Nessuno può toglierti il sorriso
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Nessuno può toglierti il sorriso

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  1. 156 pagine
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Nessuno può toglierti il sorriso

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Informazioni sul libro

"Valentina Pitzalis è morta il 17 aprile 2011. Quel giorno mio marito mi ha cosparsa di cherosene e mi ha dato fuoco. Quel giorno la Valentina che ero sempre stata, la ragazza carina, piena di vita, prospettive e sogni per il futuro, è bruciata tra le fiamme di un inferno senza senso. Non so perché tutto questo sia successo proprio a me. Me lo sono chiesta tante, troppe volte in questi anni, così come mi sono ripetuta, ogni giorno, che lui non era un mostro, ma aveva fatto, questo sì, una cosa mostruosa. So per certo però che la persona che sono oggi è stata più forte di tutto e di tutti. Ho compreso che di fronte alle avversità, di fronte a tragedie come la mia la cosa che conta è trovare la forza di reagire. Ho scelto di reagire, ho scelto di vivere, ho scelto di cercare di essere un esempio per chi crede di non avere quella forza dentro di sé, perché io... la depressione non me la posso permettere, non più. Quello che, più di tutto, mi ha dato la forza di arrivare fin qui è stata la speranza di poter aiutare tutte le donne che vivono, magari ancora senza essersene rese veramente conto, situazioni di coppia come la mia. Sono felice di poter alzare una mano sola, sono felice di avere i miei occhi senza ciglia e sopracciglia, sono felice di avere le mie gambe coperte di cicatrici. Semplicemente, sinceramente, incredibilmente... ho trovato la forza per non smettere di sorridere e sono felice di vivere!"

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852049811

Maledizione... sono ancora viva

Voci, rumori, passi... poi degli aghi in quello che restava del mio povero corpo, e la sofferenza riesplose.
Ancora dolore...
Un dolore sordo, costante, persistente.
Il dolore della tragedia, che sento riaffiorare ogni volta che mi guardo allo specchio, ogni volta che cerco di sollevare la mano destra, ogni volta che cerco di pettinare ciò che resta dei miei capelli.
Capelli, mano, occhi... niente sembrava rimasto quando il rogo si spense all’alba di quel 17 aprile.
Giunta in ospedale, nessuno era pronto a scommettere sulla mia sopravvivenza.
Al pronto soccorso di Carbonia si trovarono di fronte a una situazione estrema che non erano attrezzati ad affrontare. L’unico reparto Grandi Ustionati della Sardegna si trova a Sassari.
Prima di trasferirmi, i medici, vista l’estensione e la profondità delle ustioni, dovettero stabilizzare le mie condizioni.
Avevo riportato gravi lesioni al sistema respiratorio.
Le mie urla avevano permesso alle fiamme di entrarmi in bocca e ustionarmi lingua, laringe e trachea, dove si erano già formate delle bolle, con il rischio che, nel giro di poche ore, sopraggiungessero anche degli edemi che, gonfiandosi, avrebbero potuto causare il mio soffocamento.
I medici decisero, anche a causa del mio stato di estrema agitazione, di intubarmi subito e di indurmi il coma farmacologico.
Mentre il personale medico cercava disperatamente di salvarmi, un’altra tragedia stava per consumarsi.
I carabinieri arrivarono a casa mia e chiesero a mia madre se una certa “Daniela” Pitzalis abitasse lì.
Mia madre all’inizio si sentì sollevata, ma subito dopo ebbe un cattivo presentimento, pensò immediatamente a Manuel e chiese: “Cosa le ha fatto?”.
Il suo cuore temeva che prima o poi sarebbe accaduto qualcosa, ma non poteva certo immaginarne la portata.
Corse in ospedale con mio padre ma non poterono entrare a vedermi.
Impotenti e spaventati, senza rassicurazioni sul mio stato, i miei genitori decisero di fare l’unica cosa che avrebbe potuto tenerli occupati e far capire loro cosa fosse davvero successo: andarono a casa di Manuel.
Un carabiniere impedì loro di entrare perché c’era un cadavere.
Fu in questo modo che appresero della sua morte.
Nel frattempo, da Carbonia decisero di trasferirmi a Sassari, dove, allertato dai miei genitori, ci sarebbe stato ad attendermi “zio” Giuseppe, un nipote di mia nonna, medico ortopedico molto conosciuto e stimato, che da quel momento in poi sarebbe stato un grande sostegno, umano e professionale.
Quando arrivai all’ospedale Santissima Annunziata di Sassari, la dottoressa Posadinu, responsabile del centro Grandi Ustioni, non era in servizio.
Un’infermiera la chiamò al cellulare: “Dottoressa, deve venire subito. È appena arrivata una ragazza a cui hanno dato fuoco”.
“In che condizioni è?”
“Gravissime. Ha ustioni ovunque, ma soprattutto il viso è completamente carbonizzato. Non capiamo cosa sia rimasto. Venga il prima possibile.”
Quando la dottoressa arrivò, si trovò di fronte a una situazione drammatica: il fuoco non aveva risparmiato neanche un centimetro del mio volto e, tra la pelle carbonizzata e la fuliggine, ero completamente nera e arsa come un tizzone.
I medici mi dissero, molti mesi dopo, che la pena e il disagio erano le prime sensazioni che provavano avvicinandosi a me.
Io sono sempre stata molto freddolosa e, quel 17 aprile, quando arrivai a casa di Manuel ero piuttosto coperta: indossavo una maglietta intima di cotone, due felpe, un giubbotto di lana pesante, un paio di pantaloni larghi e un paio di scarpe da ginnastica. Al collo una kefiah, che parzialmente protesse quella parte del mio corpo durante il rogo.
Il fuoco non trovò tessuti sintetici sul suo cammino e i danni maggiori furono sulle parti scoperte, viso e mani.
Entrambi erano ridotti malissimo e la dottoressa Posadinu era preoccupata perché non riuscivano a vedermi gli occhi.
L’oculista cercò di verificare se il bulbo oculare fosse danneggiato, ma non era in grado di esplorare le palpebre perché tutto il volto sembrava “fuso” insieme.
Era impossibile fare previsioni sulla mia sopravvivenza.
I miei erano sconvolti, annientati, disorientati di fronte a qualcosa che non sapevano come affrontare.
Non vedevano possibilità di recupero e nessun medico poteva offrirgliele: “Signori, non possiamo dirvi molto sulla situazione di vostra figlia. Stiamo facendo del nostro meglio, ma viste le sue condizioni e lo stato delle mani e degli occhi, potrebbe anche non farcela. In questo momento non possiamo sciogliere la prognosi”.
Sembrava uno di quegli appassionanti episodi del dottor House. Lui, però, trovava sempre la soluzione a tutti i casi, anche a quelli più difficili, mentre in quel momento io potevo morire o, se mi fossi salvata, avrei potuto ritrovarmi cieca e senza mani.
La dottoressa Posadinu fece di tutto perché ciò non accadesse, lottando anche contro i miei genitori, che all’inizio arrivarono addirittura a pregare perché non sopravvivessi, perché, conoscendomi, sapevano che non avrei mai sopportato di vivere ridotta in quel modo.
In quella vera e propria corsa contro il tempo, si dovette decidere quali interventi fossero prioritari: per prima cosa fui portata in sala operatoria per aprirmi le palpebre, completamente ristrette e raggrinzite, che stavano schiacciando il bulbo oculare e potevano danneggiarlo irrimediabilmente.
I miei occhi rivelarono un grave danno al nervo ottico e i medici utilizzarono una terapia con siero autologo, un trattamento che si avvale di una parte del sangue centrifugato del paziente, nel quale sono contenute proteine e importanti fattori di crescita e riparazione per i tessuti danneggiati.
Fu terribile quando, dopo un paio di giorni, mi svegliarono dal coma farmacologico indotto. “Dove sono? Cosa è successo?” pensai.
Le sensazioni erano amplificate dal fatto di non poter aprire gli occhi, perciò tutto si svolgeva “dentro” di me.
Intubata, non potevo nemmeno parlare, con le vie respiratorie danneggiate e i polmoni pieni di fuliggine che furono ripuliti più volte.
Allo stesso tempo, si doveva intervenire sul braccio sinistro, che era irrimediabilmente compromesso: la dottoressa Posadinu cercò in tutti i modi di salvarlo, ma fu costretta ad arrendersi di fronte alla necrosi e ad amputare la mano sinistra, sperando che bastasse. Dopo pochi giorni dovette amputarne ancora una parte e poi intervenire di nuovo per sistemare il moncherino. Con tenacia e professionalità riuscì a salvarmi l’avambraccio e l’articolazione del gomito.
A oggi, non so dire se io sia riuscita sino in fondo ad accettare quell’amputazione. Soltanto dopo molto tempo, trovato il coraggio di vedere le foto del braccio sinistro, mi resi davvero conto che non si poteva fare altrimenti.
Una cosa che non compresi subito e mi spaventò, ma con la quale dovetti imparare a convivere, fu la sindrome dell’“arto fantasma”, la sensazione anomala della presenza di un arto dopo la sua amputazione. Nella mia testa, infatti, ero convinta di muovere entrambi gli arti, perché continuavo a percepire la presenza della mano amputata, come se facesse ancora parte del mio corpo.
Non potendo parlare, né urlare o far esplodere tutto il dolore e la rabbia che avevo dentro, muovevo le labbra chiedendo di farmi morire. “Voglio morire. Mi sentite? Non fate finta di non capire. Basta. Voglio che facciate smettere tutto questo. Chi siete per farmi vivere così?”
“Mi capiranno?” pensavo. “Quanto deve durare ancora? Non vedono come sto male? Bruciata, senza voce, senza occhi. Loro la vorrebbero una figlia, una moglie, un’amica così?”
Dopo dieci giorni mi fecero una tracheotomia, posizionandomi una cannula a livello tracheale per consentirmi di respirare meglio ed evitare i rischi di patologie o infezioni ai polmoni.
La mano destra era ridotta malissimo e tutti avevano paura che anche quella venisse amputata. Fortunatamente la dottoressa Posadinu vinse una scommessa che pochi sarebbero stati disposti ad accettare e per questo non finirò mai di ringraziarla.
Dopo la rianimazione, mi trasferirono in pianta stabile nel reparto Grandi Ustionati: ci arrivai senza capire cosa avessi intorno. Non vedevo nulla ma sentivo la testa esplodermi per la fasciatura così stretta che mi sembrava una morsa di metallo.
Avrei tanto voluto far capire come mi sentivo e fare domande su quello che mi stava capitando: “Non posso scrivere né parlare. Non vedo nulla. Perché mi sono salvata? Ho paura. Cosa ne sarà di me?”.
L’altra grande sfida che la dottoressa Posadinu si trovò ad affrontare era ciò che restava del mio volto.
Sembravo un pallone di cuoio, teso, duro e gonfio.
Quell’aspetto era normale e si doveva al fatto che i tessuti, bruciando, si erano induriti, fino a comprimere e gonfiare quelli sottostanti.
Il primo intervento al viso servì per asportare ciò che restava dell’epidermide, raschiando via il derma e tutto lo strato sottocutaneo, mettendo a nudo i muscoli e, in alcuni punti, anche le ossa.
Cominciarono subito gli innesti con tessuti prelevati dalle poche parti del corpo che non erano bruciate, in particolare dalle mie cosce.
Il tessuto delle gambe e delle cosce ha, però, quella che viene definita una “texture” diversa, e quindi la dottoressa Posadinu cercò di trovare nei fianchi epidermide adatta per il trapianto.
Le mie gambe furono martoriate a lungo: ancora oggi sono le mie più grandi fornitrici ufficiali di derma e si gonfiano con facilità quando sto troppo in piedi o quando fa troppo caldo.
Per le palpebre, la dottoressa andò a selezionare dei piccoli lembi del braccio destro e, poiché si ritraevano in continuazione, fu costretta a innestare tessuto per ben tre volte.
Una, due, tre... entravo e uscivo dalla sala operatoria. Persi il conto, ma cosa importava? Tanto sarei morta, quel supplizio non poteva andare avanti ancora per molto.
Il mio voltò diventò un collage di tessuti innestati. “Avranno fatto così anche con Frankenstein?” mi chiedevo. “Cosa diventerà il mio volto, chi c’è sotto queste bende?”
La dottoressa dovette inserire un derma rigenerativo con del silicone detto Integra.
Fino a quel momento per me il silicone poteva essere al massimo qualcosa usato per riempire gli spifferi nelle porte e nelle finestre. Integra, invece, è il nome di una matrice di rigenerazione dermica che consente di coprire la ferita e di rigenerare il derma in maniera permanente.
Mi spiegarono che questa sorta di “tessuto sintetico” appoggiato sulla parte esposta era in grado di farsi “colonizzare” dai vasi sanguigni, diventando così uno strato di tessuto nuovo.
Parole, parole, parole... quante ne sentii... Ma in quel letto c’ero io. A patire il giudizio universale, c’era ciò che restava di me e mi sentivo come una macchina in officina: ripara, sostituisci, aggiusta, riempi, togli...
I chirurghi erano i miei “meccanici”: sul viso fecero dei trattamenti con trapianto di grasso autologo, il tessuto adiposo prelevato da altre parti del mio corpo (addome e fianchi) e inserito per riempire e ridefinire il volto, migliorandone notevolmente l’aspetto.
Dopo ogni innesto bisognava lasciar attecchire il derma e si dovevano fare molti massaggi perché la pelle tende a diventare coriacea. Quanti massaggi mi fecero, e con quanta passione, delicatezza e umanità...
Quanto prurito sentivo! Una sensazione insopportabile. Che voglia di grattarmi e che rabbia non poterlo fare...
Potevo solo stare sdraiata in un’unica posizione: muovermi era impossibile e ogni volta che venivo spostata per le medicazioni, con un macchinario che mi imbragava e mi sollevava dal letto, era un supplizio. Ogni angolo del corpo mi faceva male e anche il semplice contatto con il lenzuolo poteva causarmi una sofferenza indicibile.
Ero talmente imbottita di farmaci e antidolorifici che le transaminasi schizzarono alle stelle. I medici dovettero faticare non poco per convincermi che l’abuso era troppo pericoloso e che rischiavo anche danni al fegato e ai reni.
Io però volevo essere sedata. Volevo non provare più dolore o almeno non così tanto, anche perché, non potendo urlare, ero in grado di farmi capire solo attraverso le mie continue smorfie di sofferenza.
Dentro di me, però, urlavo, eccome se urlavo.
Gli scherzi che il mio cervello mi fece in quel periodo sono stati davvero tanti.
Ricordo che il primo mese ero addirittura convinta di fare ginnastica a letto. Mi dicevo che tutto quel tempo sdraiata immobile non faceva bene e che dovevo muovermi e fare degli esercizi per il tono muscolare. Così muovevo i piedi, piegavo le ginocchia, muovevo le braccia, cercando di ricordare gli esercizi di ginnastica artistica che facevo da piccola... Tutto questo avveniva solo nella mia mente, anche se dopo quelle sessioni ginniche mi sentivo stanca davvero!
Il personale medico mi disse che, in realtà, mi agitavo solo tantissimo, facendo impazzire i dati del saturimetro, lo strumento che attraverso una piccola sonda permette di visualizzare la frequenza e l’intensità delle pulsazioni cardiache, e costringendo gli infermieri a correre per verificare le mie condizioni.
Nei mesi in cui rimasi immobile a letto il solo posto dove poterono posizionarlo fu l’alluce del piede sinistro...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Nessuno può toglierti il sorriso
  3. La mia anima gemella
  4. L’inizio della fine
  5. La ricaduta
  6. La mia rinascita
  7. La discesa agli inferi
  8. Maledizione... sono ancora viva
  9. I mostri sudano dentro e vedono le ali di pollo
  10. Morgana
  11. I miei angeli e la musica
  12. Le “pirle” di saggezza
  13. Aspettando Vargana
  14. Epilogo
  15. Ringraziamenti
  16. INSERTO FOTOGRAFICO
  17. Copyright