Noi siamo la rivoluzione
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Noi siamo la rivoluzione

Storie di uomini e donne che sfidano il loro tempo

,
  1. 204 pagine
  2. Italian
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Noi siamo la rivoluzione

Storie di uomini e donne che sfidano il loro tempo

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"Anche nel punto più basso di una crisi, noi europei restiamo deterministi ed egocentrici; pensiamo che tutto debba evolvere verso un modello di vita simile al nostro, sebbene non siamo più tanto sicuri di quale sia il nostro modello. Quello che tendiamo a dimenticare è che all'origine di ogni evoluzione spesso non c'è il proposito di seguire un'idea precostituita ma, al contrario, una forte dose di anticonformismo."
E sono proprio l'anticonformismo, la voglia di decidere di testa propria, il desiderio e spesso l'urgenza di infrangere le regole consolidate che caratterizzano i personaggi delle storie raccolte da Federico Fubini durante un viaggio in sette tappe, dall'Arabia Saudita a Catanzaro, passando per il Sud della Thailandia, l'India tribale, il Bhutan, il Corno d'Africa e la Tunisia. Tutti i protagonisti delle vicende raccontate in Noi siamo la rivoluzione sono portatori, non sempre consapevoli, del germe del cambiamento. Lo è Mohamed Bouazizi, l'ambulante che in Tunisia si dà fuoco davanti alla moschea, facendo scoppiare nel Maghreb l'incendio che ha spazzato via di colpo anni e anni di dittatura. Lo sono Nora, Louai, Maha o Zaki, giovani sauditi lacerati fra la tradizione e la voglia di modernità, che, pur tra mille contraddizioni, cercano di forzare la gabbia delle convenzioni sociali. Nelle giungle dell'India più remota o fra i musulmani della Thailandia quel germe può sfociare nel sangue; in Etiopia può catapultare nel XXI secolo i coltivatori di caffè locali che vivevano in una stagnante epoca neocoloniale, mentre in Bhutan, grazie a un demiurgo illuminato, può dar vita a un armonioso presente che fonde passato e futuro. E quando la voglia di cambiare tocca una città languente come Catanzaro - che l'inerzia economica e sociale ha ridotto a una sorta di Bangalore italiana, sede dei principali call center nazionali con il loro piccolo esercito di rassegnati precari -, ecco un outsider politico che riesce a spezzare i collaudati schemi del voto di scambio e a far incetta di preferenze fra i giovani.
Da est a ovest, sette rivoluzioni di questo inizio secolo, in atto o incipienti, caratterizzate da ingredienti comuni: compressione o accelerazione del tempo, scambio di idee fra luoghi lontani, parole d'ordine veicolate dai social network, presenza di individui controcorrente al centro di trasformazioni rapidissime. È quando si verificano queste condizioni, spiega Fubini, che può nascere una rivoluzione, politica, sociale o culturale, capace di diffondersi fulminea come un vero e proprio contagio, con conseguenze ed esiti quasi sempre impossibili da prevedere.

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Informazioni

II

La verità è un gioco d’incastri

Zakariya Amataya

Il piccolo Dc9 della Air Asia sorvola una spiaggia luminosa, piega sui palmeti e plana sulla striscia di asfalto di Narathiwat. Il profondo Sud, per i thailandesi. Fuori dal portellone, davanti a un possente mezzo militare, sfilano una donna con un minuscolo bambino in collo e un velo nero che le lascia appena una feritoia per gli occhi, un monaco buddhista scalzo, un uomo politico che ha vissuto la prigione, sospettato di legami con Al Qaeda in Indonesia, un grasso generale scuro in volto, addobbato di fregi appesi alla camicia nera. E un poeta.
Li guardo mentre scendono la scaletta senza dirsi una parola. Fra poche settimane il politico potrebbe trovarsi nel governo di Bangkok oppure tornare in prigione, raggiunto da nuove accuse di complicità con la jihad internazionale. Il monaco potrebbe raccogliersi in meditazione, essere abbattuto a fucilate quando una mattina esce all’alba per prendere le elemosine o magari finire decapitato, come è successo a tanti altri. Allora il grasso generale in camicia nera farà installare qui a Narathiwat nuovi posti di blocco, si impegnerà nell’ordine pubblico, prenderà il comando di una nuova retata antidroga. Ma magari in questo momento sta trasportando nella sua valigia un carico di anfetamine da spacciare ai ragazzi delle scuole.
La verità può assumere molte declinazioni fin dalla scaletta dell’aereo, qui nel profondo Sud della Thailandia; ma il poeta, mentre scende, ignora tutti e continua dritto per la sua strada. Tiene in mano il suo iPad, indossa una t-shirt con la scritta «Independent Writers» e un basco alla Che Guevara da cui sbuca un codino di capelli neri.
Zakariya Amataya è tornato a casa. Lo ha fatto di rado in questi anni e ultimamente ancora meno di prima. Pochi mesi fa la sua vita è cambiata o, più precisamente, si è rivelata a tutti per quello che è. Nel novembre 2010, all’età di trentacinque anni, con il suo libro d’esordio No Women in Poetry, Zakariya ha vinto per la Thailandia il South East Asian Writers Award, il premio letterario più prestigioso nella fascia dei dieci paesi che vanno dalla Birmania alle Filippine. La giuria, caso senza precedenti, è stata unanime, anche se mai in passato uno scrittore di questa parte del paese aveva ottenuto un riconoscimento del genere. Ma la novità non è solo l’origine dell’autore o il fatto che per la prima volta qualcuno abbia vinto scrivendo in versi liberi, non in metrica né in rima, in questa terra ossessionata dalle forme e dalle cerimonie.
C’è anche dell’altro. Il suo libro non è stato redatto nella lingua che l’autore ha imparato dai genitori, ma in quella che qui molti considerano la lingua del nemico.
Zakariya è cresciuto parlando il malayù, il dialetto malese usato nelle tre province del Sud del regno, dove una rivolta dai contorni indefinibili sta seminando una lunga scia di sangue: più di cinquemila morti, decine di migliaia di feriti da quando, nel 2004, questa intifada tropicale è riapparsa nella sua forma più virulenta. Non passa giorno senza che qualcuno spari su un maestro mentre va a scuola in bicicletta, un’autobomba non scoppi davanti a un ufficio postale o un agguato a un incrocio non faccia strage di reclute.
Nel 1946, al disfacimento dell’impero britannico, qualcuno deve aver tirato una riga nel punto sbagliato. In queste tre province vivono 1,6 milioni di musulmani malesi, forse duecentomila thai e un numero imprecisato di cinesi portati qui dalle rotte del commercio. Per pochi decenni tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del XX secolo, questo è stato il Sultanato indipendente di Pattani, prima che il regno siamese e la Malesia britannica se lo spartissero. Qui corre la linea di faglia tra due grandi religioni globali. Al dissolversi dell’impero di Londra, i notabili di queste campagne scrissero persino all’Onu per diventare uno Stato autonomo e non una provincia sottoposta al re di Bangkok, che secondo la costituzione deve essere buddhista. Nessuno li ascoltò, e i loro figli, negli anni Settanta e Ottanta, per qualche tempo presero le armi.
Zakariya è cresciuto in malayù e nell’Islam, la lingua e la fede degli insorti rimasti intrappolati in questa nazione buddhista e profana. Ma ora scrive in thailandese e vive a Bangkok come coloro che qui sono considerati la potenza occupante. In una poesia che non ha voluto includere nel suo libro, Zakariya ha scritto, in thai:
Spari nella tua lingua e nella mia non è uguale
...
le parole sangue, lacrime, guardia, oppressione
quando escono dalla mia bocca nella tua lingua
il senso e l’interpretazione corrodono la verità.
In un’altra, una delle tante dedicate all’Iraq, il poeta si immedesima in un cecchino di Baghdad, sanguinario ma pieno di dubbi, mentre da un tetto segue nel mirino un soldato americano:
Molti si chiederanno
quanto brutale e senza scrupoli io sia
senza nessuna pietà.
Ma lo giuro
non amo privare nessuno della vita
eppure vorrei essere un cecchino.
Lasciamo gli ombrelli forniteci dalla Air Asia per ripararci dal sole sulla pista d’atterraggio ed entriamo in aeroporto. Al cancello degli arrivi troviamo schierato un comitato d’accoglienza, ma non è per Zakariya. È per il politico integralista islamico uscito di prigione, ora candidato al parlamento di Bangkok e in questi giorni in piena campagna elettorale: striscioni, reporter, qualche timido applauso. L’uomo riconosce Zakariya per averlo visto in tv, dove ormai spesso è invitato ai talk-show come una celebrità nazionale, e cerca di stringergli la mano a beneficio dei fotografi. Il poeta fiuta il pericolo, sguscia via discretamente e si avvia a passo svelto verso il parcheggio, il suo iPad sempre sotto il braccio.
Ho scelto di viaggiare con Zakariya in questa strana rivoluzione perché lui ci è nato dentro. Da quando, nel 2004, è riesplosa, la rivolta ha fatto probabilmente più morti di quelle della Tunisia, del Bahrein, dello Yemen e dell’Egitto messe insieme, anche se a stento il resto del paese sembra accorgersene e il mondo esterno la ignora. Negli anni Settanta e Ottanta era guerriglia nella giungla, oggi è un terrore capillare sotto la pelle delle città. Eppure, a ogni bomba o decapitazione i giornali di Bangkok danno una notizia sempre più piccola, quelli esteri ormai proprio nulla. Il villaggio di Zakariya, circondato dai palmeti, ai piedi di una montagna calcarea coperta di alberi della gomma, è al centro di quella che qui chiamano la «zona rossa»; è lì, nel Budo, che in queste ore l’esercito sta facendo una retata di guerriglieri in teoria nascosti nelle foreste. Ma mentre guidiamo in città, diventa ben presto chiaro che, come me, anche il mio compagno di viaggio fatica a farsi un’idea di cosa veramente stia accadendo.
Le vie di Narathiwat sono tranquille sotto il sole, la cittadina è verde, pulita, ben tenuta. In questi giorni la campagna per le elezioni politiche in Thailandia sta entrando nel vivo, i manifesti dei candidati sono ovunque, ma sempre ordinatamente contenuti negli spazi previsti. Non c’è povertà, non c’è una sola cartaccia per terra. A una rotonda, un cartellone ufficiale alto almeno tre metri mostra il re Bhumibol Adulyadej come una figura imponente, la macchina fotografica appesa al collo a rappresentare la sua passione per le arti.
Tutti sanno che in realtà il re è un vecchio rudere in sedia a rotelle e Zakariya ha appena firmato sul «Bangkok Post» un appello di famosi intellettuali thai per cambiare le leggi sulla lesa maestà. Negli anni, i militari e il partito democratico, quello dell’establishment dinastico e del denaro, hanno fatto di queste leggi uno strumento di censura e intimidazione. Nell’idea stessa della lesa maestà c’è tutta un’educazione alla deferenza, generazioni di rassegnazione gerarchica, i diritti acquisiti delle élites della vecchia Thailandia. Il cellulare del poeta non smette di squillare da quando, stamani, la sua firma è apparsa su quell’appello.
Mentre guidiamo, ci supera un camioncino che trasporta sul pianale tre uomini e una scimmia per raccogliere il cocco dagli alberi. La quiete e le palme da giardino sono ovunque, le alture nei dintorni si stagliano in uno splendore di smeraldo: è lassù che i genitori di Zakariya vivono grazie a un centinaio di alberi della gomma e a un campo di riso, coltivato per mangiarlo in famiglia. Prima di loro così vivevano i nonni e i progenitori dei nonni: solo musulmani arretrati e inferiori, secondo la maggioranza thai.
Ma è un equilibrio che la sete di automazione e di mobilità della Cina nell’ultimo decennio è riuscita a stravolgere. Gli pneumatici di centinaia di milioni di auto, bus e camion della Repubblica popolare, le funi degli ascensori di milioni di grattacieli, i rivestimenti dei tetti, le corregge di migliaia di ponti hanno fatto esplodere la domanda della gomma raccolta qui nel profondo Sud. Dopo generazioni di inerzia sui mercati globali, la quotazione della materia prima improvvisamente si è scossa. La crescita è stata esponenziale. Dal Duemila, il prezzo internazionale è salito da 21 a 290 cent per libbra: un balzo del 725 per cento.
Il padre e la madre di Zakariya non hanno mai avuto bisogno di imparare a leggere e a scrivere; non parlano neppure il thai, solo il dialetto malese della loro provincia. Quanto a Zakariya, fin da bambino ha iniziato a decifrare i caratteri del Corano che aveva in casa, senza sapere cosa dicessero; ma da ragazzo i nuovi redditi dei cento alberi della gomma di suo padre, grazie all’automazione cinese, gli hanno permesso di studiare a Luknow, in India. Legge islamica e arabo. Il primo in famiglia che andava all’università e all’estero. È a Luknow che, durante le ore di lezione, Zakariya ha iniziato a segnare a margine del quaderno di appunti certe piccole note. Scriveva dei suoi sentimenti, la nostalgia di casa, la scoperta di un mondo diverso, seguendo solo l’istinto. «Non sapevo cos’era, ma presto divenne una dipendenza: non potevo più andare in giro senza il mio quaderno. Vivere lontano dalla mia terra mi ha aiutato a capire me stesso.» Imparare l’arabo gli ha permesso di scoprire la grande letteratura mediorientale del Novecento; lo strano inglese di Luknow gli ha aperto una porta su Federico García Lorca, Octavio Paz, Pablo Neruda, i poeti simbolisti francesi.
Quando è tornato in Thailandia, Zakariya si è sistemato a Bangkok e ormai era un altro uomo. Le sue prime poesie ha iniziato a metterle su Internet per farsi conoscere, ma oggi è ormai un imprenditore di se stesso. Ha creato una casa editrice, la 1001 Nights Editions, per pubblicare i suoi libri (35.000 copie di No Women in Poetry vendute in pochi mesi) e quelli degli altri, spesso in forma bilingue: thai nella pagina di sinistra, inglese in quella di destra. E i suoi versi non parlano più solo di nostalgia, idilli agresti o rivolte di campagna. Parlano di come il tempo della sua vita stia accelerando furiosamente sotto i suoi stessi occhi.
La Lirica del non andare e non venire è una fantasia in cui lo Sky Train di Bangkok, il treno sospeso sulla città più congestionata del pianeta, diventa una visione del transito da questa a un’altra forma di esistenza:
Il treno elettrico scivola sulle rotaie
Stendendosi sopra lo scenario
Della megalopoli di tutti gli angeli
Prostitute, ragazzine, impiegati in giacca e cravatta
Poeti, scrittori, giovani segretarie in minigonna
Guardie, capi dipartimento e umili maestri
Gay, donne-uomo, lesbiche in rossetto e drag queen
Le porte si aprono scivolando
Tutti scorrono fuori come un’emorragia
Poi c’è un affrettarsi e sgomitare per le sedie gialle
Quanto diversi sono i signori, le signore e i morti viventi
Sul veicolo del loro giorno?
Inizio a cogliere il senso di dissociazione che emerge dai versi di Zakariya, come se davvero il tempo avesse cominciato a scorrere troppo in fretta anche per lui; leggendo le sue poesie resta un sapore di straniamento fra le molte identità distribuite in momenti diversi, quasi che la vita a una certa curva avesse assunto una progressione incontrollata. Quando la storia viaggia così, il passato, il presente e il futuro convivono senza che si capisca più cosa di noi si trovi esattamente dove.
Forse è per questo che l’ambiguità grava ovunque sul profondo Sud. A 2000 chilometri da Bangkok e dai suoi treni sospesi, quella che si sta consumando qui dove siamo arrivati è una rivolta equivoca e senza volto: i gruppi che colpiscono i buddhisti o anche i musulmani disposti a lavorare per lo Stato thai fanno strage e pulizia etnica nei villaggi osservando il silenzio. Non annunciano i loro obiettivi come l’Eta basca o l’Ira a Belfast, non trasmettono proclami sulla jihad come Hamas o Al Qaeda. Non dicono niente di sé.
La segretezza è il loro culto e la loro ossessione. È come se si negassero proprio mentre affermano la loro presenza. Non rivendicano gli attentati, non espongono le loro richieste, non rivelano neppure gli uni agli altri i veri nomi dei militanti dei gruppi di fuoco. Si limitano a far trovare sul selciato migliaia di morti; al massimo, prendono un video della decapitazione di un soldato dell’Armata reale o di un monaco buddhista, e lo fanno correre di telefono in telefono. Solo interrogando alcuni di loro, dopo anni di ricerche, lo studioso Sascha Helbardt dell’università di Passau si è accorto che ad alcuni di questi assassini non è stato neppure spiegato a quale organizzazione appartenessero, perché non potessero rivelarlo.
Ma nel profondo Sud, il culto del segreto può diventare anch’esso una trappola. Alimenta una pretesa di normalità, la pretesa che la vita stia scorrendo calma e senza tempo nelle attività di sempre. I bambini giocano all’ombra delle case, gli adulti si aggirano indaffarati e ben vestiti. In banca, nell’aria condizionata, stacchiamo tutti un numero e attendiamo civilmente in fila in un ambiente più ordinato e accogliente di quello di tante filiali di credito italiane. Non c’è niente nelle vie di Narathiwat che riveli l’ecatombe in corso.
Quando ci sediamo a una tavola calda provo a stanare Zakariya. Gli chiedo: «La gente di qui sostiene questi gruppi violenti?».
«Credo di sì» mi risponde con cautela. È un ragazzo timido, la faccia da adolescente, i denti macchiati di nicotina per le sigarette senza filtro che si arrotola di continuo.
«E tu che ne pensi?»
«Se la situazione fosse invertita, i buddhisti farebbero lo stesso. Bisognerebbe permettere alla gente di decidere in che Stato vuole vivere.»
Siamo seduti dietro la moschea centrale di Narathiwat, una costruzione in cemento armato degli anni Settanta, nella quiete apparente di una periferia. Sembra una specie di bunker della comunità locale, più che un luogo di preghiera. Lì davanti, l’esercito ha montato una postazione fortificata con sacchi di sabbia e filo spinato. Per non diventare un obiettivo per i terroristi, i soldati l’hanno però lasciata deserta, rendendo di fatto l’intera costruzione inutile, la pretesa di una sorveglianza. Dall’altra parte della strada, alla nostra tavola calda, l’oste siede mangiando con calma, attorniato dalle sue donne intabarrate di veli sul viso, come se non facesse già un caldo insopportabile.
L’integralismo nel profondo Sud ormai è ovunque. I gruppi terroristi vagheggiano l’idea del sultanato indipendente di Pattani, la capitale di queste tre province dove vogliono applicare la sharia. Per loro rappresenta il ritorno alla purezza di un passato mitologico, un’epoca d’oro in realtà mai esistita. Qualunque analisi del Dna mostrerebbe che tra un buddhista e un musulmano non c’è differenza biologica: è la stessa gente che si disprezza da generazioni, incrociata mille volte per secoli.
Al muro della tavola calda, sopra le teste delle donne fasciate nei veli, è appesa la solita foto del re Bhumibol. Ma anche questa è pretesa e dissimulazione, spiega il mio compagno di viaggio: di fronte al posto di blocco deserto, l’oste vuole apparire un cittadino thai insospettabile.
È già l’ora della preghiera quando arriviamo in una scuola coranica fra i palmeti di campagna. L’altoparlante del minareto sta diffondendo i versetti del profeta. Nel giardino giocano bambine di tre o quattro anni che indossano un pesante cappuccio a fasciare la fronte e le mascelle, neanche avessero una qualche ustione al viso. Zakariya nota sottovoce che la legge islamica prevede il velo, sì, ma solo a partire dalla pubertà. «Forse così iniziano ad abituarsi» congettura con un certo rispetto. Ma quando lui era piccolo, aggiunge, le donne portavano appena un pezzo di stoffa appoggiato s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Noi siamo la rivoluzione
  3. Introduzione - La parabola di Keynes
  4. I. Un segreto di famiglia - Nora F.
  5. II. La verità è un gioco d’incastri - Zakariya Amataya
  6. III. Nel nome dei padri - Himanshu Kumar
  7. IV. Indagine su un sovrano scomparso - Jigme Singye Wangchuck
  8. V. La regina della pioggia - Eleni Gabre-Madhin
  9. VI. Il contagio - Mohamed T. Bouazizi
  10. VII. Catanzaro, periferia di Bangalore - Salvatore Scalzo
  11. Copyright