I ribelli d'Irlanda
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I ribelli d'Irlanda

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  1. 854 pagine
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I ribelli d'Irlanda

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Nella seconda parte della sua avvincente saga storica, Edward Rutherfurd riprende la narrazione dal punto in cui l'aveva lasciata ne I Principi d'Irlanda, alle soglie del diciassettesimo secolo. Attraverso le appassionanti vicende dei Doyle, dei Walsh, dei Tidy e degli Smith siamo guidati nel turbolento periodo della Riforma e della devastante irruzione sulla scena di Oliver Cromwell, e poi giù giù per i secoli fino alla Prima guerra mondiale. Gli intrighi di potere, la ribellione, gli amori, la natura, la pietà: il destino di una terra affascinante e tormentata rivive in questa epopea, in cui il rigore storico si fonde con il senso dell'avventura e l'attenzione dettagliata alla realtà quotidiana. Lo stile diretto e intrigante di Edward Rutherfurd ne fa un'opera avvincente e di largo respiro, nella quale riecheggiano le suggestioni della tradizione culturale irlandese, da Swift a Yeats e Joyce.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852053573

Colonie

1597
Il dottor Simeon Pincher sapeva tutto dell’Irlanda.
Simeon Pincher era un uomo alto, magro, quasi calvo, tra i venti e i trent’anni, dal colorito giallastro e dai severi occhi neri fatti per il pulpito. Era un erudito: laureato, membro dell’Emmanuel College all’università di Cambridge. Ma, quando gli era stato offerto un incarico presso il Trinity College di Dublino, un istituto di recente fondazione, era accorso con una solerzia tale da lasciare a bocca aperta i suoi nuovi superiori.
“Verrò immediatamente” aveva scritto in risposta “per dedicarmi all’opera di Dio.” Dichiarazione che non aveva bisogno di commenti.
La sua decisione non era stata dettata soltanto dal fermo zelo di un missionario. Prima ancora del suo arrivo in Irlanda, il dottor Pincher si era attentamente informato sul conto degli abitanti dell’isola. Sapeva, per esempio, che gli irlandesi puri, come erano adesso definiti in Inghilterra gli indigeni dell’Irlanda, erano peggio degli animali e che di loro non ci si poteva fidare: erano cattolici, no?
Però, la convinzione che gli irlandesi puri fossero inferiori non fu l’unica che il dottor Pincher portò con sé in Irlanda. Egli riteneva infatti che, dall’inizio dei tempi, Dio li avesse di proposito destinati – assieme ad altri, naturalmente – a bruciare nell’eterno fuoco dell’inferno. Simeon Pincher era infatti un seguace di Calvino.
Per comprendere la sua interpretazione degli ostici insegnamenti del grande riformatore protestante, bastava prestare orecchio a uno dei suoi sermoni, e ciò perché era già considerato un ottimo predicatore, assai lodato per la sua chiarezza.
“La logica del Signore” affermava “è perfetta al pari del suo amore. E siccome siamo dotati della facoltà della ragione, che Dio nella sua infinita bontà ci ha concesso, noi siamo in grado di vedere quale sia il suo proposito.” Protendendosi un po’ verso gli uditori per accertarsi della loro attenzione, il dottor Pincher spiegava poi: “Meditate: è innegabile che Dio, fonte di tutte le conoscenze – a paragone delle quali persino le ere non sono che un battito di ciglia –, nella sua infinita saggezza, non possa ignorare gli eventi passati, presenti e futuri. Ne deriva che anche adesso Dio sa perfettamente chi il Giorno del Giudizio sarà salvato e chi, invece, verrà gettato nel baratro dell’inferno. Sin dall’inizio egli ha stabilito ogni cosa, né può essere altrimenti. Anche se, nella sua misericordia, ci ha lasciato all’oscuro del nostro destino, alcuni sono già stati prescelti per il paradiso e altri per l’inferno. La logica divina è assoluta, e tutti i credenti devono tremare di fronte a essa. Coloro che sono prescelti, coloro che saranno salvati, noi li chiamiamo ‘gli eletti’. Tutti gli altri, dannati dall’inizio, periranno. E dunque” e a questo punto scrutava l’uditorio con uno sguardo terribile “potete senz’altro chiedervi: ‘Io chi sono?’.”
La tetra logica della dottrina della Predestinazione di Calvino era difficilmente confutabile. Senza dubbio Calvino era un uomo profondamente religioso e di buone intenzioni, e i suoi seguaci si sforzavano di far propri gli amorosi insegnamenti dei Vangeli e di vivere onestamente, senza esimersi da un assiduo e caritatevole lavoro. Ma, per certi critici, la sua visione religiosa comportava un rischio: praticare la dottrina calvinista avrebbe potuto essere eccessivamente arduo. Trasferitosi dalla Francia in Svizzera, Calvino aveva insediato la sua Chiesa a Ginevra. Le regole che governavano la sua comunità erano più rigide di quelle dei protestanti luterani, e Calvino credeva che lo Stato dovesse imporle. Sotto quel rigido sistema morale – e denunciando i vicini alle autorità per qualsiasi atto che contrastasse con la legge di Dio –, i membri della sua congregazione cercavano non soltanto di guadagnarsi un posto in paradiso, ma anche di provare a se stessi e al mondo che erano davvero gli eletti, predestinati e già scelti per il regno dei cieli.
Ben presto comunità calviniste erano sorte in altri paesi d’Europa. Se i presbiteriani scozzesi erano noti per la loro ligia adesione alle dottrine della Predestinazione, nella Chiesa d’Inghilterra e in quella d’Irlanda si respirava ormai un’aria calvinista. “Soltanto i devoti fanno parte della Chiesa” sostenevano le congregazioni.
Ma era possibile che alcuni membri della comunità non fossero stati prescelti per il paradiso? “Senza alcun dubbio” affermavano i calvinisti: qualsiasi ricaduta nel vizio poteva esserne un’indicazione. E in ogni caso, come dichiarava il dottor Pincher in uno dei suoi più bei sermoni, restava pur sempre una grande incertezza.
“Nessuno conosce il proprio destino. Noi siamo come uomini che attraversano un fiume gelato, scioccamente incuranti del fatto che, da un momento all’altro, il ghiaccio potrebbe spaccarsi, fendersi e farli precipitare nelle acque gelide, sotto le quali, celate in profondità, ardono le fiamme delle fornaci infernali. Evitate, dunque, di gonfiarvi di orgoglio perché seguite la legge delle Scritture; ricordatevi sempre che siamo tutti miserabili peccatori e siate umili. Perché questa è una divina trappola alla quale non c’è scampo. Tutto è predestinato, e la mente di Dio, essendo perfetta, mai cambierà.” Poi, volgendo lo sguardo alla sua sconsolata congregazione, il dottor Pincher gridava: “E anche allora, se Dio lo ha decretato, può darsi che siate dannati, ma io vi esorto a stare di buon animo. Ricordate infatti che, per quanto dura sia la strada, ci è stato comandato di sperare sempre”.
Poteva esserci speranza per alcuni di coloro che non facevano parte della congregazione calvinista? Forse. Nessuno poteva conoscere la mente di Dio. Sembrava però improbabile. Soprattutto per gli appartenenti alla Chiesa cattolica il futuro appariva buio. Non indulgevano infatti a superstizioni e non adoravano i santi come idoli, azioni esplicitamente vietate dalle Scritture? E non avevano avuto occasione di fare ammenda dei propri errori? Al dottor Pincher sembrava che tutti i seguaci del papa di Roma fossero senz’altro sulla via della perdizione, e che i nativi dell’Irlanda, il cui pessimo carattere era ben noto, con ogni probabilità fossero già nelle grinfie del diavolo. Possibile che non potessero salvarsi, se si fossero convertiti? Non v’era dunque rimedio alla loro condizione? No. Il loro peccato, agli occhi del dottor Pincher, era un chiaro segno che fin dall’inizio erano stati prescelti per la dannazione, al pari degli spiriti pagani che infestavano il paese. Erano questi i pensieri che avevano sostenuto la schietta risoluzione del dottor Pincher di attraversare il mare diretto a Dublino.
Ma qual era il suo destino? Simeon Pincher era davvero sicuro, nel profondo del cuore, di essere lui stesso uno degli eletti? Non gli restava che sperarlo. Se nella vita aveva commesso qualche peccato o, perlomeno, delle imprudenze, poteva essere un segno del fatto che la sua natura era corrotta? Era un’eventualità che si ostinava a ignorare. Peccare, naturalmente, era la sorte di ogni uomo, e solo coloro che si pentivano potevano essere salvati. Se dunque nella vita Pincher aveva peccato, non gli restava che pentirsi con la massima convinzione. E sperava e confidava nel fatto che la sua condotta quotidiana, unita allo zelo per il Signore, comprovasse che lui non era l’ultimo fra i prescelti da Dio.
Era una giornata tranquilla in cui spirava una lieve brezza quella in cui Simeon Pincher arrivò a Dublino. La nave aveva gettato l’ancora nella Liffey. Un barcaiolo lo portò remando al molo del legname.
Aveva appena messo piede sul suolo irlandese, rappresentato dal vecchio molo, quando all’improvviso qualcosa accadde e il mondo andò sottosopra.
Ciò che in seguito avrebbe ricordato era che, mentre giaceva prono, sentendo un gran frastuono attorno a lui, qualcosa gli aveva colpito lo stomaco con una tale forza da impedirgli quasi di respirare. Alzò gli occhi, li sbatté e vide il volto di un gentiluomo, a giudicare dalle vesti, intento a spolverarsi e a guardarlo preoccupato dall’alto.
«Siete ferito?»
«Non credo» rispose Pincher. «Che cos’è successo?»
«C’è stata un’esplosione.» Lo sconosciuto indicò un punto e, girandosi, Pincher si rese conto che, nel bel mezzo delle banchine, dove aveva notato un alto edificio di fronte al quale si levava un argano, adesso non restava che qualche sasso e che le case dall’altra parte della strada erano ora rovine annerite.
Pincher accettò di buon grado il braccio offertogli dallo sconosciuto e si alzò. La gamba gli doleva.
«Siete appena arrivato?»
«Sì, ed è la prima volta che vedo questo paese.»
«Venite, allora. A proposito, io mi chiamo Martin Walsh. Qui vicino c’è una locanda. Permettetemi di accompagnarvi.»
Lasciato Pincher nella locanda, il cortese gentiluomo andò a dare un’occhiata ai danni. Un’ora dopo tornò a riferire.
«Una cosa stranissima. Senza dubbio un incidente.» Sembrava che una scintilla scoccata dallo zoccolo di un cavallo su un sasso avesse dato fuoco a un barile di polvere da sparo, che a sua volta aveva incendiato un vasto deposito di polveri nei pressi del grande argano al centro. «La parte inferiore della strada dei vinattieri è distrutta, e persino l’edificio della cattedrale, la chiesa del Cristo sulla collina, è stato danneggiato.» Fece un sorriso incerto. «Avevo sentito dire che certi stranieri portano cattivo tempo, signore, ma un’esplosione è qualcosa di insolito. Spero che voi non auguriate altri mali agli irlandesi.»
Era una battuta innocua, senza perfidia. Pincher se ne rese perfettamente conto. Ma lui non era mai stato molto a suo agio in situazioni del genere. «No» replicò in tono severo «a meno che non siano papisti.»
«Ah.» Il gentiluomo abbozzò un sorriso triste. «Di quelli, signore, a Dublino ne troverete molti.»
Solo dopo che il gentiluomo lo ebbe accompagnato al Trinity College affidandolo alle cure del portiere, il dottor Pincher scoprì che il signor Walsh era anch’egli di fede romana. Fu un momento di imbarazzo, impossibile negarlo. Ma come avrebbe potuto indovinare che quell’amabile sconosciuto, con ogni evidenza inglese e palesemente un gentiluomo, fosse un papista? In effetti, come gli aveva detto Walsh, ben presto avrebbe avuto modo di appurare che molte persone gentili e di ceto elevato a Dublino lo erano.
Tale scoperta dimostrava soltanto – anche questo il dottore lo avrebbe capito – quanto lavoro ci fosse ancora da fare da quelle parti.
1607
In una sera di mezza estate Martin Walsh si trovava con i suoi tre figli sul Ben of Howth, e guardava il mare. La sua mente di prudente avvocato era intenta a precisi calcoli.
Martin era sempre stato un uomo riflessivo, assai maturo per la sua età, diceva la gente. Sua madre era morta quando lui aveva tre anni; suo padre, Robert Walsh, un anno più tardi. A crescerlo erano stati il nonno, il vecchio Richard, e la nonna. Abituato da sempre alla compagnia di persone più anziane, ne aveva inconsapevolmente fatto propri molti atteggiamenti. Uno di questi era la cautela.
Lanciò un’occhiata affettuosa a sua figlia. Anne aveva soltanto quindici anni, ed era difficile per lui convincersi di dover già prendere certe decisioni sul suo conto. Le sue dita strinsero la lettera che teneva nella tasca dei calzoni e Martin si chiese, come già aveva fatto per ore, se avrebbe dovuto parlargliene.
Il matrimonio di una figlia era un affare di famiglia. Ma non in quel caso. Non a quei tempi. Ah, se sua moglie fosse stata ancora in vita! Lei sì che avrebbe saputo come comportarsi. Il giovane Smith forse aveva un buon carattere, Walsh sperava che fosse così. Ma non era abbastanza: principi innanzitutto, forza senza dubbio, ma anche un’importantissima qualità, la capacità di sopravvivere.
Per persone come Walsh – leali veteroinglesi – la vita in Irlanda non era mai stata più pericolosa di allora.
Erano trascorsi quattro secoli e mezzo da quando il re franco-normanno Enrico Plantageneto d’Inghilterra aveva invaso l’Irlanda e, sostituendosi agli antichi Alti Re locali, costretto i principi irlandesi ad accettarlo come loro signore almeno di nome. Da allora, se si escludeva la zona della Pale attorno a Dublino, erano rimasti i principi irlandesi e i notabili plantageneti come i Fitzgerald – i quali ben presto non si erano granché differenziati dagli irlandesi – ad avere in pratica governato l’isola. Fino a settant’anni prima, quando re Enrico VIII d’Inghilterra aveva dato una lezione ai Fitzgerald e manifestato apertamente, una volta per tutte, l’intenzione dell’Inghilterra di governare l’isola occidentale. Aveva, anzi, assunto il titolo di re d’Irlanda.
Qualche anno dopo l’infermo monarca inglese che aveva avuto sei mogli era morto. Per una decina di anni suo figlio Edoardo, un ragazzo malaticcio, aveva tenuto il trono; poi, per altri cinque, sua figlia Maria. In seguito era stata la volta di Elisabetta, la regina vergine, che per quasi mezzo secolo era rimasta sul trono d’Inghilterra. E tutti costoro avevano tentato di governare l’Irlanda, ma avevano constatato che non era un’impresa facile.
Erano stati inviati governatori, alcuni saggi, altri no. Quasi sempre aristocratici inglesi, con nomi o titoli altisonanti: Saint Leger, Sussex, Sidney, Essex, Grey. E sempre avevano dovuto affrontare gli stessi problemi: notabili veteroinglesi – Fitzgerald e Butler – gelosi l’uno dell’altro, principi irlandesi insofferenti del controllo reale e, nell’Ulster, i potenti O’Neill che non avevano ancora dimenticato di essere stati un tempo gli Alti Re d’Irlanda. E tutti quanti – compresi gli appartenenti alla leale piccola nobiltà veteroinglese come i Walsh – erano fin troppo felici di mandare delegazioni al monarca per minare l’autorità del governatore ogniqualvolta questi faceva qualcosa che non andasse loro a genio. Se fossero riusciti a trasformare l’Irlanda in una seconda Inghilterra, non sarebbe stato a esclusivo beneficio degli irlandesi; con loro era arrivata una schiera di cacciatori di dote – i neoinglesi, così erano chiamati – bramosi di terre. Alcuni di quei mascalzoni avevano persino l’ardire di proclamarsi discendenti di coloni plantageneti dimenticati da un pezzo, rivendicando così antichi diritti sulle proprietà irlandesi.
Poteva dunque sorprendere che i governatori inglesi constatassero che l’Irlanda opponesse resistenza al cambiamento o a nuove imposte, oppure che avventurieri inglesi tentassero di rubar loro le terre? Poteva sorprendere che, durante l’infanzia di Martin Walsh, ci fosse stata più di una sollevazione locale, soprattutto al Sud, dove i Fitzgerald del Munster si sentivano minacciati? Era comunque più di un sospetto che certi funzionari inglesi tentassero deliberatamente di fomentare disordini. “Se riescono a provocare una ribellione” concludevano certi proprietari irlandesi “i nostri possedimenti saranno confiscati e loro potranno metterci sopra le mani. È il loro gioco.” Ma la grande ribellione era arrivata solo alla fine del lungo regno di Elisabetta.
Di tutte le province dell’Irlanda, l’Ulster aveva la reputazione di essere la più selvaggia e arretrata. I capi locali avevano assistito con orrore e crescente inquietudine all’avanzata dei funzionari inglesi nelle altre province. Il più potente di loro, O’Neill – che era stato educato in Inghilterra e portava il titolo inglese di conte di Tyrone –, era riuscito a lungo a mantenere la pace, ma alla fine era stato proprio lui a mettersi alla testa della rivolta.
A cosa mirava? A governare tutta l’Irlanda come avevano fatto i suoi antenati? Forse. O magari voleva soltanto spaventare gli inglesi al punto di indurli a lasciargli governare l’Ulster? Anche questo era possibile. Come sessant’anni prima Silken Thomas Fitzgerald, O’Neill aveva fatto appello alle alleanze cattoliche contro gli eretici inglesi e aveva mandato messaggi al cattolico re di Spagna per chiedergli l’invio di truppe. E quella volta le truppe – quattromilacinquecento uomini – erano arrivate davvero. Tyrone era un soldato molto esperto. Aveva sterminato le prime forze inglesi spedite ad affrontarlo nell’Ulster nella battaglia di Yellow Ford, e genti di tutta l’isola avevano abbracciato la sua causa. Era accaduto solo dieci anni prima, e nessu...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. I ribelli d'Irlanda
  3. Ringraziamenti
  4. Premessa
  5. Colonie
  6. Il pozzo sacro
  7. Cromwell
  8. Drogheda
  9. Il pastorale di san Patrizio
  10. Predominio
  11. Georgiana
  12. Grattan
  13. Ribelli
  14. Emmet
  15. Carestia
  16. Vittoria
  17. Insurrezione
  18. Copyright