Non si può che cominciare da qui. Da un uomo piccolo piccolo, vestito, e da una donna enorme, naturalmente nuda.
René Magritte ha visto così, nel 1929, la Gigantessa che Baudelaire aveva descritto una settantina di anni prima nei Fiori del male.
Non si può che cominciare da qui. Da questa contemplazione insieme timida e possessiva, voluttuosa e terrorizzata. Dalla donna schiacciante, ma svestita di fronte all’uomo vestito di tutto punto che la guarda (con un braccio leggermente piegato e la mano, forse, in tasca), dalla donna «mostro» e insieme regina, dall’uomo accucciato che percorre «minuzioso» la «fastosa bellezza delle sue forme», ma nel contempo si domanda se nel suo cuore covi qualcosa di oscuro.
Ecco Baudelaire:
Nel suo splendido estro quando la Natura
a nuovi mostri ogni giorno dava luce,
avrei voluto vivere accanto a una fanciulla
gigante, come un gatto sensuoso a una regina.
Vedere insieme all’anima il suo corpo fiorire
e libero in terribili giochi crescere – e capire
dall’umida nebbia che fuma nei suoi occhi
la fiamma buia accesa nel suo cuore.
Minuzioso esplorare la fastosa bellezza
delle sue forme, scalare le sue ginocchia immense,
e a volte, d’estate, quando il torbido sole
l’atterra supina per tutta la campagna,
con distratta dolcezza addormentarmi all’ombra del suo seno
come un borgo tranquillo appiè d’una montagna.*
René Magritte, La Gigantessa (1931)
Non crediate che sia una questione rarefatta, intellettualistica. No, Baudelaire e Magritte erano uomini pure loro. Per quanto geniali, uomini. E la questione è (può essere) anche molto semplice, diretta. Direi terra terra, se non temessi di essere fraintesa.
Nel senso che la terra è quella che dà i frutti, che ti sostiene, ma è anche quella con cui ti sporchi le mani.
Ve la ricordate la gigantessa di Federico Fellini, quella smisurata Anita Ekberg che, in Boccaccio ’70, dall’alto di un cartellone pubblicitario esortava a «bere più latte», turbando i sonni del moralista Antonio Mazzuolo interpretato da Peppino De Filippo? Il dottor Antonio vuole cancellarla, defiggerla, distruggerla, ne è terrorizzato; eppure, chiaramente, impazzisce per lei.
Ambivalenza. Desiderio e paura. Attrazione e prudenza. In qualche caso repulsione, addirittura. È una delle costanti in cui mi sono imbattuta.
La donna può far paura a un uomo, o stupirlo, in mille modi. Con una sua decisione, con una frase, con un modo di fare, con un gesto o anche solo con un’espressione del volto. Ma, soprattutto, con il corpo. Perché il corpo della donna è un segreto da scoprire, un segreto molto più complicato e nascosto (Baudelaire lo associa alla nebbia, e naturalmente all’aggettivo «umido», quello che si riserva alle grotte, alle spelonche, alle cantine) rispetto al corpo dell’uomo. Perché il corpo della donna è più interno che esterno. Può riservare delle sorprese.
E non è tutto: perché anche l’anima della donna può spiazzarti, lasciarti disorientato. Quell’anima che, scrive sempre Baudelaire, fiorisce insieme al corpo e, come quest’ultimo, cresce in «terribili giochi».
Terribile. Agli uomini, qualche volta, noi donne possiamo fare paura.
Il terrazzo
C’è quello che è rimasto sconvolto perché, una sera, una donna – una signora sposata, tiene a precisare; con figlioli, tiene a precisare – ha voluto fare l’amore con lui su un terrazzo ben esposto.
«Cioè,» mi dice «non è che fosse pieno giorno, però era un terrazzo con la via sotto, bella trafficata, e c’era gente che andava e veniva, e le macchine che si fermavano al semaforo e ripartivano, e quello che portava a spasso il cane. Insomma, bastava uno sguardo in alto e ci avrebbero beccati in pieno. Ma era quello che cercava. Voglio dire, il rischio, meglio ancora, l’alta probabilità di essere visti. Era sostanziale, me l’ha fatto capire chiaramente. E la cosa mi ha sconvolto. Non è così frequente che una ti chieda una cosa del genere, e voglia farla a tutti i costi.»
Tanto più se non è la tua compagna, se la conosci poco ed è sposata – con figlioli – e, insomma, non dovreste essere lì a fare quelle cose.
Figuriamoci sul terrazzo.
«Ero lì, nel buio, una sera qualunque di quasi estate, con la luna in cielo, e c’era questa donna che me lo stava succhiando. Ti pare una situazione normale?»
Dimmelo tu.
«Per me, no. Niente affatto.»
Che è successo, poi?
«Poi abbiamo fatto anche il resto. Senza mai spostarci dalla ringhiera. E lei non faceva una piega. Era chiaro che voleva avere gli occhi addosso. Sperava che qualcuno la vedesse.»
Era sposata, però voleva essere vista. Forse la eccitava proprio il rischio di essere beccata, di essere sorpresa a fare una cosa proibita.
«Credo. Sì, è possibile.»
Qualcuno vi ha visti?
«Che ne so. Io non guardavo. Forse sì, forse no. Spero di no, visto che eravamo a casa mia. Ma la cosa più sconvolgente è che, per me, quella cosa non era normale. Per lei, sì. Come se fosse un pompino qualunque, una scopata qualunque. Mica si poneva il problema che io... che ne so, che potessi pensare che era una perversione, che lei era una troia...»
E tu cosa pensavi, in effetti?
«Che era una troia.»
Ecco.
«Senza offesa.»
Naturalmente.
«Nel senso che le piaceva il cazzo.»
Di bene in meglio.
«Ma no, voglio dire che il marito aveva altre storie, lei faceva altrettanto e tutti e due sapevano, ma facevano finta di niente. Le piaceva il sesso. Bella, attenta al fisico, tutta curata, depilata, che ti devo dire? Le piaceva proprio, se le pensava di notte secondo me. E quella cosa mi ha sconvolto.»
Quindi era semplicemente una che voleva divertirsi.
«Sì. Esatto.»
E che cosa c’entrano le prostitute, le troie?
«Nulla, ovviamente. C’è anche un senso positivo in cui uno può dirlo.»
Già. Perché puoi essere uno stimato professionista ultraquarantenne e incontrare una donna che fa una cosa che non ti aspetti. E questo ti sconvolge.
Ma c’è un altro dato singolare in questa storia (che ho ritrovato spesso nei miei interlocutori, con leggere variazioni ma con una sostanza piuttosto stabile): quella che, per rispetto, eviterei di chiamare confusione, ma certo è un’oscillazione terminologica.
Per quanto possa sembrare indigesto o decisamente inaccettabile – e io non ho dubbi: lo è –, non sempre il termine «troia», con tutte le varianti possibili e immaginabili, viene utilizzato con l’intento di offendere.
«Senza offesa» dice lui, infatti. Sembra incredibile, ma «troia», certe volte, può essere semplicemente sinonimo, me lo hanno chiarito in diversi, di (uso le loro parole) «gran vacca», «vera porca», ossia una constatazione della libertà e della disinvoltura sessuale della destinataria dell’aggettivo, della sua capacità di cercare e dare il piacere, cioè, per quanto assurdo possa risultare, una valutazione tendenzialmente positiva.
«Non c’è nessun disprezzo. Per carità.»
Per carità.
«Giuro. Se preferisci, uso il termine “vacca”. Ma sempre senza disprezzo, eh!»
Va bene. Andiamo avanti.
La cometa
Ma lo stupore non è di un unico tipo. La gigantessa può sconcertare in mille modi. Lasciarti letteralmente a bocca aperta. Non con qualcosa che fa, che sceglie, che decide magari inaspettatamente. No: con il suo solo corpo, che può incantarti o terrorizzarti come, che so, un precipizio, un ghiacciaio incombente o una di quelle creature tutte sghembe che vivono nel buio degli abissi.
«È stata una delle poche volte che sono rimasto davvero senza fiato» dice un quasi cinquantenne, sposato e con diversi figli (quando gli chiedo quanti, resta un attimo spiazzato e se ne esce in un movimento congiunto della mano e del volto come a dire «un sacco», quasi non sapesse, così su due piedi, precisare quanti. In realtà sono tre).
Sulla circostanza in cui è rimasto davvero senza fiato non ha dubbi: è stato quando una ragazza, quella che poi ha sposato, gli si è spogliata davanti per la prima volta.
«Non so spiegare. L’avevo già vista una ragazza nuda. Cazzo, altroché. Avevo venti...» anche qui, qualche secondo per far mente locale, «...ventiquattro anni e di ragazze ne avevo già viste parecchie.»
Seguono un paio di minuti in cui fa il figo con tutte le sue conquiste del liceo, dell’università e del primo lavoro, ma non sono particolarmente interessanti. Quindi riprende: «E insomma, a un certo punto andiamo insieme in questa mansarda che mi aveva prestato un amico, in cambio gli avevo dato la macchina che mi ha pure rigato, ma ne valeva la pena, tornassi indietro e mi dicesse “te la sfascio” mi andrebbe bene lo stesso...».
Qual è il punto?
«Il punto era lei. Nel senso che abbiamo bevuto del vino che c’era in frigo, abbiamo fumato una sigaretta a testa e abbiamo parlato. Poi ci siamo baciati, poi ho iniziato a spogliarla, ma lei non ha voluto che lo facessi io. L’ha fatto lei. Si è messa in piedi accanto a letto, io ero lì disteso, e ha cominciato a togliersi i vestiti. Né lenta né veloce, cioè non era uno spogliarello di quelli tutti costruiti, e nemmeno una cosa di servizio, mi spoglio perché ho voglia. Era una cosa, non so, una cosa naturale.»
Ma agli uomini non piacevano le cose costruite, coreografate, gli spogliarelli tutti con la mossa giusta, l’intimo mozzafiato e l’ammiccamento rovente?
«Che ne so. So solo che quella cosa lì, lei davanti a me che si spogliava con quella disinvoltura, valeva mille Crazy Horse.»
Altro luogo comune che cade. Poi che è successo?
«Un minuto dopo era completamente nuda, e io non avevo mai visto, proprio mai visto, una cosa del genere.»
Una cosa del genere? Che cosa può avere di così sconvolgente il corpo di una donna? Non era come gli altri? Due braccia, due gambe...
«Non scherziamo. Io un corpo così non l’avevo mai visto. C’era una luce accesa nella stanza vicina, e lei era un po’ in luce e un po’ in ombra, e la prima cosa che mi ha colpito è stata la schiena. Lei era di profilo, e la schiena faceva una curva, un arco... Sembrava una specie di collina, non so, e poi con quella pelle così liscia, così uniforme, con un colore chiaro che non so dire neanche cosa sembrava, perché non somigliava a nient’altro...»
Non starai idealizzando un tantino?
«Ma no. Mica me la sono immaginata. Era vera, perché poi l’ho toccata, eccome. Non era un quadro, era fatta di carne.»
Va bene. L’arco della schiena. Poi? Che altro ti ha colpito?
«Il culo.»
Meno male. Stavamo andando troppo sul poetico. Mi stavo preoccupando.
«Come lo devo chiamare?»
Come vuoi, ovviamente.
«Be’, ma non è mica una brutta parola. Soprattutto,» ride «non è affatto una brutta cosa. Al fondo di quell’arco, voglio dire della schiena, di colpo tutto si svasava, e c’era quel culo rotondo, incredibile. E dall’altra parte le tette, la grandezza giusta, perfetta...»
Qual è la dimensione giusta, scusa?
Un attimo di pausa.
«Be’... la dimensione che quella forma si può permettere. Cioè, è tutto commisurato. Ci sono forme di tetta che reggono una quarta, una quinta, ma che sarebbero ridicole per una tettina appena pronunciata. E viceversa. E poi c’è il rapporto con il resto del corpo, l’equilibrio fra il seno e la schiena, i fianchi, il culo... Mi spiego?»
Chiarissimo. E poi? Solo schiena, tette e culo?
«No, no. Sopra c’erano due occhi enormi, e i due occhi enormi guardavano me, volevano me. Sono rimasto senza fiato. Ero sconvolto.»
Che vuol dire sconvolto?
Parla a bassissima voce: «Che lì per lì non mi è venuto neanche duro. Mi sono detto: con un corpo così non ce la posso fare. Mi accontento di stare a guardare».
Quindi non ce l’hai fatta.
«Calma. Per qualche minuto. Poi tutto è tornato al suo posto.»
Naturalmente.
«Davvero. Però quel lampo iniziale non me lo dimenticherò mai. Come una cosa che non era di questo mondo. Hai presente quando uno guarda una cometa che poi non ripassa più per altri cinquantamila anni? Ecco, qualcosa del genere.»
Pura meraviglia.
È difficile che la descrizione del corpo di una donna da parte degli uomini sia neutra. C’è sempre un che di eccessivo. Appena si lasciano andare, le mezze misure collassano e spariscono, sicché una diventa un «cesso» oppure una «figa spaziale», senza alcuna concessione alle sfumature, a tutte le possibili (e virtualmente infinite) mezze misure.
La donna-razza
Ma il corpo della donna non sconvolge soltanto per eccesso di incanto. Capita anche – e qui torniamo alla gigantessa di Baudelaire/Magritte, alla nebbia, all’umidità,...