Parole in gioco
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Parole in gioco

Il linguaggio stralunato della filosofia

,
  1. 96 pagine
  2. Italian
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Parole in gioco

Il linguaggio stralunato della filosofia

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«La filosofia è gioco. I bimbi giocano con i giocattoli ma anche, con assai maggior piacere e profitto, con oggetti comuni. Prendono una bottiglia, un cavatappi, una borsa e li esplorano in tutta la loro materialità e concretezza, adattandoli a usi "impropri", violandone la funzionalità ufficiale e talvolta anche la struttura. Lo stesso fanno con le parole: le allungano e le accorciano, le combinano e le mescolano, le inventano o danno loro significati inattesi. Gli aspiranti filosofi hanno molto da imparare da questo esercizio dissacratorio: manipolando il linguaggio, facendone emergere risonanze nascoste e collegamenti strampalati, possono scaturire idee illuminanti, prospettive e associazioni originali.
Parole in gioco è una palestra per il gioco linguistico che ho descritto. Le parole vi vengono vissute come cose, e con queste cose si gioca come ci giocherebbe un bambino, spezzandole, stiracchiandole e stropicciandole, richiamando al dovere le metafore, scrutando il bianco che c'è tra le righe. È un raffinato divertissement, ma il suo scopo è ben più ambizioso. Questo è un gioco che ci mette in gioco, queste sono parole in libertà che liberano per noi l'universo del possibile.»

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852052774
Ermanno Bencivenga

PAROLE IN GIOCO

Il linguaggio stralunato della filosofia
Mondadori

Parole in gioco

La filo-sofia è, innanzitutto, una parola. Evoca la ricerca della saggezza, l’amore della verità (la verità dell’amore, che non sa mai amare nient’altro?); ma anche il filo che passa o non passa per la cruna di un ago, il filo che si smarrisce e non si ritrova, il filo del discorso e del ragionamento, il filo che Atropo, inesorabile, recide. E la Sofia bulgara, la Sofia dolcissima bimba di Valentina e Pasqualino, il vento che sof-fìa tumultuoso nel canyon, i soffioni boraciferi di Larderello (tubi giganteschi a perdita d’occhio; pochissimi sbuffi visibili), il soffio al cuore che ci causa, talvolta, l’improvviso apparire di un’angelica bellezza.
La filoso-fia è un gioco. Ci mette in gioco, si prende gioco di noi, ci invita a giocare d’azzardo, a giocare con il fuoco, a giocare al massacro, senza una chiara visione della posta in gioco. Disegna scenari fantastici, contesta l’ovvio, schernisce l’autorità: tutto quello insomma che sapevamo fare benissimo a tre anni, quando giocavamo sul serio, quando niente era sul serio; prima dei cellulari, delle playstation, degli zainetti firmati. Il suo gioco non si ferma davanti a nessuna barriera, a nessun recinto sacro; invade e contamina, mescola e turba, profferisce profonde profanità, a profusione.
Come ogni gioco, la fi-losofia è materiale e concreta. Chi non la conosce è tratto facilmente in inganno (dis-tratto) da concetti, da idee, da schemi logici. Chi se ne è lasciato sedurre sa che gli schemi sono suggestivi diagrammi tracciati su un foglio, o da un magico cursore; che idee e concetti sono parole affascinanti, arcane. Ascoltate il suono di «deduzione trascendentale delle categorie», di «saggio di ontologia fenomenologica» o di «funzione ricorsiva primitiva» e ditemi se non vorreste che ci fosse un mondo abitato da questi suoni – se non sareste disposti a crearlo, un mondo così. Dèi per un giorno.
Torniamo alle origini, dunque. Alla fonte da cui scaturisce la ricerca della saggezza; all’amore che è sempre amore di un corpo, anche quando il corpo è il Verbo. Ma torniamoci con un ghiribizzo davvero giocoso, e serio come tutti i giochi. Svelando la microfisica di questa operazione, che sta tutta nel nostro atteggiamento; non esige un formidabile eloquio. Si può giocare anche con una moneta o un cerino; si può cercare la saggezza in occasioni quotidiane, in parole umili e costantemente ab-usate – usate senza rispetto, senza attenzione. Anche una vita qualsiasi può essere affascinante; non solo il re è nudo, ma anche il bottegaio di fronte. Anche lui, anche tutti noi, abbiamo bisogno di riscatto, di invenzione, di rimescolare il vecchio, consunto e bisunto mazzo di carte.

Il libro era pieno di note. C’erano tante, tantissime note a piè pagina: ponderosi riferimenti alla letteratura secondaria e spesso anche terziaria (la letteratura della letteratura della letteratura); classici citati con data e luogo di pubblicazione, editore e prefatore e curatore; sagaci distinzioni fra il partito preso nel testo e quello sostenuto, con parole analoghe ma a ben vedere molto diverse, dall’illustrissimo, rilucente professor tal-dei-tali. Senza tutte quelle note il libro sarebbe stato lungo la metà, cioè sarebbe stato breve; e dei libri brevi nessuno ha grande considerazione.
Non era finita, perché il libro apparteneva a una biblioteca universitaria e generazioni di studenti se lo erano passato di mano, aggiungendovi in margine le loro note, in sottile, elegante grafia a matita oppure in ruvidi sgorbi emessi da una biro in evidente stato di crisi. C’erano asterischi, rimandi, specchietti, piccoli elenchi numerati: i mille stratagemmi per fissarsi un difficile ragionamento in testa, la notte prima dell’esame.
E, in mezzo a un simile pasticcio, c’erano le note di Filomena, anche lei studentessa, anche lei in procinto (allora) di dare un esame ma innamorata (allora!) di un bellimbusto che la faceva soffrire. Filomena scriveva a matita, e s’intuiva che la sua grafia sarebbe stata sottile ed elegante ma in questo caso era tanto caotica, con segni che si estendevano in superflui, decorativi svolazzi, quanto lo era il contenuto espresso dai segni, che realizzava un connubio incestuoso fra termini paleografici o glottologici da un lato e occhi neri come il carbone o barba solo accennata (che deliziosa peluria! che aureola celeste!) dall’altro. Quando poi non perdeva ogni residua lucidità e, invece di elenchi e specchietti, abbozzava rime baciate e baci in rima.
Il problema, con un libro così, era come suonarlo. Le note a piè pagina avrebbero richiesto una grossa orchestra con il coro, stile oratorio di Bach per capirci, e con il tenore e il baritono che a turno pronunciano stentorei frasi importanti e incomprensibili. Per le note degli studenti si sarebbe dovuto ricorrere talvolta al suono violento e brutale di un complesso hard-rock e talaltra a un quartetto d’archi, su un prato all’inglese. Quanto alle note di Filomena, non c’erano dubbi: quella era un’aria pucciniana, distesa allo spasimo e poi bruscamente risolta da un passaggio in minore, un tuffo straziante pieno d’infinita nostalgia.
Si condussero vari esperimenti, scegliendo con cura le note migliori o suonando i motivi uno dopo l’altro. Ma infine si decise che il libro andava suonato così com’era, con tutti i motivi contemporaneamente, e ognuno avrebbe seguito quel che voleva. Fu una decisione improntata al realismo perché questa è la musica di ogni libro, e la musica del mondo.

Ho perso la chiave. L’avevo messa nella boppa e adesso non la trovo più. Fosse stata la toppa, o la zoppa, o la botta, o la botte, non ci sarebbe stato da preoccuparsi – in linea di principio, almeno, perché poi la zoppa potrebbe essere corsa via e la botte potrebbe essere piena e ubriaca. Ma almeno avrei saputo qual era l’obiettivo; ci sarebbe stato un piano preciso cui adeguarmi.
Con la boppa è diverso. Perché non c’è nessuna boppa; la parola «boppa» non ha neanche senso. E come si cerca quel che non ha senso? Come si arriva all’assurdo?
O meglio dovrei dire: come si ritorna all’assurdo? È chiaro infatti che all’assurdo, alla boppa, ci ero già arrivato e ci ho infilato la chiave. Mi era sembrato un discorso cogente; la storia che raccontavo risuonava di antica saggezza. Era fallace e dissennata, ma non me ne rendevo conto. Sino alla fine, quando sono arrivato alla boppa e ci ho infilato la chiave. E adesso non so più dove andare. Una strada ragionevole la puoi ricostruire, ma le strade dell’assurdo le si trova sempre per caso; e averle fatte una volta non aiuta. Hai un bel lasciare bricioline per terra, per segnare il percorso; gli uccelli le beccano via.

Senza accorgermene, avevo preso Roma per Toma ed ero nei guai. Avevo fame e cercavo di affettarla per prepararmi un bel panino; ma il coltello non tagliava. E come avrebbe potuto? Invece che in una morbida consistenza di latte rappreso, stagionato e un po’ affumicato, pretendevo che si conficcasse in marmi millenari, colonne traiane, busti imperiosi di tiranni d’altri tempi (dopo un po’, i tiranni sembrano tutti brave persone). All...

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