Il suono dell'occidente
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Il suono dell'occidente

Le opere musicali che hanno fatto la nostra civiltà

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  1. 168 pagine
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Il suono dell'occidente

Le opere musicali che hanno fatto la nostra civiltà

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Si può raccontare la musica senza note, usando solo le parole? Ramin Bahrami crede di sì. D'altra parte, con la musica e con i grandi compositori del passato ha un rapporto strettissimo, intimo: la musica è per Bahrami un fil rouge, ciò che tiene insieme la sua infanzia perfetta in una Teheran baciata dalla cultura con l'esilio seguito all'incarcerazione e alla morte del padre; la sua identità persiana con quella di uomo immerso nell'Occidente; la storia dei suoi avi, provenienti dalla Persia, dall'Europa, dalla Russia, con la sua. Nella musica, e specialmente in Bach, Bahrami ha trovato l'alfa e l'omega: la musica è il suo modo per sopravvivere, per amare, per ricordare. «Nella musica c'è la mia dignità, c'è la mia identità: c'è mio padre con il suo violino, mia madre e le sue litanie, ci sono i miei fratelli e le loro passioni, c'è il mio paese e la sua cultura, ci sono lo zoroastrismo e il cattolicesimo, che è la mia religione oggi.» Il suo sguardo - o, per meglio dire, il suo orecchio - abbraccia il suono occidentale dalle radici fino al Novecento e ne ripercorre la storia attraverso quattordici capolavori: opere fondanti e definitive che hanno creato una discontinuità, cambiando il corso del futuro. I grandi compositori ci sono tutti: da Monteverdi e Vivaldi a Stravinskij e SchÖnberg, passando per le tre B (Bach, Beethoven e Brahms), i malinconici Mahler e Rachmaninov e i rivoluzionari Strauss e Wagner. Di ciascuno si scoprono i tratti fondamentali della vita e dello stile, e si approfondisce l'opera più significativa. Il suono dell'Occidente è un affresco e uno svelamento. Dalla sua prospettiva unica, Ramin Bahrami vede con chiarezza una profonda lezione nascosta nella musica occidentale: l'arte del dialogo. «C'è spazio per tutte le voci e tutte le culture, tutte le razze e tutte le religioni. Le voci possono cantare insieme, le culture mescolarsi e dare origine a capolavori universali, che toccano le corde del musulmano e del cattolico, del buddista e del luterano. Penso che se menti umane sono state capaci di creare opere simili, innalzandosi al di sopra delle divisioni e dei particolarismi, allora esistono speranza e consolazione. Allora esiste un senso, anche nello struggimento e nel dolore.»

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852050787
Argomento
Art
Categoria
Art General

Titan, sinfonia n. 1

Gustav Mahler 
 (1860-1911)

Sono il terzogenito: Bahram è il fratello di mezzo, Mehdi il grande. Tra me e Mehdi c’è una decina d’anni abbondante. È lui quello colto della famiglia: è un filosofo e lo è da sempre. A diciassette anni mi leggeva le pagine del Tractatus di Wittgenstein, uno dei filosofi più musicali: adorava la musica e la raccontava, come fa anche Thomas Bernhard, un altro autore austriaco che amo moltissimo. Entrambi hanno molta confidenza con la musica, come l’ha avuta lo stesso Mahler con la letteratura. Alcuni compositori sono stati fortemente attratti dalla letteratura, così come tanti letterati sono stati ispirati dalla musica, e meno male: le combinazioni sono la cosa più bella, permettono alle creazioni umane di impastarsi l’una con l’altra, di «sporcarsi», perdendo quell’originaria purezza che le renderebbe troppo gelide e, dunque, mortali.
Mahler è uno dei musicisti preferiti di Mehdi: mi ha sempre parlato di questo spirito libero e coraggioso e mi ha fatto ascoltare le sue sinfonie nelle esecuzioni che hanno fatto la storia della riscoperta mahleriana. Parlo di riscoperta perché Mahler, affermatissimo in Europa e in America come direttore d’orchestra, non riscuoteva lo stesso successo come compositore. Mehdi mi raccontava che era solito ripetere: «Il mio tempo arriverà» e credo di poter dire che il suo tempo è arrivato pienamente, grazie alle esecuzioni dei maggiori direttori d’orchestra, da Walter a Bernstein, da Abbado a von Karajan, da Chailly a Kubelík.
Mahler è nel mio personale olimpo di sinfonisti, insieme a Bach, Beethoven e Brahms, perché ha saputo verdianamente indagare nei meandri emotivi più nascosti dell’umanità.
Adoravo ascoltarlo in macchina a tutto volume, insieme a Federico Gardella, un mio compagno di classe, mentre andavamo a trovare i suoi nonni a Torino. C’è chi tira giù i finestrini e ti spara Bob Sinclar, noi mettevamo le sinfonie di Mahler.
Ebreo ashkenazita di nascita, nato in Boemia, a Kalischt (oggi nella Repubblica Ceca), quando ancora era sotto il dominio dell’impero austroungarico, Mahler parlava tedesco, cosa insolita in quei territori. La situazione finanziaria della sua famiglia era a dir poco modesta: secondogenito di ben quattordici figli, vide morire sette fratelli per le più svariate ragioni. Per quanto i genitori cercassero di mantenere saldi i legami familiari, questa drammatica mortalità infantile segnerà profondamente l’infanzia e la vita del compositore.
Nel 1860, lo stesso anno della sua nascita, l’imperatore Francesco Giuseppe ratificò una prima costituzione, nota come «Diploma di ottobre», che lasciava ai sudditi qualche libertà in più, aboliva i ghetti e consentiva anche agli ebrei di spostarsi entro i confini dell’impero. I Mahler scelsero di trasferirsi a Iglau, il centro militare della regione, dove il padre del compositore, violinista dilettante, aprì una taverna.
È proprio a Iglau che si forma l’immaginario sonoro di Mahler: qui scopre i canti dei soldati, le cantate popolari, le marce militari austriache e, naturalmente, la musica ebraica.
Iglau era un crocevia della più varia umanità, dai soldati che rientravano dal fronte, magari feriti, e agli sfollati e ai profughi che giungevano lì attratti dalla speranza di poter ricostruire la propria esistenza: dovete immaginare un contesto di estrema povertà e questo giovane, scorbutico ma sensibile, che osserva con attenzione e assorbe ogni stimolo.
Le prime note di Mahler, buttate giù dopo l’iscrizione al conservatorio di Vienna, nel 1875, sono impregnate di tristezza, nostalgia, solitudine... C’è una sorta di senso permanente di esilio nella sua musica, come se si sentisse sempre un intruso, mai accolto fino in fondo e accettato. Tutta la gioia e la serenità che ci sono in lui provengono dalla natura: convinto che la natura sia una sorta di sorgente primordiale da cui ogni cosa scaturisce e dove tutto ritorna, Mahler applicava lo stesso panteismo naturalistico alla musica.
Dopo aver completato gli studi al conservatorio, Gustav lavorò per anni come direttore d’orchestra presso alcuni dei più importanti teatri dell’Europa centrale. Era apprezzato al punto da venire chiamato per sostituire il celebre Nikisch nella direzione dell’Anello del Nibelungo, di Wagner: il successo fu enorme e Mahler guadagnò in prestigio. Il suo modo di dirigere era rivoluzionario: l’orchestra era molto libera e specificamente timbrica, soprattutto nella riproduzione dei suoni della natura, come a gettare un ponte fra l’arte romantica e quella moderna.
D’estate, durante le vacanze, si trasferiva in montagna e dedicava il suo tempo alla composizione. Nel 1897 venne chiamato a ricoprire l’incarico più alto dell’impero, per un musicista, cioè dirigere l’Opera di corte. Mahler dovette scegliere: o l’onore o la religione. Trattandosi di un incarico imperiale, infatti, la legge prevedeva che a svolgerlo dovesse essere un suddito di fede cattolica. Gustav, che non era mai stato un ebreo fervente, si convertì al cattolicesimo, anche se non lo praticò mai. In compenso, non rinunciò a mescolare la sua musica con temi in stile klezmer, un genere musicale di tradizione ebraica, tipico dell’area balcanica e polacca. In questo Mahler, crocevia di differenti culture e religioni, non posso non ritrovarmi: ho due nonni persiani, una nonna tedesca e una russoturca; nella mia famiglia circolano tutte le musiche, e nessuna e tutte le religioni, dallo zoroastrismo dei miei avi all’islam dei miei padri, al cattolicesimo, che è la mia fede di oggi.
Trovo che le sue citazioni di ritmi tipici della musica ebraica segnalino in qualche modo che – benché grazie alla conversione abbia migliorato in maniera straordinaria la sua condizione sociale e sia passato a un’altra religione per questioni di convenienza – Mahler non dimenticò mai le sue radici. Forse avrebbe voluto affermarsi come musicista mitteleuropeo di fede e cultura ebraica, riscattando uno dei suoi predecessori, Mendelssohn, la cui famiglia si era convertita al protestantesimo, spingendo il figlio a fare altrettanto. Felix non rinnegò mai le proprie origini: le influenze semitiche sono evidenti nel Concerto per violino in mi minore.
Come avrete notato leggendo le pagine precedenti, è quanto meno probabile che la sofferenza nutra la creazione. Non c’è compositore che non abbia patito profondamente. E Mahler non fa eccezione.
Nel 1902 sposò Alma Schindler, considerata all’inizio del Novecento la più bella ragazza di Vienna. Di carattere esuberante e amante della bella società, Alma ebbe in gioventù vari amorazzi: li sceglieva con una certa cura, all’interno dell’intellighenzia austriaca (era nota, per esempio, la sua relazione con Gustav Klimt), dove conobbe anche Mahler, di vent’anni più vecchio. Lo sposò e gli diede due figlie, la prima delle quali morì di difterite, scatenando una crisi matrimoniale durante la quale Alma strinse una relazione con un architetto che più tardi sarebbe diventato il padre del Bauhaus: Walter Gropius. Mahler ne fu sconvolto, e lo si sente nella sua musica: ne è esempio l’abbandono assoluto nel meraviglioso Canto della terra, la ricerca della morte, vista come la liberatrice da tutti i mali, che però non giunge mai...
Alma è all’origine del dolore per Gustav Mahler: incapace di comprendere fino in fondo la bellezza che il marito stava donando al mondo, l’ha tormentato con il suo egocentrismo, senza riuscire a sua volta a trovare pace. Dopo la morte del compositore, infatti, avrà altre tormentate relazioni, sempre con esponenti in vista della scena musicale e letteraria.
So che le dobbiamo alcune delle creazioni più commoventi del Novecento, ma non riesco a perdonarla, perché anch’io ho sofferto molto per amore, prima di incontrare Luisa, la donna della mia vita, oggi mia moglie, una meravigliosa organista, profonda, equilibrata, pudica.
Bach fu galeotto: lei si era iscritta a un corso di specializzazione che tenevo all’Accademia filarmonica romana, «stranamente» su Johann Sebastian. L’avevo già notata alle selezioni, ma è stato il giorno successivo alla prima lezione che mi sono innamorato di lei, allorché è tornata con un desiderio incredibile di dimostrare che aveva messo in pratica le mie idee. Ero cotto come una pera, ma il direttore dell’Accademia sosteneva che fosse fidanzata, quindi non mi sono fatto avanti: mi sono limitato a sperare nelle magiche capacità della musica di Bach, sicuro che l’avrebbe condotta da me. Luisa, però, non era fidanzata; le piacevo ma, a sua volta, era convinta che fossi sposato e avessi dei figli. In pratica, per mesi ci siamo guardati da lontano, senza trovare il coraggio di parlarci apertamente. L’ultimo giorno di corso, finita la lezione, sono arrivato in albergo che era già buio e ho acceso la televisione: Mina cantava Arrivederci e mi è piombata addosso tutta la tristezza e la disperazione che avevo rimosso nelle settimane precedenti. La verità era che stavo perdendo la donna della mia vita, lo sapevo ma non avevo idea di cosa fare. Ho pensato a lei per settimane dopo quella serata, finché non mi è venuto in mente che forse potevo cercarla via Facebook. L’ho scovata e le ho inviato il mio «in bocca al lupo» per un concerto che avrebbe dovuto tenere poco dopo. Le ho scritto: «Ricordati sempre che mi piaci». Come artista, come donna, come tutto. Dopo due mesi ci era chiaro che dovevamo sposarci. Una storia, per fortuna, tutta diversa da quella di Mahler.

L’opera

Mahler sosteneva che la tradizione non è cenere, ma rigenerazione. La Prima sinfonia in re maggiore, detta anche Titan, ne è l’esempio perfetto. Composta fra il 1888 e il 1894 e rivista a più riprese, mostra il modo mahleriano di vedere il sinfonismo, un modo nuovo rispetto ai grandi del passato. Mahler riprende la lezione beethoveniana, e più che in altre sue sinfonie – che possiamo considerare quasi poemi naturalistici, nei quali decanta le meraviglie della natura –, sfoggia la sua capacità di unire i mondi: il sacro con il profano, la canzonetta con la citazione colta.
È questa innovazione a fare di lui un maestro e a rendere le sue sinfonie significative dopo Beethoven. Mahler sa unire mondi apparentemente distanti, tra i quali regna l’incomunicabilità. La prima funzione della musica, però, è proprio questa: aprire al dialogo e all’ascolto reciproco. Lo affermava Abbado, ne è convinto Barenboim: la musica deve insegnarci la convivenza, e può farlo. Può farlo perché non necessariamente tutti gli strumenti devono essere sempre presenti, ma non per questo sono esclusi dalla rappresentazione; perché a volte c’è bisogno di una voce solista, ma le altre non sono costrette al silenzio: possono pulsare diversamente. La musica ci insegna che voci diverse possono unirsi in un’unica esecuzione, senza per questo perdere nulla di sé. Non c’è cosa più affascinante del seguire su carta il modo in cui questo accade nella musica di Bach: le sue partiture polifoniche mostrano chiaramente che tutte le voci hanno pari diritto di esistenza e pari dignità. Lo stesso accade con Monteverdi – il primo a dare lustro alle esperienze individuali – e con Brahms. Mahler, in più, oltre a essere l’eccezionale sinfonista che conosciamo e ad aver realizzato questo obiettivo in senso classico, ha l’indiscusso merito di aver saputo mescolare nella sua musica canti ebraici o austroungarici e il ritmo delle marce militari.
La Prima sinfonia, infatti, è un ottimo esempio di come i canti popolari e rustici klezmer possano coesistere con il classicismo viennese nella forma tradizionale della sinfonia.
Mahler, come Brahms, guarda al passato con nostalgia e rimpianto, ma cerca di distanziarsi dal suo esempio: considera le opere di Brahms un simbolo del mito ingiallito della civiltà teutonica che fu, un inno al decadentismo senza uscita che imperava in quegli anni, e se ne distanzia. Ha fiducia nelle forze della creazione: crede e spera in una nuova primavera, le sue note sono piene dei colori della speranza, comprese quelle della Prima sinfonia.
Il primo movimento, noto con il nome di Frühling und kein Ende (Primavera senza fine), inizia con un’ouverture lenta, dalla sonorità profonda: è la natura che si risveglia, come se tutto il mondo si ricostruisse a partire da un minuscolo atomo e si espandesse piano nello spazio, formando una nuova realtà composta da elementi extramusicali. Ne sono esempio il suono della pioggia, quello di una cascata, delle onde, del vento o del canto degli uccelli (il cuculo appare subito, nelle prime note). È la visione terrena della vita eterna: Mahler ci solleva e ci trascina nella libertà del creato, nell’abbraccio dell’umanità.
Il secondo movimento, Blumine, presente nella prima stesura e nelle prime tre rappresentazioni, venne criticato pesantemente e quindi espunto. Dal 1894 fino al 1966 non se ne ebbe più traccia, finché lo spartito non fu ritrovato. È ancora in corso una controversia fra studiosi per decidere se sia bene o no reinserirlo nell’opera.
Il terzo movimento (Mit vollen Segeln, A vele spiegate) è quello che preferisco. Mahler sceglie qui un ritmo contadino, quello del Fra’ Martino, per illustrare la ripetitività del lavoro nei campi. È, questo, un ritmo ideale anche per la danza, e infatti viene spesso usato nei balletti: adoro l’interpretazione di Angelin Preljocaj in Biancaneve, dove viene riproposto come colonna sonora della danza verticale dei nani minatori. Mahler ne fa un capolavoro: ispirandosi alla sua infanzia, lo trasforma in uno dei temi più nostalgici e tristi che si possano ascoltare. A un certo punto, con estremo coraggio, introduce un canto klezmer, con i clarinetti che suonano una sorta di nenia ebraica.
Dalle note del Fra’ Martino, si passa al quarto movimento, noto come Gestrandet! Ein Todtenmarsch in «Callots Manier» (Arenato! Una marcia funebre alla maniera di Callot), o Marcia del soldato. Il compositore riavvolge il filo dei ricordi e torna alla propria giovinezza: la tonalità è minore, in un ribollire di elementi differenti. Assistiamo al ritorno dalla guerra dei soldati, che spesso perdevano il senno, al trauma del bimbo che ha assistito impotente alla morte dei fratelli, alla fame del popolo. Ed ecco che la marcia si fa funebre, come a santificare quell’infanzia tristissima.
L’ultimo tempo (Dall’Inferno al Paradiso) è un’apoteosi delle forze naturali che vincono sulle forze del male, uno stürmisch bewegt, ovvero un’esplosione dell’energia vitale, durante la quale il compositore recupera alcuni degli elementi tematici già utilizzati nei movimenti precedenti (compreso l’escluso Blumine). Il risultato finale è quasi militaresco, forse a suggerire che, secondo Mahler, l’unico aspetto positivo dell’esercito potrebbe essere la disciplina; la stessa che, accompagnata dallo spirito di sacrificio, permette di raggiungere la perfezione, il bello.
In conclusione, la luce e la rinascita della natura vengono esaltate con tonalità luminosissime e, come nella più bella delle favole, le forze del bene vincono sulle ombre e sulla malvagità.

Così parlò Zarathustra

Richard Strauss
(1864-1949)

Caso mai non abbiate trovato già abbastanza eccentriche le amicizie di mio padre di cui vi ho raccontato finora, voglio parlarvi anche del suo amico Firuzgar, un signore metà persiano e metà austriaco che si vestiva solo con eleganti abiti tradizionali bavaresi, spesso di pelle, completi di cappello con la piuma. Naturalmente, io l’adoravo. Per fortuna, lui adorava me. Avevamo inventato un linguaggio musicale ipotetico, basato sulle lettere dell’alfabeto: ogni lettera, un suono. Passavamo ore ad abbinare suoni e lettere, quando non ascoltavamo direttamente la musica, visto che un motivo per mettere un disco non mancava mai: perché era sorto un nuovo giorno, perché eravamo felici, perché eravamo tristi, perché si mangiava, perché c’era un ospite. Quando c’era qualche amico o conoscente in casa, i miei genitori perdevano il senso del tempo, di sinfonia in sinfonia si faceva tardi e ricordo che spesso il mio accordatore doveva precipitarsi alle sette di sera, per poi andarsene solo la mattina dopo, perché ci eravamo addormentati uno dopo l’altro, sul seggiolino del pianoforte.
Insomma, il signor Firuzgar è il primo ad avermi parlato di Strauss (il tedesco Richard, non il viennese Johann, compositore di valzer, che visse nella prima metà dell’Ottocento) e ad avermi fatto ascoltare Così parlò Zarathustra. L’esecuzione era diretta da von Karajan: mi rimase impresso l’uso degli archi e dei timpani e di tutta l’orchestra, e la leggenda su Zarathustra che Firuzgar mi raccontò. Mi narrò infatti la storia di questo profeta – il nostro profeta, un profeta persiano, la cui fama era arrivata persino in Europa ed era stata grande al punto che un musicista come Strauss aveva deciso di dedicargli un poema sinfonico –, e lo fece in modo immaginifico: si inventò i nomi delle montagne dalle quali Zarathustra era sceso e quelli delle città che aveva visitato, aiutandomi a creare una mia personalissima mappa del pezzo e spiegandomi quello che chiunque ascolti la musica classica dovrebbe sapere: ogni composizione racconta una storia. E non è detto che essa debba essere imposta da altri: può essere anche unica, può essere la nostra.
Ascolto dopo ascolto, insomma, ho elaborato la mia storia dietro Così parlò Zarathustra, storia che per me è quella di una civiltà antichissima e del suo profeta, della lotta fra il bene e il male, la verità e la menzogna, l’ordine e il disordine. Secondo lo zoroastrismo, il bene e l’ordine cosmico sono stati creati dalla superiore saggezza divina del dio Ahura Mazda, mentre il male e il caos sono stati generati da uno spirito malvagio.
Ovviamente, Strauss, che era nato nella se...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il suono dell'occidente
  3. Introduzione
  4. Le radici della musica occidentale
  5. IL SUONO OCCIDENTALE IN QUATTORDICI OPERE MUSICALI
  6. Orfeo
  7. Le quattro stagioni
  8. Messa in si minore
  9. Concerto per pianoforte e orchestra n. 20
  10. Nona sinfonia in re minore
  11. Tristano e Isotta
  12. Messa di Requiem
  13. Requiem tedesco
  14. Ouverture 1812
  15. Titan, sinfonia n. 1
  16. Così parlò Zarathustra
  17. Concerto per pianoforte e orchestra n. 3
  18. Cinque pezzi per pianoforte
  19. La sagra della primavera
  20. Postfazione. Bach fra le stelle
  21. Discografia
  22. Copyright