che sfilavano sulla Via Sacra addobbata a festa: erano stati loro a fare dell’Urbe la città invincibile ed eterna venerata come una Dea fino all’ultima provincia dell’impero. E per uno strano fenomeno di identificazione, persino gli schiavi e i prigionieri di guerra, che da Roma erano stati vinti e umiliati, quel giorno sentivano di farne parte, di condividere in qualche modo un pezzetto della sua gloria...
«Ci siamo, padrone!» disse infine l’amministratore, passandosi la mano sulla fronte sudata. Aurelio diede l’ordine di partenza e il corteo cominciò a snodarsi, lento e solenne, lungo il Vicus Patricius.
Un boato accolse i primi soldati che avanzavano suonando le tube di guerra: «Lunga vita alle legioni!».
Tra il pubblico osannante c’erano uomini e donne di tutte le razze, di tutte le religioni, di tutte le lingue. Non più divisioni laceranti, staterelli rissosi, confini insormontabili. Dall’Africa alla Britannia, dalle colonne d’Ercole alle foreste del Nord, il mondo intero aveva ormai un nome solo: Roma.
«Lunga vita al comandante Valerio!» si sgolava la folla, attendendo di acclamare il generale. Da quando il trionfo non veniva più concesso che all’imperatore, l’ovazione era il massimo onore a cui poteva ambire un cittadino romano: nulla e nessuno poteva ormai togliere Valerio dall’Olimpo dei grandi, si disse Aurelio, mentre sentiva rinascere per l’amico un po’ di quell’affetto che pensava perduto per sempre.
Tuttavia i cortei trionfali, seppur magnifici, erano piuttosto noiosi. Dopo un po’ che applaudiva mantenendosi immobile sulla sella di gala, Publio Aurelio, insofferente come al solito, cominciò a guardarsi attorno con una curiosità fin troppo disinvolta. Le facce di sempre, considerava il senatore scrutando i suoi pari; il medesimo orgoglio altezzoso, la solita gravitas da ostentare in pubblico, riservando alla sfera privata i vizi e le degenerazioni più abbiette...
Lo sguardo gli cadde sul vecchio amico e maestro Claudio, lo zoppo balbuziente che un tempo tutti avevano deriso e ora popoli interi adoravano come il divino Cesare, padrone di Roma, padrone del mondo. Ammantato di porpora, sedeva sotto il baldacchino, coi littori alle spalle: nessun altro console lo affiancava, perché dalla morte di Metronio la carica era ancora vacante, né il principe accennava a proporre un successore. Dietro di lui, la splendida moglie Messalina teneva le mani sulla testa dei figlioletti Ottavia e Britannico, irrigiditi, malgrado la tenera età, nel loro ruolo pubblico.
Accanto all’imperatrice, nella parte più alta della tribuna d’onore, stavano le sei Vergini Vestali, ritte sui loro alti seggi. Aurelio ne guardò i visi ieratici, soffermandosi a lungo su quelli delle due bambine: votate fin dall’infanzia alla Dea del fuoco e della patria, avrebbero svolto il loro servizio per trenta lunghissimi anni, prima di poter vivere la vita di tutte le altre donne. Quante di loro, si chiese il senatore, erano davvero felici di sacrificare la loro femminilità all’altissimo rango di sacerdotesse di Roma? Gli occhi gli corsero alla decana Numidia, che ricambiò silenziosamente il suo sguardo: nessuno dei due poteva dimenticare quell’unico giorno, tanti anni prima, in cui entrambi avevano rischiato la vita per godere del breve istante dell’amore proibito che a Roma si puniva con un supplizio atroce...
«Stazio, il decano Ostillo vuole parlarti» gli annunciò Lentulo, senza nascondere la sua soddisfazione: era da quando aveva scoperto Aurelio in amichevole colloquio con sua moglie, che il vecchio padre coscritto cercava di farlo radiare dalla Curia; e ora che della faccenda si stava occupando il decano in persona, cominciava a sperare di vedere finalmente realizzato il suo sogno.
Aurelio ignorò l’appello, continuando a guardare in giro. Il Senato era al completo: visi compunti, cristallizzati nell’atteggiamento severo e virile che si addiceva alla dignitas del più alto consesso del mondo. Che importava se, da quando il potere era in mano a un unico principe, le decisioni di quei fieri togati contavano ormai poco o nulla? La fascia rossa del laticlavio, da sola, bastava a vellicare l’orgoglio: ecco infatti Tocullo, impettito su un seggio poco lontano, che accarezzava con fierezza la larga striscia purpurea ottenuta dai nobili di antico lignaggio con il magico luccichio dell’oro...
«Ave, Publio Aurelio!» lo salutò il gioielliere, non appena si accorse di essere osservato. Da quando la Curia aveva chiuso l’inchiesta sul fratello con una rapidità paragonabile a quella della saetta di Giove, il novello senatore appariva straordinariamente rilassato. Raggiunti tutti i suoi obiettivi, aveva dimesso l’atteggiamento ruvido e scostante, sostituendolo con una gentile deferenza verso tutti i colleghi. Anche il suo aspetto ne aveva tratto giovamento: indossava una toga stirata a torchio senza false pieghe e i calcei nuovi, fatti su misura, poggiavano su robusti quanto invisibili rialzi...
«Salve Tocullo; spero che siano comodi» disse Aurelio, additando gli stivaletti.
«Il tuo calzolaio è un po’ caro, ma questi calcei valevano la spesa: i lacci sono morbidissimi e si annodano facilmente» rispose lui.
Lacci di cuoio. E se fosse stato proprio Tocullo il fantomatico complice romano del comandante Cepione? pensò Aurelio. Non c’era alcuna prova che Leonzio avesse ucciso Antonio Felice, sebbene la Curia avesse accolto con sollievo l’idea di un bel capro espiatorio...
«Sta’ attento; le stringhe di cuoio rischiano di rivelare segreti pericolosi» insinuò Aurelio, e per l’ennesima volta la sua allusione cadde nel nulla.
Il caso era ormai chiuso, si disse il patrizio. Per non tirare in ballo le possibili responsabilità del defunto console, Leonzio sarebbe stato condannato per tutti i reati, quelli di cui era colpevole e quelli di cui, con tutta probabilità, era innocente. Nel mosaico della vicenda, però, c’erano ancora molte cose che non quadravano: perché mai Antonio gli aveva chiesto in prestito la veste e la lettiga, il giorno della festa? Dove aveva nascosto, l’assassino, l’arma del delitto? Che cosa aveva spinto Leonzio a cambiare completamente un modo di operare efficace e collaudato, per accendere l’ultimo rogo con tecniche da dilettante? E nel caso invece l’omicidio di Antonio fosse stato da ascrivere al console, come molti parevano pensare, sarebbe riuscito l’anziano Metronio a coprire davvero il tragitto da casa al Vicus Laci Fundani nello stesso tempo impiegato da un giovane vigoroso quale il lettighiere Mennone?
Il patrizio rifletté, perplesso. Raramente i ricattatori si accontentano di spolpare un unico pollo: Valerio era altrettanto vulnerabile di Metronio e Leonzio, ma di certo avrebbe affrontato lo scandalo pur di veder punito il colpevole. Inoltre, la molla capace di spingere Antonio sulla strada del ricatto probabilmente non era stata tanto l’avidità di denaro, quanto il desiderio di dominare gli altri.
Chi dunque, più di tutti, Antonio Felice avrebbe voluto ridurre a una tremante sottomissione, se non l’odiato fratellastro Tocullo? Per piegarlo, Felice non aveva nemmeno bisogno di ricorrere a un’antica congiura; gli bastava minacciare la vita del figlio adulterino che stava per nascere...
«Aurelio!» si sentì invocare il patrizio e la voce concitata di Appio Ostillo lo trasse improvvisamente dalle sue riflessioni. Il senatore alzò gli occhi al cielo: non aveva nessuna voglia di ascoltare dei rimbrotti. Quale tiro intendeva giocargli Ostillo? L’avrebbe inviato in Sardinia a occuparsi dei casi di abigeato o spedito a reclamare i prestiti dell’erario presso qualche oscuro governante della Cappadocia? Oppure, peggio ancora, intendeva incaricarlo di revocare le deroghe al divieto di circolazione nell’Urbe? In ogni caso, Aurelio non aveva alcuna fretta di saperne più...
«Sai la notizia, collega?» ridacchiò il padre coscritto seduto alla sua destra. «Ostillo ha dovuto ritirare la petizione contro la pubblica immoralità, dopo la figura che gli hai fatto fare!»
Aurelio represse un gemito e finse di cercare accanitamente qualcuno tra gli spalti, in modo da non vedere il decano che continuava a sbracciarsi per attirare la sua attenzione.
In quel momento l’occhio del patrizio cadde sulla tribuna degli ostaggi. Tratti nell’Urbe come ospiti più o meno volontari, i giovani eredi dei regni alleati o sottomessi venivano cresciuti da romani, perché una volta cinta la corona si mostrassero buoni amici dell’impero e garantissero nel frattempo, con il forzato soggiorno a Roma, la lealtà dei loro inaffidabili genitori. Vestiti dei loro costumi nazionali, gli ospiti stranieri costituivano un gruppo eterogeneo e coloratissimo. Tra gli altri, spiccava per la magnificenza dell’abbigliamento un principe armeno che ad Aurelio pareva di aver già incontrato da qualche parte...
L’ostaggio in questione si voltò improvvisamente e il patrizio riconobbe, sotto il ricco copricapo damascato, il profilo aguzzo e la barbetta a punta del suo segretario.
In quel momento, la folla impazzì: Valerio, ritto sul suo cavallo, stava per arrivare sotto il Campidoglio.
«Il Senato e il Popolo romano ti salutano!» disse Claudio Cesare, alzandosi in piedi in segno di omaggio.
Il generale passò a testa alta, il pennacchio rosso al vento, la corazza d’argento che riluceva al sole. Aurelio ricordò un’altra corazza, un altro pennacchio.
I soldati continuarono a sfilare, nel tripudio collettivo. Poi Valerio si tolse l’armatura e indossò la toga praetexta per sacrificare un agnello ai Numi. Poco dopo salì sul podio e quando Claudio gli posò sul capo la corona, si voltò verso il popolo in delirio, mentre un nano, scherzosamente abbigliato con una pentola in testa, si arrampicava su uno sgabello a sussurrargli all’orecchio la tradizionale frase di rito: «Ricordati che sei solo un mortale!».
In quell’istante Valerio si rivolse ai senatori che applaudivano; e Publio Aurelio, che era seduto nelle prime file, ne incrociò per un attimo gli occhi. Non ci vide rabbia, né rancore: la ferita, dunque, cominciava a rimarginarsi...
In quello stesso momento il nanetto col paiolo in testa inciampò malamente davanti ai seggi curiali e il patrizio, accorso a sorreggerlo, si trovò improvvisamente davanti alle orbite bianche di un cieco. Il Fato si mostrava veramente crudele colpendo lo stesso sciagurato con due disgrazie tanto gravi, pensò il senatore nel rimetterlo in piedi. A un tratto, avvertì un brivido: anche la bestiola di Melo, l’apprendista di Tocullo, si muoveva sotto il banco dell’oreficeria come se non vedesse gli ostacoli...
«Ebe è viva!» urlò, quasi senza accorgersene, cercando di dominare l’eccitazione: già a Trastevere si era illuso inutilmente. Ma se il gatto era davvero lo stesso, allora la schiavetta nera doveva trovarsi in casa di Tocullo. Tocullo, tanto più scaltro di Antonio Felice da riuscire facilmente a coinvolgerlo nella fusione dell’oro senza fargli capire di essere lui il vero custode del tesoro...
L’occhio gli corse lungo la tribuna, alla ricerca dell’orafo. A pochi passi da lui, il nuovo padre coscritto stava complimentandosi con Valerio da pari a pari, come un patrizio di antica schiatta.
«Che scomodi, questi cuscini: sembrano imbottiti con una coperta militare!» si lamentò il senatore alla sua destra, mentre cercava di sistemare il largo didietro sulla fragile sella d’onore.
«Adesso capisco!» gridò di nuovo Aure...