Nuovi Argomenti (19)
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Nuovi Argomenti (19)

  1. 352 pagine
  2. Italian
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Nuovi Argomenti (19)

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Informazioni sul libro

Hanno collaborato: Enzo Siciliano, Piero Fassino, Daniela Daniele, David Foster Wallace, John Edgar Wideman, Charles Bernstein, Judith Butler, Mary Caponegro, Laurie Anderson, Marco Archetti, Andrea Melone, Maurizio Guidoni, Cristiano Spila, Leonardo Pica Ciamarra, Vincenzo Pardini, Gary Lenhart, Annelisa Alleva Fabrizio Bagatti, Sara Ventroni, Alessio Rotisciani, Francesco Giusti, Enzo Golino, Lucia Sgueglia, Mauro Martini, Marisa Volpi.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852041921
Images

IO NON C’ENTRAVO NIENTE

Marco Archetti

Gli uomini non muoiono. Restano incantati
Guimares Rosa
E poi è successa una cosa noiosissima. È morto mio padre.
È stato verso le sei di sera. “L’ora vana”, come diceva zio Gerardito ruttando le cipolle rosse di cui si ingozzava e scorreggiando lirismo sul nostro divano.
È morto. È diventato bianco come un neon, ha ondulato come un vascello e reggendosi lo stomaco è stramazzato a terra, con in gola un urlo stracciato da oca che fatica a deglutire.
Io volevo che tutto finisse prima possibile. Un po’ mi veniva anche da ridere, ed era l’unico motivo per cui in fondo partecipavo anch’io, ma un po’ non ne potevo più.
La mamma mi ha fulminato con un’occhiata aspra.
A me non interessava niente né di lei, esile come uno scarabocchio, né di lui, adagiato alla rinfusa sul letto mentre agonizzava.
Io volevo andare da Dolores.
Odiavo quel letto, odiavo tutto questo, la camera, le occhiate, i respiri innaturali, il caldo.
Ramona mi stava accanto. Rigida come una sentinella. Le mani non sapeva bene dove. Si mordeva la buccia del labbro inferiore. Ma nemmeno a lei fregava nulla della messinscena, anche se la parte si ritagliava benissimo intorno alla sua immobilità e al suo evaporare ovvietà dalla bocca tipo: “Si muore e non ci si accorge nemmeno…”. Occhi che non guardavano niente, alla ricerca di angoli, di orli delle maniche.
C’era un lembo di silenzio immane tra me e mia sorella e mia madre, che non chiedeva altro che essere rotto.
A intervalli regolari, gocce dal rubinetto della cucina che ripetevano la noia sul fondo del lavandino. Erano già sette volte che lo facevamo riparare, e per sette volte eravamo da capo.
“Ad avere i soldi sarebbe da sostituire proprio tutto il rubinetto” aveva sentenziato un giorno mio padre, e mia madre aveva slungato il collo in un convinto: “sì sì, davvero, sarebbe proprio da cambiare” e lo guardava nonostante tutto senza rimprovero, la poveretta, mentre in mutande e con una birra in mano lui fissava il televisore rotto, aggrappato ai braccioli della poltrona in cui rischiava di affondare culo in terra.
“Ad avere i soldi.”
Così andava a finire che si chiamava Anselmo.
Capita in ogni condominio. Ogni condominio ha il suo Anselmo. Solitamente è un ometto gioviale e servile tranne quando gli vengono rivolte domande circa i titoli per cui è unanimemente riconosciuto, tranne che dai fatti, re del fai-da-te-fai-per-tutti. Provateci anche solo una volta, e l’ometto si farà omertoso. Ometto costituito misteriosamente di due parti: una metà che ride e vi saluta con cortesia caramellata per le scale, l’altra che affonda nella fitta tenebra della memoria storica del condominio. La metà che ride è quasi sempre in mutande, ed è l’unica responsabile individuabile dello sfacelo del caseggiato.
Il nostro condominio era un deposito di non so che, una volta, forse birre o saponi, mi è sembrato di capire. Poi è stato il disastro. Ci avevano fatto degli appartamenti dentro, quando il deposito era stato dismesso, ed erano sette, otto, ma a forza di ammezzati, di divisorie, di muri buttati giù, ne hanno ricavati venti, per entrare nei quali si deve sfidare un labirinto incalcolabile di viottoli, passaggi, cunicoli, alveari di cemento. In questo totale sfacelo ci mancava solo Anselmo, che lasciò la sua firma stortando tubature, deviando scarichi, sloggiando lavandini, vietando bidè a famiglie popolose. “È l’unica cosa da fare” si giustificò dopo ore di insensato lavoro e astruso sudore.
L’ascensore non andava mai.
Ma una volta il demiurgo in mutande si misurò anche con questo disservizio.
Durante tutto il pomeriggio in cui l’ometto trafficò sciaguratamente per la tromba delle scale, crepitarono solo le sue bestemmie, e oscuri starnuti metallici, e rumori di cacciaviti, e botte spazientite su superfici rigide. Finalmente alle sette di sera, con in mano uno scalpello da falegname, si impadronì di una scatola scura che sembrava un vecchio radiatore, l’obiettivo prezioso del suo arrancare trovate a punta. L’aveva rimossa dall’interno dell’ascensore con sette fatiche di camicie e fu come se l’avesse partorita lui tanto l’entusiasmo dei convenuti, alla vista dell’aggeggio, fu travolgente. E dopo ancora un’altra ora buona di chirurgia e di maledizioni la scatola fu nuovamente riposta nella sua sede dal nostro eroe, ma con una selva di cavi che uscivano fuori e che prima nessuno aveva notato.
Quasi tutto il condominio aveva seguito quel giorno i prodigi di Anselmo, chi commentando, chi discutendo apertamente mozioni di sfiducia, chi lodandone la buona volontà e auspicando prove del nove. Forse fu l’intervento più seguito.
Finito il tutto, serviva una volontaria.
Anselmo era pallido e fradicio di sudore come il lenzuolo di un bordello, gli occhi cenciati dalla fatica ma abitati, in un impalpabile orizzonte dell’iride, da un’arroganza che aspettava solo di liberarsi alla faccia di tutti.
Serviva una volontaria, che si spicciassero a trovarla, ribadì soffiando sullo scalpello.
Che Teresa fosse segretamente attratta dall’ometto lo aveva sempre pensato chiunque, ma che i suoi palpiti fossero così sconsiderati da indurla ad offrirsi, questo nessuno l’avrebbe previsto. E sta di fatto che ci entrò, in quell’ascensore, e tutta goduta e smorfiosetta all’idea che il suo nome e quello di Anselmo potessero essere legati da quel trionfo nell’immaginario condominiale.
Ci si chiuse a piano terra. Grassa com’era sembrava un animale allo zoo.
All’ultimo piano la attendeva Anselmo: Romeo e Giulietta al contrario, con in mezzo la scoperta della corrente elettrica.
Da là sopra Anselmo si sporgeva compiaciuto nelle sue mutande color carne verso quel pubblico un po’ amico e un po’ no, ma a me, attraverso la tromba delle scale, sembrava semplicemente un vecchio verme rosa con le scarpe scure che faceva espressioni instupidite dalla vanagloria che gli traboccava.
Ad un cenno convenzionale, che fu un teatrale e prolisso conto alla rovescia pronunciato dall’ometto, Teresa pigiò il tasto.
Ci fu un silenzio plateale.
Ogni rumore del mondo si coagulò nell’attesa.
La gabbia si sollevò, questo sì.
Dapprima covò un borbottìo strano che diventò un boato sordo vero e proprio che ne scosse la base, quindi a fatica si sospinse per un mezzo piano assestandosi esattamente a metà tra il secondo e il terzo. E qui avvenne il disastro vero.
Il gabbione si incastrò lì, si immobilizzò all’improvviso. Fiottò un gran polverone da un tubo e nessuno capì il perché e il percome.
Un improvviso comitato di vecchie, come un coro greco, soffiò fuori in una lunga vocale un unisono commento di stupore per la scena. E Teresa se ne stava là, grossa e a mezz’aria, mentre uno sfiato violento stava inondando le scale di polvere nera.
Teresa, sulle prime incredula e immobilizzata, si trasformò in una goffa bestia sperduta. Cacciò delle urla sconnesse e invocò il nome del suo protetto, come se le qualità dimostrate in quell’ennesima occasione non fossero sufficienti a convincerla di cercare salvezza altrove.
Intorno a questa ecatombe – il polverone stava rendendo impossibile la visibilità – si sviluppavano intenzioni impotenti di aiuto, concitate dichiarazioni sul dafarsi, tutto un lancinare di grida e strepiti, di fiati sudati, e le risate di noi ragazzi che rotolavano nell’aria.
“Io lo dicevo che era un’idiota! L’ho sempre detto!”
“Teresa si sente bene? Ci sente ancora?”
Io pensavo: ben ti sta, Teresa, e mi spiaceva solo che la densità del fumo rendesse meno pubblico il ludibrio.
Sta di fatto comunque che l’apocalisse condominiale non si chiuse qui.
Mentre qualcuno, confusamente, chiamava i pompieri o cercava aiuto gridandolo genericamente, e mentre da quell’imbuto nero di fumo filtravano solo gli starnazzi di quella puttana terrorizzata, si verificò una specie di esplosione. Un tuono mostruoso.
Anselmo, dall’ultimo piano, aveva perso il controllo e strillava istericamente; voleva darsi da fare in qualche catastrofica maniera ma era imprigionato dal fumo, a un passo dalla vittima che non sapeva come trarre in salvo. La chiamava ad alta voce, ululava il suo nome, invocava l’Altissimo altrove bestemmiato con buon sapore. Il marito di Teresa era più calmo di lui, lombrico anziano e strillone tra fumo e fumo.
A un certo punto si era pure levato le scarpe, le agitava scompostamente per cacciar via il fumo, gridava: “Salvatela porca puttana salvatela!”
In seguito all’esplosione che fece sobbalzare tutto il piano terra frustandone le fondamenta, Teresa intensificò le grida arricchendole di connotazioni millenaristiche.
“Moriremo tutti! Aiuto! Che dio abbia pietà! Maria vergine! Si penta chiunque abbia commesso immondi peccati! Si penta una volta per tutte, ora o mai più!”
Fu a quel punto che tra il fumo, le grida, le braccia protese in alto, gli occhi in cerca, l’ascensore crollò in maniera miserabile. Uno stridore pauroso. Con uno schianto da altro mondo si fracassò al suolo sputando ferracci ovunque. Pezzi da tutte le parti, un principio di incendio, lamiere in disgrazia.
Teresa la estrassero i pompieri mezz’ora dopo.
Fu dichiarata sotto choc. Tutti furono invitati a fare un passo indietro, e lasciamola respirare, signori.
Appena i pompieri la disincastrarono dalle viscere contorte e ustionate dell’ascensore, dopo un attimo di completo stordimento in cui si lasciò cadere a terra biascicando nomi di santi, Teresa cercò immediatamente di rimettersi in piedi. Quando si accorse di non riuscirci si gettò a corpo morto nelle braccia del primo pompiere che le capitò a tiro, grossa, orribile e svenevole sotto gli occhi del marito ancora più mortificato del solito, rimpicciolito dall’attenzione generale.
Nello stomaco di noi ragazzi scuocevano risatacce trattenute ai limiti dell’infarto, infarto che quasi sopraggiunse quando mia madre mi venne incontro per allontanarmi da lì, “che questa non è più una donna, ma un immondezzaio!”
Teresa aveva iniziato di punto in bianco a strillare porcherie irriferibili.
Il marito era il più sconvolto di tutti: aveva accompagnato in ascensore una moglie severa, morigerata e bigotta, e aveva estratto dal fumo una baldracca sboccata e sconveniente.
Non appena Teresa trascese sul serio, i bambini vennero precipitosamente allontanati.
Francelino perse una macchinina nell’urgenza educativa che lo strattonò lontano, verso il pianerottolo.
Le vecchie che poco prima avevano partecipato al comitato di soccorso morale si trasformarono istantaneamente in un pulpito rancoroso. Affermazioni di sdegno e di condanna sommuovevano il loro capannello.
Una gridò: “Vergogna!”
Un’altra: “E sì che ha visto la morte in faccia!”
Un’altra ancora: “Che gran ribrezzo! Doveva morirci, lì dentro!”
Dominica scosse il capo nella disapprovazione più energica che il suo collo ebbe mai provato e prima di farsi inghiottire dalla porticina di casa per salvarsi da quelle sconcezze, distribuì due schiaffoni, uno ad Anselmo ed uno al marito, che se ne stava ovviamente in un angolo, succube e triste come uno strofinaccio.
Qualcuno paventò la denuncia per lesione della Pubblica Decenza.
“Ma non vedete che è sotto choc? Non sa quello che dice!” azzardò qualcuno dal gruppo dei condomini, che oramai non era altro che un astioso consesso di lapidatori.
“Ma noi no, e non siamo obbligati a sorbirci queste porcate vergognose! Ci sono dei bambini, diavolo!” gli fece di rimando Manoela, una puttana ripulita, e così ripulita che ora luccicava come un sacrario. Peccato, pensavo ogni volta che la incontravo per le scale. Avrebbe potuto darmi delle soddisfazioni, credo, con quelle chiappe che si ritrovava.
“E senti chi parla! Proprio tu ti formalizzi, eh? Tu che eri una puttana. E lo sanno tutti: mica per il pane, ma perché ti piacevano i bei vestiti!” si intromise Anselmo.
“E tu che vuoi, razza di imbecille!” si indispettì Manoela, e se mio padre non l’avesse fermata, era lì lì per aggredire l’ometto in mutande. Lo chiamò orrido fornicatore, incantatore di fiche. Guardatelo tutti, disse, guardatelo.
“Anche tuo marito, quando era vivo, pace all’anima sua, le incantava tutte!” ammonì un lucido evocatore di reminiscenze del passato. Aveva capelli unti e denti dispari, anche quelli pari, e non ragionava male. Una grande catena intorno a un collo da attaccabrighe di quartiere.
“Taci, cane, che anche mia sorella dice che hai l’uccello molle come una banana marcita!” si imbizzarrì Manoela mentre cercava di snodarsi dalla presa di mio padre. Era tutta sussulti, nervi arricciati, una voce da sgozzata che esplode ancora tentativi.
A quel punto il tizio dai capelli unti sparì nella porta di casa sua, mio padre allentò la presa su Manoela non sospettando che un secondo dopo l’energumeno ne sarebbe subito rispuntato esibendo un cric per automobili, gridando: “Vieni qui ora, prugna secca!”
In men che non si dicesse il nostro caseggiato diventò una polveriera.
Di Teresa non si curò più nessuno. I pompieri erano intenti a sedare i numerosi focolai di rissa, di accuse, di efferatezze verbali. Da tutte le parti piovevano insulti, recriminazioni, oggetti.
Perfino la polizia fece irruzione in questa sacrestia.
I due agenti invitarono alla calma, capirono che non era aria e se ne andarono lasciandosi alle spalle molli inviti alla ragionevolezza.
Dopo qualche ora, a notte fonda, si calmarono quasi tutti, ma da quella volta il condominio fu attraversato da correnti polemiche, da un chiudere le porte di fretta, da penombre colme di bisbigli.
In quel periodo, se non girellavo, stavo nella terrazza all’ultimo piano per quasi tutto il pomeriggio.
Aspettavo la sera nell’odore di fiori marci e di immondizia fresca, quando i profili lontani degli hotel sono fiammate di luce verde o rosse o blu sullo sfondo della notte e l’oscurità è l’unica promessa che ogni giorno viene mantenuta.
Images
Eravamo cresciuti così, io e Ramona. Randagi e a casaccio. Canottiere sudicie, scarpe sfondate, caseggiati depressi, un secchio pieno di pioggia nel corridoio e giornali vecchi appallottolati a riempire il materasso sfondato dei miei. Poco altro.
Ramona era molto bella. Cinque anni meno di me ma era già una femmina fatta e finita, con tutte le ghiandole e i modi di fare.
Io la controllavo quando potevo: non avrei mai accettato per lei un balordo qualunque.
Qualche volta la seguivo, o altrimenti la facevo seguire da Guillermo. La tenevo come una rosellina, Ramona.
Una volta ho picchiato Rulo, quel tipo colpito dal fulmine.
Si faceva sotto con Ramona e una volta, passandogli alle spalle mentre spacconava con Estebàn il poliomelitico, gli ho sentito dire: “Ramona? Una bella giraffa, quella mulattina.” E stava appoggiato a una ringhiera con fare da giramondo.
A me avevano dato fastidio quelle parole e da quando Rulo tampinava smaccatamente Ramona tutte le sue compagne la prendevano in giro, e non so per quale misterioso meccanismo ma anche le mie quotazioni erano in discesa.
Serviva un gesto significativo.
Allora una sera l’ho stretto ad un portone e gli ho chiesto che cazzo volesse da lei. L’ho preso per il bavero, gli tenevo il pugno dritto dritto sotto il mento.
Lui balbettava, “ti sbagli, chi? io?, no no, ti stai sbagliando, io non dò fastidio a nessuno, tantomeno a tua sorella”, ed era bianco come un cencio per le polveri. Faceva certi sguardi tortuosi per evitare il mio. Guardava oltre, troppo oltre per non innervosirmi. Forse voleva fare segno a qualcuno che passava.
Visto così da vicino, Rulo era davvero ripugnante. Nemmeno per montagne di soldi sarebbe riuscito ad avere in bocca la lingua di mia sorella. Aveva capelli brevi e bruciacchiati, evidentemente il fulmine era un ricordo ancora vicino.
A un certo punto, mentre gli occhi gli giravano impazziti nelle orbite alla ricerca di salvezza, non so che gli sia preso ma mi ha sputato e si è messo a strillare il nome di Estebàn, Estebàn aiuto!, aiutami!, c’è un bastardo che mi ammazza!
Saranno state molto meno efficaci di un fulmine, ma anche le mie nocche, quella volta, hanno fatto bene il loro lavoro. Un pugno secco, una castagna lì per lì in mezzo alla faccia, dritto dritto e sicuro. Ho sentito il suo naso fare un rumore da mollusco calpestato, un crepitìo piccolo, molle, sordo.
Si è messo a sedere strillando come un pazzo, le mani con cui si reggeva il naso si sono colmate di sangue, nel giro di un secondo era conciato come un macellaio.
Mentre mi allontanavo dall’androne sentivo i passi di qualcuno che accorreva tiepidamente. La solita rissa tra ubriachi, avrà pensato.
Ho incrociato anche Estebàn che si affrettava verso la voce di Rulo, non aveva il coraggio di chiamarlo, tentava di correre che era una pena a vederlo, la gamba che balbettava e il corpicino gaglioffo appresso.
Io, in quel periodo, non facevo granché. Il pestaggio di Rulo fu un fatto saliente. Magari in un altro momento avrei fatto finta di niente. Quando si dice essere nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Per il resto camminavo in giro, pensavo non so a che cosa, stavo sulla terrazza dell’ultimo piano, pisciavo nella cabina della portinaia, scopavo con Dolores, riprendevo a parlare a Guillermo più che altro perché mi mancava un gendarme per controllare mia sorella.
A scuola non me la cavavo affatto male.
“È più furbo che intelligente” aveva detto una volta il professore di storia a mio padre.
“Si troverà benissimo in questo Paese, allora. Anche voi professori di storia dovete essere più furbi che intelligenti, di questi tempi, no?” aveva polemizzato mio padre.
“Non capisco cosa voglia dire” aveva fatto lo gnorri il professore.
“Vede che non è intelligente?” aveva ribattuto mio padre in semi-ebollizione.
Il colloquio finì in un parapiglia, un bidello in infermeria.
Il giorno dopo presentai le scuse di mio padre scritte in un biglietto molto formale per il preside. L’aveva scritto sotto dettatura di mia madre come uno scolaro testone.
Silvestro era il compagno di classe col quale avevo il rapporto migliore: era letteralmente imbottito di giornaletti pornografici. Non sapevo come facesse a procurarseli, da noi era roba assolutamente vietata, e farteli trovare da qualcuno poteva andare a finire in un’ora al Comando trattato da sudicio e da ladro.
“Meglio così che comunista” sussurrò Gerardito quella volta che mi pescò in bagno, entrando inavvertitamente, con quel genere di stampa fra le mani. Si attardò con me. Commentò tutti i culi, uno per uno.
Bélize era quella che stava davanti alla mia fila. Negra. Aveva una fragranza così selvatica, un odore a metà tra terra bagnata e pelle infantile che io ci impazzivo. L’avrei scopata molto volentieri ma la volta che le offrii due dollari mi diede uno schiaffo. Il consiglio era stato di zio Gerardito.
“Tutte le donne sono puttane. E se non sono puttane è solo perché gli hai dato troppo poco”, sosteneva col crepuscolarismo che gli era proprio.
Di Ferdinando, il migliore della classe, si diceva assurdamente che fosse frocio, forse per screditarlo gratuitamente dato che era l’unico che aveva ufficialmente scopato. Omara lo adorava. Si sarebbe fatta fare qualunque cosa da lui. Lui l’aveva posseduta fugacemente nei bagni del secondo piano. Da quel giorno lui non rivolse la parola quasi più a nessuno e il gruppo di gallinelle di cui Omara era epicentro, al solo suo passare, vociferava elett...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Nuovi Argomenti (19)
  3. ARGOMENTI
  4. SETTEMBRE AMERICANO
  5. CINQUE ESORDI
  6. SCRITTURE
  7. CANTIERE
  8. GIORNALI DI BORDO
  9. Copyright