Angelicamente anarchico
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Angelicamente anarchico

Autobiografia

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  1. 126 pagine
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Angelicamente anarchico

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Informazioni sul libro

Il prete rosso, il prete di strada, il prete new global. Don Andrea Gallo è il fondatore della Comunità di San Benedetto al Porto di Genova, un'isola di solidarietà che accoglie persone in difficoltà: tossicodipendenti, ex prostitute, ex ladri, uomini e donne in transito da un sesso all'altro. È diventato celebre quando ha denunciato i fatti della scuola Diaz e di Bolzaneto in occasione del G8 genovese, diventando un'icona del mondo pacifista. Don Gallo, però, è soprattutto un uomo di Chiesa, profondamente convinto di indossare l'abito talare, e altrettanto convinto di poterlo fare in piena liber tà di pensiero e di azione. Un prete angelicamente anarchico, che in questo libro rivela il suo punto di vista rivoluzionario su temi complessi come la lotta alla droga, il new globalismo, la politica, e racconta di incontri straordinari con quell'umanità dolente che bussa alla sua por ta e con le tante star del mondo dello spettacolo e della politica, da Vasco Rossi a Romano Prodi, che lo amano e lo sostengono da anni. Ciò che ne viene fuori sono i frammenti di un grande e attualissimo romanzo verista, qualcosa di simile a quel mondo di "storie dignitose e disperate" messo in musica e parole dal suo concittadino Fabrizio De André.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852054068

Angelicamente anarchico

Stella

Lo chiamavano Stella. Era un transessuale brasiliano sbarcato in Italia con il sogno di diventare una ballerina. Nulla andò come aveva immaginato e finì sul marciapiede a fare la vita.
Alcune prostitute lo coinvolsero in una brutta storia che culminò con il suo violento pestaggio e il suo arresto. Il racket, infatti, mettendo insieme false testimonianze, fece in modo che le indagini sull’accaduto portassero proprio a lui, aprendogli ingiustamente le porte del carcere.
Dove si mette una transessuale in carcere?
Certo non con gli uomini. Né tantomeno con le donne. Finì nell’unica cella vuota, e vi rimase per parecchio tempo, sempre solo.
Amava il calcio e la musica. E io lo sapevo. In occasione del concerto “Amico fragile” dedicato a Fabrizio De André, Dori Ghezzi mi fece omaggio di parecchi biglietti chiedendomi di portare al Teatro Carlo Felice chi non c’era mai stato. Proposi a Stella di venire con me: accettò subito con entusiasmo. Pianse per tutta la durata del concerto.
Di storie come quella di Stella, Genova ne può raccontare milioni. Alcolisti innamorati della musica, transessuali sognatrici che sbattono la faccia contro la dura realtà, prostitute dall’animo candido e maîtresse con il cuore di panna. I miei occhi di prete di trincea sono abituati alle ombre dei bassifondi e al nero tragico della solitudine e dello sbandamento.

Sono un prete da marciapiede

Nella vita mi hanno apostrofato in ogni modo: chierico rosso, prete comunista, protettore dei tossici. Ma si sono dimenticati che sono anche amico delle prostitute, dei devianti, dei balordi, dei border line, dei migranti, di tutti coloro che viaggiano ai margini della società. Un prete da marciapiede, insomma. È lì che vivo, ogni giorno e ogni notte, cercando la speranza insieme alle persone che incontro. È lì che mi è stata insegnata la vita.
Il posto di un prete è fra la gente: in chiesa, per strada, in fabbrica, a scuola, ovunque ci sia bisogno di lui, ovunque la gente soffra, lavori, si organizzi, lotti per i propri diritti e la propria dignità. «Alzatevi!» dice il papa…
Nel mondo stanno aumentando ingiustizie e squilibri, i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. In Italia si stanno verificando fatti gravi, che ci allontanano dal quadro che avevano disegnato Dossetti, La Pira e gli altri Padri costituenti anche laici e comunisti. C’è allarme rosso su molti fronti: l’equità sociale, la giustizia, la scuola, la libertà dell’informazione. Stiamo davvero rischiando di vedere restringere il campo d’azione dei nostri diritti democratici. Sono bastati pochi anni di governo Berlusconi per rendere palese la precisa volontà dell’attuale maggioranza di distruggere le istanze collettive, le forme dello stare insieme, gli strumenti grazie ai quali organizzare la vita sociale. Se è il sindacato a fare resistenza, si bombarda il sindacato. Se i PM lavorano per difendere la legalità, il Parlamento confeziona leggi ad hoc per svilire il lavoro della magistratura. I centri sociali vengono criminalizzati.
Oggi in Italia non sono in gioco soltanto la scuola, la salute, l’occupazione; lo è anche la Costituzione della Repubblica, soprattutto i suoi primi dodici articoli, che ne racchiudono i principi fondamentali, e che fanno parte delle mie preghiere quotidiane.

Manu Chao e la promessa

Nella mia vita ho avuto il grande dono di incontrare personaggi veri, magari bizzarri e inaspettati, ma assolutamente veri.
L’incontro con Manu Chao è stato un segno, un incontro fra due persone che camminano domandando.
Manu era stato a Genova qualche tempo prima e il suo concerto aveva lasciato uno strascico di polemiche e un retrogusto amaro nella sua testa. Prima di partire per la nuova destinazione del suo tour dichiarò in un’intervista al “Secolo XIX”: “Genova, presto tornerò e lascerò un segno”.
Lo incontrai una sera a una riunione di preparazione delle manifestazioni di protesta previste in città in concomitanza del G8. Gli organizzatori ci informarono che Manu Chao era intenzionato a devolvere l’incasso del nuovo concerto genovese, che avrebbe tenuto qualche giorno dopo, a una iniziativa di solidarietà.
Allora i ragazzi della comunità cantavano sempre Clandestino e proprio in quei giorni stavano pensando di attrezzare un bar per offrire da bere ai tutti i migranti che avrebbero presenziato alle manifestazioni anti-G8. Non so come, ma nella mia mente scoccò la scintilla: «Manu, con i miei ragazzi farò il Bar Clandestino! Acqua e birra gratis per i sans papier e per tutto il movimento!».
Fu un attimo. Gli si illuminarono gli occhi e mi abbracciò: «Il Bar Clandestino… Andrea, è un’idea fantastica! Avrà l’incasso del concerto, promesso». E se ne andò soddisfatto.
Qualche sera dopo ebbe luogo il concerto e fu una festa eccezionale. A metà concerto partì una base musicale e Manu fece un discorso politico molto duro, contro le dittature e contro la globalizzazione. A un certo punto, pronunciò il mio nome e quello del Bar Clandestino. Io stavo dietro le quinte e in un attimo mi ritrovai sul palco di fronte a trentamila persone, che ballavano, ondeggiavano e sventolavano bandiere. Una sensazione bellissima, molto emozionante. Risposi sventolando anch’io il fazzoletto rosso che portavo al collo.
Poi dissi: «Visto che nessuno ha ancora provveduto ad accogliere come si deve voi e chi verrà qui a dire no alla globalizzazione, abbiamo pensato di organizzare un punto di ristoro durante il G8. Manu Chao è entusiasta dell’idea, lo chiameremo il Bar Clandestino. I potenti della Terra pensano che il mondo sia loro e vogliono decidere per tutti. È importante che ci siate tutti, a migliaia, qui, a dire no. I credenti a dire che la Terra è di Dio; i non credenti che la Terra è di tutti. In democrazia non esistono zone rosse, gialle e verdi. Hasta la victoria siempre».
Finito il concerto andammo a mangiare nella trattoria della mia comunità e facemmo mattina cantando e parlando come due vecchi amici. Perché io e Manu, pur non essendoci mai visti prima, eravamo già come due vecchi amici.
Qualche settimana dopo arrivò il suo manager. Inaspettato. Io me ne ero anche dimenticato. Bussò alla porta della comunità. Chiese di me. Si sedette alla mia scrivania, tirò fuori il libretto degli assegni e ne firmò uno: «Questo è per il Bar Clandestino».
Manu onorava la sua promessa.

Vittorio

Probabilmente Vittorio è il più bel giovane che abbia mai incontrato. Era alto, biondo, con gli occhi azzurro mare, un fisico possente e dotato di una naturale eleganza. Fuori e dentro aveva qualcosa di speciale, che lo differenziava nettamente dagli altri.
Lo conobbi sulla Nicolò Garaventa, la nave dove svolsi le funzioni di cappellano all’inizio degli anni Sessanta. Qui si imparava il lavoro del mare. Purtroppo oggi non esiste più.
Vittorio era il figlio illegittimo di una ragazza genovese e di un ufficiale nazista di stanza a Genova durante la Seconda guerra mondiale. L’aveva messa incinta e poi era scappato insieme ai suoi compagni d’arme senza più dare alcuna notizia di sé. La ragazza andò incontro a molti problemi, non ultimo la miseria nera di Genova nel dopoguerra. Finì per prostituirsi distruggendo quel pezzo di nucleo familiare che ancora resisteva.
Vittorio cominciò a vivere una specie di doppia vita: studiava con profitto nella nave-scuola e, nel frattempo, mitizzava la malavita locale. Era un ragazzo fantastico, pieno di interessi e di talento. Sapeva suonare, cantare, dipingere. Con lui avevo un rapporto speciale, di grande intesa e condivisione.
Un giorno, però, venne trovato con addosso dell’eroina. Aveva cominciato a farsi. Venne subito espulso dalla scuola e scomparve dalla mia vita.
Diverso tempo dopo, in piena notte, suonò al campanello della Comunità di San Benedetto. Lui era diventato un uomo. Rivederlo fu per me una grandissima gioia. Mi raccontò la sua vita dopo l’espulsione dalla Garaventa. Si era messo a svaligiare banche. Il suo ingegno e il suo talento avevano alleggerito i caveau di diverse banche svizzere, francesi, belghe. Il mio Vittorio dagli occhi azzurri era un famigerato rapinatore, ricercato da tutte le polizie europee. Mentre ero ancora sbigottito dal suo racconto, tirò fuori una mazzetta di soldi e mi chiese di cosa avessi bisogno. Al mio tentennamento vidi qualcosa lampeggiare nei suoi occhi. Il giorno dopo un camioncino scaricò davanti all’ingresso della comunità una lavatrice nuova di zecca. Sopra c’era un biglietto: “Per i ragazzi della tua comunità. Tuo Vittorio”.
Il nostro rapporto funzionò così per diversi anni. Ogni tanto, sempre nel cuore della notte, vestito di tutto punto e alla guida di automobili di gran lusso, Vittorio suonava al mio campanello e mi portava elettrodomestici, cibo, arredamento, tutto ciò che in qualche modo poteva essere utile alla crescita della comunità.
Una notte arrivò a mani vuote. Si sedette di fronte a me e mi confidò: «Andrea, ho l’AIDS». Non aveva mai smesso di farsi di eroina.
La comunità lo accolse nella struttura che si chiama “casa nostra”. In quei mesi mi raccontò della sua esistenza maledetta, di tutto quello che aveva fatto nel corso della sua vita di bandito e anche delle sciagure che lo avevano afflitto. Aveva seppellito tre mogli, morte tutte e tre in altrettanti incidenti stradali.
Arrivò il giorno in cui spirò.
Nei suoi occhi che si andavano spegnendo sono convinto di aver visto l’accettazione della morte, la speranza e non la disperazione, come accade al pescatore di De André.

Moni Ovadia non ha prezzo

Fra i tanti cari amici che la vita mi ha donato ce n’è uno speciale: Moni Ovadia. Abbiamo una sintonia e una comunanza di pensiero tali che una notte, dopo uno spettacolo, Moni disse ai suoi musicisti: «Se don Gallo diventa papa, mi converto al cattolicesimo».
Moni Ovadia è un appassionato studioso della cultura ebraica e, più in generale, delle religioni monoteiste. Conosce il Corano, la Torah, la Bibbia. Quando siamo insieme passiamo intere nottate a ragionare e a discutere sugli aspetti che accomunano le religioni, quelli che ne svelano i punti di contatto o le contrapposizioni.
Una volta mi disse: «Andrea, ho letto attentamente i testi sacri delle tre principali religioni del mondo. E sono arrivato alla conclusione che chi vuole dirsi musulmano, ebreo, cristiano e non è accogliente nei confronti degli altri non può dirsi né musulmano né ebreo né cristiano».
Ovadia mi ha raccontato di aver scoperto un termine che in ebraico antico ha un doppio significato: sta per sangue e anche per denaro. Questa scoperta l’ha portato a creare una bellissima immagine: “L’umanità di oggi è come un corpo in cui il sangue/denaro circola dal collo in su, cioè in minima parte. Ma nessuno si illuda. Prima o poi se il corpo non riceve il sangue/denaro anche dal petto in giù sarà tutto il corpo ad andare in cancrena”.

Rocco

Su di lui la caccia era sempre aperta. Il suo nome e le sue imprese da brigatista erano diventate l’incubo di un’intera città. Rocco Micaletto, il capo della colonna genovese delle BR, teneva in scacco le due anime “politiche” di Genova, quella del sindaco Fulvio Cerofolini, socialista, ex ferroviere, e quella del cardinale-principe Giuseppe Siri.
Le forze dell’ordine non riuscivano ad acciuffarlo. Carlo Alberto Dalla Chiesa, Antonio Esposito e Giuseppe Laganaro avevano rivoltato ogni angolo di strada nell’estenuante inseguimento di Micaletto. Correvano ad annusare negli antri più profondi della Genova operaia ogni qualvolta compariva misteriosamente la stella a cinque punte sul muro di una fabbrica. Si fermavano ad ascoltare gli slogan poco comprensibili tipo NÉ CON LO STATO NÉ CON LE BR o a decrittare tazebao firmati Tupamaros della Val Bisagno.
Tracce, indizi, ma la preda mai. Solo l’ombra, inquietante, del suo passaggio.
Un giorno piazza De Ferrari fu completamente circondata in seguito a una segnalazione. Anche lì, l’ombra riuscì a dileguarsi.
Rocco Micaletto è nato a Taviano, in provincia di Lecce, classe 1946. La sua vita, come quella di tanti ragazzi del Sud, fu segnata dal trasferimento a Torino per un lavoro alla Fiat-Rivalta. In poco tempo divenne rappresentante sindacale della CISL, che lo espulse “per incapacità e mancanza di serietà verso l’organizzazione e i suoi aderenti”. L’anno seguente iniziò la sua latitanza.
Abilissimo nel sembrare uno qualunque, di lui si persero subito le tracce. Non esistevano foto né qualcuno che potesse fornire un identikit aggiornato. Unico dettaglio noto: una delle sue narici era particolarmente grossa.
Tanto vaga la sua faccia, tanto precisa e terribile la sua nomea. Dalle sue mani scaturì un impressionante elenco di delitti. Micaletto organizzò il sequestro del giudice Mario Sossi, l’agguato al procuratore generale di Genova Francesco Coco, il sequestro del capo del personale dell’Ansaldo, Vincenzo Casabona, quello dell’armatore Piero Costa. Fu una delle menti organizzative della strage di via Fani e dell’omicidio di Aldo Moro. Ancora: l’omicidio del sindacalista Guido Rossa, dei carabinieri Vittorio Battaglini, Mario Tosa e Antonino Casu. Una catena di delitti impressionante che terminò solo nel 1980 quando venne arrestato a Torino, insieme con Patrizio Peci, uno dei primi brigatisti pentiti.
Ne parlo al passato non perché sia morto; al contrario, Rocco Micaletto è rinato, come se non fosse più quella persona. Oggi è un uomo libero, soprattutto da se stesso. Dopo ventiquattro anni di carcere, il tribunale di Genova ha riconosciuto la sua irreprensibile condotta e gli ha scontato circa duemila giorni di pena.
Il 18 febbraio del 2004 è venuto ad annunciarmi la sua ritrovata libertà. E non parlo solo della libertà fisica. «Andrea, dobbiamo festeggiare» mi ha detto.
Ci conosciamo dagli a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Angelicamente anarchico
  3. Prefazione
  4. Angelicamente anarchico
  5. Copyright