L'oceano in fondo al sentiero
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L'oceano in fondo al sentiero

  1. 192 pagine
  2. Italian
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L'oceano in fondo al sentiero

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Informazioni sul libro

Sussex, Inghilterra. Un uomo di mezza età ritorna alla casa della sua infanzia per un funerale. Sebbene la casa non ci sia più da un pezzo, l'uomo è irresistibilmente attratto dalla fattoria in fondo al sentiero, dove a sette anni aveva conosciuto una ragazza fuori dal comune - Lettie Hempstock -, sua madre e sua nonna. Erano decenni che non pensava più a Lettie. Eppure non appena si siede vicino allo stagno (quello stagno che lei sosteneva essere un oceano) accanto alla vecchia fattoria in rovina, ecco che il passato ritorna con i suoi ricordi, troppo strani, spaventosi e pericolosi per essere ricordi di episodi davvero successi a qualcuno, tanto meno a un ragazzino.
Quarant'anni prima un uomo, un inquilino della casa di famiglia, aveva rubato la loro auto, dentro la quale si era suicidato proprio in fondo al sentiero. Quella tragica morte aveva evocato antiche forze che andavano lasciate in pace. Si erano scatenate oscure creature che venivano da chissà dove e il narratore era dovuto ricorrere a tutte le sue risorse per sopravvivere. L¿orrore più terribile e minaccioso aveva creato devastazioni indicibili. E lui, ai tempi solo un ragazzino, disponeva come unica difesa di tre donne che vivevano in una fattoria in fondo al sentiero... La più giovane di loro affermava che lo stagno è un oceano. La più anziana si ricordava del Big Bang.
Questo attesissimo romanzo di Gaiman è una storia poetica, commovente, terrificante ed elegiaca che ci parla dei ricordi e della magia che si nasconde negli angoli meno frequentati della realtà.
Ci sono libri che leggi. Poi ci sono libri che ti piacciono. Ma raramente capita di imbattersi in un libro come questo che ti inghiottisce anima e corpo fin dalla prima pagina.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852043666

VIII

Ero bagnato fradicio, in preda a un tremito convulso e avevo freddo, molto freddo. Sembrava che mi avessero rubato tutto il calore. I vestiti si incollavano alla pelle e gocciolavano acqua fredda sul pavimento. A ogni passo, i sandali che indossavo facevano delle buffe pernacchie, e l’acqua affiorava dai due buchetti a forma di losanga.
Mi tolsi tutti i vestiti, li ammonticchiai di fronte al caminetto, e sul pavimento cominciò a formarsi una pozza. Presi la scatola di fiammiferi dalla mensola, aprii il rubinetto del gas e accesi il fuoco.
(Sto fissando uno stagno, riportando alla memoria cose piuttosto difficili da credere. Come mai ho l’impressione che la più difficile da credere, col senno di poi, sia che una bambina di cinque anni e uno di sette avessero un caminetto a gas in camera?)
Poiché in camera non c’erano salviette, rimasi per un po’ impalato e zuppo senza sapere come asciugarmi. Alla fine agguantai il mio copriletto leggero e me lo strofinai addosso, poi mi infilai il pigiama. Era di poliestere rosso, lucido e a righe. La macchia nera caramellata sulla manica sinistra risaliva alla volta che mi ero avvicinato troppo alla fiamma del caminetto e il pigiama aveva preso fuoco, e solo per miracolo non mi ero ustionato il braccio.
Appesa dietro la porta c’era una vestaglia che non usavo quasi mai e che pareva messa lì apposta per gettare ombre sinistre sul muro quando la luce del corridoio era accesa e la porta aperta. La indossai.
La porta della camera si aprì all’improvviso e mia sorella entrò per prendere la camicia da notte da sotto il cuscino. «L’hai fatta talmente grossa che mi hanno proibito persino di stare nella stessa stanza insieme a te» mi informò. «Stanotte dormo nel letto di mamma e papà. E papà dice che posso guardare la televisione
Dentro un mobiletto di legno marrone nell’angolo della camera dei miei c’era un vecchio televisore che non veniva acceso quasi mai. La sincronizzazione dello schermo funzionava male e le confuse immagini in bianco e nero avevano la tendenza a scorrere verso il basso come un lento nastro: la testa delle persone svaniva dal fondo dello schermo mentre, con una certa solennità, i piedi scendevano dall’alto.
«Non m’importa» replicai.
«Papà ha detto che gli hai rovinato la cravatta. Ed è pure tutto bagnato» rincarò mia sorella con tono compiaciuto.
Sulla porta comparve Ursula Monkton. «A lui non rivolgiamo nemmeno la parola» ricordò a mia sorella. «E non gliela rivolgeremo finché non avrà il permesso di ricongiungersi alla famiglia.»
Mia sorella si dileguò nella stanza accanto, la camera dei miei. «Tu non fai parte della mia famiglia» dissi a Ursula Monkton. «Quando torna mamma, le racconto cosa ha fatto papà.»
«Tanto non tornerà prima di due ore. E che cosa puoi raccontarle che ti sia d’aiuto? Lei sta sempre dalla parte di tuo padre, no?»
Già. I miei facevano fronte comune in qualsiasi circostanza.
«Non mettermi i bastoni fra le ruote» riprese Ursula Monkton. «Ho degli affari da sbrigare, qui, e mi stai facendo perdere tempo. La prossima volta sarà molto, molto peggio. La prossima volta ti chiudo in soffitta.»
«Non ho paura di te» la rimbeccai. Avevo paura di lei più di quanta ne avessi avuta di qualsiasi altra cosa.
«Che caldo qui dentro» disse Ursula Monkton sorridendo. Si avvicinò al caminetto a gas, si chinò a spegnerlo e arraffò la scatola di fiammiferi dalla mensola.
«Tanto sei sempre soltanto una zecca.»
Il sorriso svanì dalle sue labbra. Alzò la mano verso la cornice della porta, dove un bambino non sarebbe potuto arrivare, e prese la chiave che vi era appoggiata. Uscì dalla camera e richiuse la porta. Sentii girare la chiave, sentii lo scatto della serratura.
Dalla stanza accanto giungevano voci televisive. Quando la porta del corridoio si chiuse, tagliando fuori le due camere dal resto della casa, capii che Ursula Monkton stava scendendo di sotto. Mi avvicinai alla serratura e sbirciai attraverso il buco. Avevo letto in un libro che con una matita si poteva spingere la chiave e farla cadere dalla toppa su un foglio di carta, tirare il foglio e liberarsi… solo che la toppa era vuota.
Mi misi a piangere. Piansi, infreddolito e ancora bagnato in quella camera da letto, piansi di dolore e di rabbia e di terrore, piansi al sicuro sapendo che nessuno sarebbe entrato e mi avrebbe visto, che nessuno mi avrebbe preso in giro perché piangevo, come venivano presi in giro i maschi della mia scuola tanto sprovveduti da abbandonarsi alle lacrime.
Udii il tenue picchiettio della pioggia contro il vetro della finestra, ma nemmeno quello riuscì a darmi gioia.
Piansi finché non ebbi più lacrime. Ripresi fiato a grandi boccate e pensai che Ursula Monkton, mostro di cenci sbatacchianti, verme e zecca insieme, mi avrebbe scoperto se avessi tentato di uscire dalla proprietà. Ne ero sicuro.
Ma Ursula Monkton mi aveva chiuso dentro. Non si aspettava certo una mia fuga proprio adesso.
E forse, con un po’ di fortuna, avrei potuto coglierla in un momento di distrazione.
Aprii la finestra e rimasi ad ascoltare la notte. Il rumore lieve della pioggerella era quasi un fruscio. Era una notte fredda e avevo già i brividi. Mia sorella, nella stanza accanto, stava guardando chissà cosa alla tv. Non mi avrebbe sentito.
Mi avvicinai alla porta e spensi la luce.
Attraversai la camera buia, mi rimisi a letto.
“Sono nel mio letto” cominciai a pensare. “Sono disteso nel mio letto e sto pensando a quanto sono sconvolto. Tra pochissimo mi addormenterò. Sono nel mio letto e so che ha vinto lei, e se verrà a controllare mi troverà a letto, addormentato.”
“Sono nel mio letto ed è ora di dormire… non riesco nemmeno a tenere gli occhi aperti. Ora prendo sonno. Prendo sonno nel mio letto…”
Mi alzai in piedi sul letto e scavalcai la finestra. Restai un istante in bilico sul davanzale prima di lasciarmi scivolare, il più silenziosamente possibile, sul balcone. Quella era la parte facile.
Negli anni avevo imparato molti trucchi dai libri. Erano stati i libri a insegnarmi quasi tutto ciò che sapevo di quello che fanno le persone, di come ci si comporta. Erano i miei maestri e i miei consiglieri. Nei libri i ragazzini si arrampicavano sugli alberi, e allora avevo cominciato ad arrampicarmi anch’io, certe volte molto in alto, sempre con il terrore di cadere. Nei libri si entrava e usciva dalle case utilizzando le grondaie, e così avevo imparato anch’io a salire e scendere dalle grondaie, quelle di ferro massiccio di una volta, con i collari che le fissavano ai mattoni, non certo i leggeri affari di plastica che usano oggi.
Non mi ero mai calato da una grondaia al buio, né sotto la pioggia, ma sapevo dov’erano gli appoggi. Sapevo anche che la difficoltà maggiore non era tanto evitare di cadere, evitare il volo di cinque metri che mi avrebbe fatto precipitare nella terra bagnata dell’aiola, quanto che la grondaia scendeva verso la stanza della tv nella quale, non avevo dubbi, avrei trovato Ursula Monkton e mio padre.
Mi sforzai di non pensarci.
Montai sul parapetto e la cercai a tentoni. La grondaia era fredda e scivolosa di pioggia. Tenendomi forte con entrambe le mani slanciai la gamba verso di essa, appoggiando prima un piede nudo, poi l’altro, sul collare di metallo che la circondava, fissandola saldamente al muro di mattoni.
Scesi, un passo per volta, immaginandomi nei panni di Batman, nei panni degli eroi e delle eroine delle centinaia di storie d’amore tra compagni di scuola che avevo letto, e poi, tornato in me, immaginando di essere una goccia di pioggia sul muro, un mattone, un albero. “Sono nel mio letto” pensai. Non ero lì, appena sopra la finestra priva di tende della stanza della tv, da cui la luce si riversava all’esterno trasformando la pioggia in una coltre di linee scintillanti.
“Non guardatemi” pensai. “Non guardate fuori dalla finestra.”
Proseguii raddoppiando la cautela. Normalmente sarei passato dalla grondaia al davanzale, ma stavolta era una soluzione impraticabile. Mi calai circospetto di qualche altro centimetro, ancora di più appiattato nell’ombra, al riparo dalla luce, e lanciai un’occhiata terrorizzata nella stanza, aspettandomi di incrociare lo sguardo di mio padre e di Ursula Monkton.
La stanza era vuota.
Le luci erano accese e così il televisore, ma sul divano non era seduto nessuno e la porta che dava sul corridoio era aperta.
Posai allora il piede sul davanzale, sperando a dispetto di ogni speranza che nessuno dei due tornasse proprio in quel momento e mi scoprisse, e da lì mi lasciai cadere sull’aiola, sulla terra bagnata e cedevole.
Stavo per mettermi a correre, correre senza pensare ad altro, quando notai la luce accesa nel salotto dove noi bambini non entravamo mai, la stanza con le boiserie di rovere riservata alle occasioni speciali.
Le tende erano tirate. Erano di velluto verde a righine bianche, e dai bordi lasciavano filtrare una luce soffusa e dorata.
Mi avvicinai alla finestra. Da uno spiraglio riuscivo a vedere l’interno, a vedere quello che avevo proprio davanti agli occhi.
Non ero sicuro di comprendere la scena alla quale stavo assistendo. C’era mio padre che spingeva Ursula Monkton contro il fianco del grande caminetto, sulla parete di fronte. Mi dava la schiena così come lei, le mani premute contro la mensola, alta e massiccia, mentre mio padre la abbracciava da dietro. La longuette era tirata su fino alla vita.
Non sapevo di preciso cosa stessero facendo né mi interessava più di tanto, non in quel momento. Mi interessava soltanto che l’attenzione di Ursula Monkton fosse rivolta a qualcosa che non ero io. Diedi le spalle alle tende, alla luce, alla casa, e fuggii, a piedi nudi, verso l’oscurità bagnata di pioggia.
Il buio non era assoluto. Era una di quelle notti di cielo coperto in cui la cappa di nubi sembra raccogliere la luce delle case e dei lampioni per rifletterla poi verso la terra. Ci vedevo a sufficienza, adesso che gli occhi si erano abituati. Raggiunsi il fondo del giardino, oltre il mucchio di concime e l’erba tosata, e imboccai il pendio incolto che mi separava dalla stradina, continuando a correre nonostante i rovi che mi graffiavano le gambe, le spine che si conficcavano nei piedi.
Scavalcai la bassa recinzione di metallo e mi ritrovai nella stradina. Appena superato il confine della proprietà, mi sembrò come se un mal di testa che non sapevo di avere passasse tutto a un tratto. Bisbigliai, con insistenza: «Lettie! Lettie Hempstock!» e intanto pensavo: “Sono a letto. Sto solo sognando. Sogni particolarmente realistici. Sono nel mio letto”, ma ero anche convinto che in quel momento Ursula Monkton avesse ben altro per la testa che me.
Correvo con negli occhi l’immagine di mio padre che abbracciava l’arpia travestita da governante e la baciava sul collo. Vidi la sua faccia attraverso l’acqua fredda della vasca mentre mi teneva giù, e non ebbi più paura di quello che era successo nel bagno; adesso avevo paura di ciò che poteva significare che mio padre stesse baciando il collo di Ursula Monkton, che le sue mani le avessero sollevato la gonna fino alla vita.
I miei genitori erano una cosa sola, inviolata, ma adesso il futuro era diventato all’improvviso inconoscibile. Sarebbe potuto succedere di tutto. Il treno della mia vita era deragliato tagliando per i campi, e in quel momento sferragliava lungo la stradina insieme a me.
Correvo e non m’importava che la breccia mi martoriasse i piedi. Molto presto, ne ero certo, l’essere che aveva assunto le sembianze di Ursula Monkton avrebbe finito di occuparsi di mio padre. Magari sarebbero saliti tutti e due di sopra a controllarmi. Lei avrebbe scoperto la mia fuga e mi avrebbe inseguito.
“Se decidono di inseguirmi useranno la macchina” pensai. Cercai un varco nelle siepi ai lati della strada. Notai uno scalandrino, mi arrampicai e continuai la mia corsa lungo il prato, seguendo il tracciato della strada, il cuore che batteva come il più grande e fragoroso tamburo che esistesse o fosse mai esistito, correndo a piedi nudi con la vestaglia e il pigiama completamente fradici al di sotto del ginocchio, e appiccicosi. Correndo senza badare alle cacche di mucca. Il prato era più gentile con i miei piedi di quanto fosse stata la breccia fino a poco prima. Ero più felice e mi sentivo più vero a correre sull’erba.
Alle mie spalle rombavano i tuoni, sebbene non avessi visto alcun lampo. Scavalcai una staccionata e i piedi affondarono nella terra morbida di un campo appena arato. Proseguii barcollando, cadendo talvolta, ma continuando ad avanzare. Un altro scalandrino e passai nel campo successivo, questo non arato, e stavolta mi tenni rasente la siepe, per paura di ritrovarmi troppo allo scoperto.
Alle mie spalle, lungo la strada, sopraggiunsero i fari di un’auto, improvvisi e accecanti. Mi fermai di colpo e chiusi gli occhi, immaginandomi addormentato nel letto. L’auto proseguì senza rallentare, e feci in tempo a scorgere le luci rosse posteriori che si allontanavano: un furgoncino bianco, che credo appartenesse agli Anders.
Adesso però la strada sembrava meno sicura, e decisi perciò di allontanarmi tagliando per il campo. Giunto in prossimità del terreno confinante vidi che a dividerlo dall’altro erano soltanto sottili fili di ferro, facili da superare infilandosi sotto, visto che non era nemmeno filo spinato. Tesi la mano, ne sollevai un tratto pronto a passare e…
Fu come ricevere un pugno, un cazzotto violento in pieno petto. Il braccio intero era in preda alle convulsioni, il palmo mi bruciava come se avessi sbattuto con la punta del gomito contro un muro.
Lasciai andare il recinto elettrificato e indietreggiai barcollando. Non riuscivo più a correre, ma nel vento e nella pioggia e nel buio seguii i fili a passo svelto, facendo attenzione a non toccarli, finché non mi imbattei in un cancelletto di legno. Lo scavalcai e attraversai il campo dirigendomi verso il buio ancora più fitto che avvolgeva il lato opposto – alberi, immaginai, e boscaglia – senza avvicinarmi troppo ai bordi del terreno nel timore che ci fossero altri recinti elettrificati ad aspettarmi.
Esitai, incerto sulla direzione da prendere. Come in risposta, il mondo si illuminò per un istante alla luce di un fulmine, ma un istante mi fu sufficiente. Avvistai uno scalandrino e corsi da quella parte.
Mi arrampicai atterrando su un cespuglio di ortiche, come capii dal bruciante prurito caldo-freddo che si diffuse sulle caviglie nude e sul collo dei piedi, ma ripresi a correre, adesso, a correre più che potevo. Sperai di essere ancora diretto verso la fattoria degli Hempstock. Dovevo esserlo. Percorsi un altro campo prima di rendermi conto di aver perso complet...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L'oceano in fondo al sentiero
  3. Prologo
  4. I
  5. II
  6. III
  7. IV
  8. V
  9. VI
  10. VII
  11. VIII
  12. IX
  13. X
  14. XI
  15. XII
  16. XIII
  17. XIV
  18. XV
  19. Epilogo
  20. Ringraziamenti
  21. Copyright